Libia 1911 - Europa 1914 (parte IV)
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La guerra italo-turca o di Libia (1911)

Il nostro Stato Maggiore aveva elaborato un piano di occupazione della Tripolitania sin dal 1885, ossia subito dopo l’occupazione francese della Tunisia e la nostra occupazione di Massaua. Quest’ultima, infatti, avrebbe potuto portare sin d’allora ad uno scontro con la Turchia i cui possessi arabi fronteggiavano, sul Mar Rosso, l’Eritrea italiana.

Il rinnovo nel 1891 della Triplice Alleanza aveva contemplato un articolo con il quale la Germania si impegnava ad appoggiare eventuali imprese italiane nell’Africa del Nord, a condizione che qualsiasi nostra impresa non mettesse a repentaglio lo status quo europeo e, pertanto, non fosse contrastata dall’Inghilterra.

Ingoiato il rospo dell’occupazione francese della Tunisia, l’Italia era riuscita perlomeno ad ottenere, nel 1900, la stipula di un accordo segreto con il quale, in cambio del nostro appoggio diplomatico ai cugini d’oltralpe nella loro penetrazione in Marocco, la Francia dichiarava il proprio disinteresse per la Libia.

Il 24 ottobre 1909 l’Italia, sotto un governo filo-giolittiano, stipulò con la Russia zarista un accordo, detto dal luogo della stipulazione di Racconigi, con il quale il nostro Paese e l’impero russo si impegnavano a mantenere lo status quo nei Balcani.

L’accordo di Racconigi era un patto segreto stipulato all’insaputa degli alleati della Triplice, Germania ed Austria, e mirava soprattutto ad ostacolare l’espansionismo austriaco verso i Balcani.

Il contenimento della presenza asburgica nei Balcani costituiva un obiettivo comune alla Russia, che mirava ad imporre nell’area la propria egemonia anche facendo leva sul suo ruolo storico di potenza protettrice degli slavi ortodossi, ed all’Italia, che guardava verso i Balcani sia per affinità ideologiche, risorgimentali, con i movimenti irredentistici slavi sia per la tutela dei nostri interessi economici nella regione.

Con questo trattato segreto, che consentiva quello che sarebbe diventato l’accerchiamento da sud degli imperi centrali dopo l’accerchiamento da nord rappresentato dall’alleanza anglo-russa, l’Italia iniziava, di fatto, a staccarsi dalla Triplice Alleanza pur senza per il momento denunciarla (lo farà nel 1915 quando entrerà nella Prima Guerra Mondiale a fianco dell’Intesa anglo-russo-francese).

Tutto ciò, però, non era ancora sufficiente affinché il governo italiano, nel 1911 presieduto da Giolitti, potesse avviare l’impresa libica senza pericoli di incidenti sul piano diplomatico ed internazionale. Quella sopra descritta era soltanto la cornice diplomatica nella quale una eventuale impresa coloniale avrebbe potuto svilupparsi. Era però, a quel punto, necessario passare dalla potenza all’atto rendendo concretamente operativa quella cornice diplomatica senza che il gioco sfuggisse di mano. Cosa che, poi, come vedremo, avvenne puntualmente con tragiche conseguenze europee e mondiali.

L’occasione per mettere alla prova la rete diplomatica costruita dall’Italia, nei decenni precedenti, venne dalla crisi marocchina del 1911, l’ultima in ordine di tempo di una serie di tensioni tra potenze europee registratesi nell’Africa nord-occidentale.

A partire dal 1906 la Francia aveva intensificato la sua penetrazione in quell’area. Nel 1911 aveva occupato, approfittando di torbidi interni, la capitale del Marocco, Fez, provocando l’opposizione della Germania, che si proclamò garante dell’indipendenza del Marocco inviando un incrociatore nelle acque di Agadir, il 1° luglio.

Dopo mesi di tensione, Francia e Germania raggiunsero un accordo nel novembre 1911 in base al quale la prima vedeva riconosciuti i suoi diritti coloniali in Marocco (a parte Tangeri, proclamata città libera, e la parte settentrionale del Paese assegnata alla Spagna) e la seconda si vide fare concessioni territoriali nell’area dell’Africa equatoriale che allargavano i confini della sua colonia del Camerun.

Giolitti, in accordo con il re, chiuse il parlamento nel luglio 1911 (fu riaperto solo nel febbraio 1912), proprio mentre infuriava la crisi marocchina tra Francia e Germania che, agli occhi dell’opinione pubblica, la quale non comprese i veri obiettivi della mossa governativa, sollecitava l’immediato intervento italiano in Libia onde mettere le altre potenze di fronte al fatto compiuto.

Per questo atteggiamento di apparente disinteresse la credibilità politica di Giolitti venne letteralmente fatta a pezzi dalla stampa, quasi tutta su posizioni interventiste. In realtà la chiusura delle camere corrispondeva ad una ben precisa strategia governativa che era quella di non aver tra i piedi intralci parlamentari mentre si stava lavorando all’avvio dell’occupazione della Libia.

Giolitti, infatti, attraverso la nostra diplomazia, rammentò alle altre cancellerie europee, quelle di Germania, Francia e Russia, i termini dei vari accordi del 1891, del 1900 e del 1909 annunciando loro l’intenzione di sbarcare in forze a Tripoli. Le altre potenze, inclusa l’Inghilterra interessata ad indebolire la Triplice Alleanza appoggiando l’iniziativa italiana in Tripolitania, non erano, nessuna, nelle condizioni di obiettare alcunché.

Il 28 settembre 1911 l’Italia presentò alla sublime porta un ultimatum con il quale imponeva alla Turchia di permettere l’occupazione italiana della Tripolitania e della Cirenaica entro le successive ventiquattro ore, motivando il diktat con i danni economici che la politica anti-italiana, intrapresa da anni in quelle regioni africane dal nuovo governo dei Giovani Turchi, stava provocando ai nostri interessi nazionali.

L’ultimatum era congegnato in modo tale che non era possibile alla Turchia replicare in tempo onde aprire, agli occhi del mondo, una via al negoziato. Infatti il brevissimo termine di un giorno, concesso dall’Italia, non fu sufficiente al governo turco per far pervenire la propria disponibilità al negoziato. La risposta di Istanbul arrivò tardi ed era una risposta circostanziata e prudente, che pur senza accettare il diktat italiano mostrava la chiara volontà di aprire trattative diplomatiche per risolvere la questione. Infatti, ad Istanbul erano convinti che ormai la Libia dovesse considerarsi persa dal momento che nessuna altra potenza europea si era opposta all’ultimatum italiano.

Il 29 settembre 1911 l’Italia dichiarò guerra alla Turchia ma le operazioni militari erano in effetti già iniziate lo stesso giorno. Si trattava della prima vera e propria guerra moderna, che vide persino il primo impiego militare della neonata aviazione.

La guerra, secondo la nostra propaganda, doveva essere una passeggiata perché le popolazioni berbere ed arabe ci avrebbero accolto a braccia aperte come liberatori dall’oppressione ottomana. Invece le cose, dopo il successo dello sbarco iniziale a Tripoli ed in altre località costiere, presero ben altra piega.

Enver Bey
   Enver Bey
Le popolazioni indigene non si dimostrarono affatto disposte ad accoglierci come liberatori in quanto non intendevano cadere dal dominio turco a quello italiano ed alla fine prevalse la comunanza religiosa: era meglio, agli occhi dei tripolitini e dei cirenaici, la Turchia mussulmana che l’Italia cristiana. La resistenza indigena in appoggio alle forze militari ottomane fu straordinariamente notevole, soprattutto nell’area cirenaica dove operava il colonnello turco Enver Bey, genero del Califfo ossia della massima autorità spirituale mussulmana.

Nonostante ogni sforzo, la nostra penetrazione restò limitata alle sole zone costiere con il constante rischio di essere rigettati a mare.

Questa situazione, che rischiava di ridicolizzarci ancora una volta, dopo Dogali ed Adua, agli occhi del mondo, imponeva un allargamento dell’area delle operazioni militari, con tutti i conseguenti rischi di allargamento del conflitto.

Era esattamente questo che iniziarono a paventare Austria e Germania, preoccupate che una sconfitta turca avrebbe potuto aprire alla Russia il varco da essa cercato verso i Balcani e gli Stretti (Dardanelli). Per questo le due potenze, facendo leva sull’alleanza in quel momento vigente tra esse e l’Italia, tentarono una mediazione per giungere ad una soluzione di compromesso fra il nostro Paese e la Turchia, proponendo una occupazione di fatto italiana della Libia sotto la formale sovranità turca.

Onde evitare questa stretta diplomatica, Giolitti, il 5 novembre 1911, fece emanare dal re un decreto che proclamava l’assoluta sovranità italiana sulla Libia.

A questo punto però era necessario allargare il teatro di guerra al fine di indebolire la resistenza turco-araba in Libia. Inizialmente si operò l’allargamento nel Mar Rosso partendo dalle nostre basi coloniali eritree contro la zona ottomana della penisola arabica. Ma, poi, si pensò di portare i nostri attacchi direttamente sul territorio metropolitano turco.

Le operazioni vennero così estese all’Egeo. Fu decisa l’apertura di un secondo fronte nella zona dei Dardanelli ma il tentativo fu presto abbandonato per via dell’opposizione inglese. L’idea di dirottare le operazioni verso le Sporadi settentrionali era impraticabile per l’opposizione, questa volta, di Austria e Russia gelose dello status quo nei Balcani e zone limitrofe. Non restava che l’Egeo meridionale, ossia l’arcipelago di Rodi. Le altre potenze furono preavvertite con una nota diplomatica del 7 marzo 1912 ed il successivo 17 aprile iniziò lo sbarco italiano nelle isole dell’Egeo meridionale. Il 4 maggio fu occupata Rodi. Le altre isole seguirono a breve distanza di tempo. L’Italia a quel punto aveva il controllo dell’Egeo meridionale e puntava direttamente verso le coste anatoliche, minacciandole da vicino.

Si dovette invece abbandonare, sin dai primi mesi di guerra, ogni operazione nel Mar Adriatico per via delle proteste dell’Austria-Ungheria atterrita da qualsiasi probabilità di sommovimento della polveriera balcanica.

La presenza italiana nell’Egeo rappresentava per la sublime porta una grave minaccia anche perché, come vedremo, l’area balcanica si era davvero messa in moto, nonostante i tentativi di Russia ed Austria per mantenervi lo status quo.

Il governo turco iniziò a considerare, visto il suo isolamento internazionale, la possibilità di intavolare trattative di pace. Queste iniziarono a Losanna il 12 luglio 1912 ma furono interrotte il successivo 24 luglio per l’aggravarsi della crisi politica interna alla Turchia. Le trattative ripresero il 13 agosto a Caux e poi trasferite ad Ouchy il 3 settembre, senza che si giungesse ad un accordo definitivo. Al quale, però, la Turchia fu costretta il 18 ottobre 1912 a causa della prima guerra balcanica che era scoppiata in quello stesso mese.

L’accordo di pace prevedeva la concessione da parte della Turchia dell’autonomia alla Tripolitania ed alla Cirenaica, con il ritiro delle truppe ottomane, ed il passaggio all’Italia dell’amministrazione civile e militare di quelle regioni, e, in contraccambio, il ritiro delle truppe italiane dalle isole egee. Queste ultime, in effetti, con la scusa che truppe turche erano rimaste in Cirenaica, non furono restituite alla Turchia e, dopo la Prima Guerra Mondiale, con il Trattato di Losanna del 1923 furono annesse all’Italia.

Nei giorni successivi la conclusione dell’accordo di pace, Inghilterra, Russia, Austria-Ungheria, Francia e Germania riconobbero la sovranità italiana sulla Libia.

Ciononostante non cessò affatto la resistenza araba e berbera che continuò, guidata dal già citato Enver Bey, per molti decenni successivi. La guerriglia anti-italiana proseguì, con migliaia di morti, anche civili, dall’una e dall’altra parte, fino agli anni trenta quando Badoglio e Graziani intrapresero una brutale repressione che si concluse solo con l’esecuzione del capo dei ribelli, Omar al-Mukthar, il 15 settembre 1931.


La cattura di
Omar al-Mukthar

In effetti, le denunce di Gheddafi sui crimini italiani, al di là della loro strumentalità politica, hanno un fondamento storico e le responsabilità italiane nella brutalizzazione coloniale sono innegabili, nonostante – anche questo è innegabile – il regime fascista intraprese un’opera di modernizzazione anche in Libia, della quale si avvantaggiò, nel dopoguerra, la stessa Libia indipendente, monarchica prima e arabo-socialista dopo.

Quello degli italiani sempre e comunque brava gente è, in certi casi, solo un mito.

Come, del resto, è un mito quello degli inglesi liberatori del nord Africa italiano accolti a braccia aperte dagli arabi. Al contrario, erano stati i giovani ufficiali delle truppe egiziane dell’esercito inglese, nazionalisti panarabi come Nasser, ad aver inutilmente aspettato che le truppe dell’Asse, per il quale essi simpatizzavano, giungessero al Cairo. Gli inglesi, in verità, si comportarono verso le nostre truppe, sconfitte ma con onore ad El Alamein nel 1942, in modo odioso, manifestando verso l’italiano fascista un totale ed ideologico disprezzo, peggiore di quello che ci riservavano gli alleati germanici. Un disprezzo del quale ebbero modo di conoscere molto bene le delizie gli italiani, fatti prigionieri in Africa, concentrati nei lager britannici in India fino alla fine della guerra ed oltre.

Effetto domino: Le guerre balcaniche (1912-1913). La polveriera europea prossima ad esplodere

Il timore, coltivato nelle cancellerie europee, che la guerra italo-turca potesse provocare un sommovimento nell’equilibrio balcanico, un terremoto diplomatico-politico-militare, prese effettivamente corpo. 

 

La guerra italo-turca accese, o meglio riaccese, il fuoco che covava sotto la cenere in quella regione europea, che era ancora in parte, dall’Albania a Istanbul, dominio ottomano ma nella quale, nel corso del XIX secolo, erano sorti, strappando l’indipendenza alla sublime porta, diversi piccoli ed bellicosi Stati nazionali, da quello greco a quello bulgaro, da quello rumeno a quello serbo ed a quello montenegrino.

Ciascuno di questi Stati era parte del sistema di alleanze europee e cercava di sfruttarlo al meglio al fine di allargare i propri confini a danno dell’impero ottomano ma anche degli altri Stati della regione balcanica: alleati, certo, ma altresì concorrenti nell’ipotesi di una spartizione delle spoglie europee dell’antico impero turco.

Nel 1908, oltretutto, l’Austria-Ungheria aveva occupato la Bosnia-Erzegovina, sulla quale in precedenza esercitava solo il proprio alto protettorato. Si trattava di una regione povera ma, dal momento che i suoi abitanti erano in maggioranza serbo-croati, l’annessione apparve agli slavi balcanici un colpo di mano dell’elemento magiaro-tedesco dell’Impero ai danni delle aspirazioni nazionali degli slavi del sud, i quali nel frattempo avevano iniziato ad auspicare un proprio Stato degli slavi del sud o Jugoslavia (un progetto, del resto, di non facile realizzazione – come gli eventi successivi dimostrarono – a causa delle rivalità storiche tra serbi e croati, che solo mediante un potere centralizzatore, monarchico prima e titino poi, fu possibile temporaneamente concretizzare, per poi però dissolversi non appena tale potere cessò di operare).

Come più volte abbiamo rilevato, l’Austria-Ungheria aveva da decenni avviato delicate riforme interne che, mediante il processo di confederalizzazione in atto, avrebbero portato alla parità giuridica di tutte le sue componenti nazionali, compresa quella slava. Già si parlava, infatti, di Triplice Monarchia. Il principe ereditario, Francesco Ferdinando, che nel 1914 sarà assassinato a Sarajevo, era il riferimento politico, a corte, dei confederalisti favorevoli alla parificazione anche dell’elemento slavo. Sicché l’attentato di Sarajevo, colpendo proprio colui che avrebbe potuto risolvere le tensioni interne all’Impero ma anche riportare il sereno nei Balcani, cadde a proposito per gli obiettivi dei nazionalisti slavi e di chi era alle loro spalle.

L’intervento austro-ungarico nei Balcani non poteva, naturalmente, piacere alla Russia, date le sue mire espansioniste nella regione ed il suo appoggio a serbi e a bulgari. Fu, in particolare, la Serbia, forte della protezione anglo-franco-russa, ad assumere nei Balcani il ruolo di Stato-guida dell’irredentismo slavo. Un ruolo egemonico che essa non ha mai, poi, deposto, fino agli anni novanta, quando, però, con Milosevic, tale ruolo si è colorato di anti-occidentalismo e quindi ha assunto, nell’alleanza con la Russia di Putin, un diverso carattere rispetto a quello, tutto sommato, filo-occidentale che aveva nel primo quindicennio del XX secolo.

Ma, nei Balcani, anche la Grecia e la Bulgaria miravano ad un ruolo egemonico. Mentre la Romania era piuttosto interessata a contenere l’espansionismo russo in considerazione del fatto che alla comunanza religiosa ortodossa non corrispondeva però anche una affinità storico-culturale. Sotto questo profilo Bucarest era piuttosto portata a guardare verso il mondo latino.

Vi era, infine, il problema dell’Albania, ancora dominio ottomano ma sulla quale non nascondevano le proprie mire sia la Grecia che la Serbia ed il Montenegro.

In questo ginepraio, l’Italia, nonostante l’alleanza con l’Austria, aveva stretto rapporti diplomatici e politici con la Serbia, dal momento che l’elemento croato, per motivi religiosi, era prevalentemente fedele agli Asburgo e, per motivi storici e nazionali, contendeva al nostro Paese i confini orientali e le pretese sulla Dalmazia.

La debolezza dimostrata dalla sublime porta, nel corso della guerra con l’Italia, convinse gli Stati balcanici a muovere guerra alla Turchia nell’intento di occuparne e di spartirsi i suoi residui territori europei.

Serbia e Bulgaria il 13 marzo e Grecia e Bulgaria il 29 maggio 1912 strinsero tra loro un’alleanza con uno scopo ufficiale di carattere difensivo ma con la segreta riserva di strappare alla sublime porta la Macedonia, che sarebbe passata alla Bulgaria, e l’Albania, che sarebbe stata divisa tra Grecia, Montenegro e Serbia.

Nonostante gli sforzi delle cancellerie europee, tutte interessate, per motivi diversi, a mantenere lo status quo balcanico, almeno in quel momento, la guerra scoppiò nell’autunno del 1912, quando quella con l’Italia era ancora in corso. La dichiarazione di guerra della Bulgaria alla Turchia, cui seguirono quelle degli altri Stati balcanici nel giro di pochi giorni, è del 16 ottobre, ossia due giorni prima del definitivo accordo di pace italo-turco, il quale, anzi, fu accelerato dall’aprirsi del conflitto balcanico.

La guerra balcanica minacciava di scatenare un conflitto europeo. La Russia non poteva permettere che la Bulgaria conquistasse Costantinopoli (e nel corso delle operazioni militari ci era quasi riuscita), l’Austria temeva l’ingrandimento della Serbia a danno dell’Albania, l’Italia non guardava affatto con simpatia all’eventualità di un’occupazione greco-serbo-montenegrina dell’Albania sulla quale da tempo aveva posto una propria ipoteca coloniale e che, infatti, avrebbe occupato più tardi nel 1939.

Le operazioni militari per la Turchia apparvero subito sfavorevoli su tutti i fronti balcanici.

Anche per scongiurare l’allargamento europeo del conflitto balcanico, fu indetta una conferenza di pace a Londra. Ma le trattative andavano per le lunghe tra l’assurdità delle pretese degli Stati balcanici, che si atteggiavano a grandi potenze regionali, e le resistenze turche, motivate dalla necessità di salvare non solo la faccia ma anche per quanto possibile parte dei territori europei.

La Turchia stava per cedere, quando si profilò l’ipotesi, non gradita da greci, serbi e montenegrini, di un’Albania indipendente e di un arbitrato delle potenze europee per stabilire i confini europei della sublime porta. Fu, però, in questo momento che il partito dei Giovani Turchi, approfittando della debolezza del sultano, rioccupò il potere, con un colpo di mano, e dichiarò la volontà del nuovo governo di continuare la guerra.

Le nuove operazioni militari non furono più fortunate per la Turchia che vide avanzare ulteriormente, sui propri territori europei, gli eserciti degli Stati nemici.

Nel frattempo una conferenza di notabili albanesi dichiarò l’indipendenza dell’Albania. Una indipendenza garantita dalle potenze europee che inscenarono anche una dimostrazione navale nelle acqua antistanti il Paese allo scopo di far comprendere a serbi, greci e montenegrini che nessuna loro aspirazione sull’Albania sarebbe stata ratificata.

Il 30 maggio 1912 a Londra fu firmato un trattato tra Grecia, Serbia, Bulgaria e Montenegro, da un parte, e Turchia dall’altra, con il quale la sublime porta cedeva agli Stati balcanici tutto il territorio europeo, tranne Istanbul e l’Albania. I confini ed il regolamento politico di quest’ultima venivano rimessi all’arbitrato europeo. La Turchia inoltre cedeva l’isola di Candia (Creta) e delegava ad un arbitrato internazionale la sorte delle isole egee e del Monte Athos.

Questo esito non lasciò affatto soddisfatti gli alleati balcanici, che vedevano ciascuno disattese molte delle proprie aspirazioni. In particolare era la Bulgaria ad essere stata maggiormente penalizzata nelle sue pretese. Infatti la Macedonia, cui essa aspirava, fu in gran parte assegnata alla Serbia a compensazione dei territori albanesi che non le erano stati ceduti.

L’opposizione bulgara all’accordo di pace mise greci, serbi e montenegrini in allerta nei confronti della ex alleata. La Bulgaria, nonostante un tentativo di mediazione russo, dichiarò guerra a Grecia, Serbia e Montenegro il 29 giugno 1913. Scoppiava così la seconda guerra balcanica. Il re bulgaro, un soggetto affetto da vera megalomania, credeva che sarebbe riuscito a sconfiggere facilmente gli ex alleati. Invece, dopo un primo momento favorevole, le operazioni militari apparvero subito disastrose per la Bulgaria, la quale fu aggredita a nord anche dalla Romania che riuscì ad annettersi la Dobrugia. In soccorso della Bulgaria rientrò nello scenario di guerra la Turchia, che riconquistò Adrianopoli, e stabilì con l’ex nemica un’alleanza che sarebbe rimasta in vigore anche negli anni successivi. La Bulgaria, in tal modo, entrò a far parte del sistema di alleanze degli imperi centrali (Germania, Austria, e Turchia), con i quali combatté la Prima Guerra Mondiale, proprio mentre l’Italia si stava sempre più allontanando da tale alleanza.

La seconda guerra balcanica durò appena un mese ed il 10 agosto 1913 a Bucarest fu firmata la pace, che modificava profondamente la carta geopolitica dei Balcani, senza però davvero soddisfare l’ingordigia nazionalista di nessuno dei contendenti.

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La Grecia si vide assegnare Creta, Salonicco, l’Epiro, parte della Macedonia; il Montenegro alcuni territori albanesi e parte del sangiaccato di Novi Bazar; la Romania, oltre la Dobrugia, Silistria ed ampie rettifiche delle sue frontiere con ampliamento del suo sbocco sul Mar Nero.

Ma, più di tutti, fu la Serbia a capitalizzare il bottino. Essa, infatti, vide praticamente raddoppiare il suo territorio e diventò – come si è detto – lo Stato guida dell’irredentismo slavo.

La Serbia non nascondeva affatto il suo programma egemonico sui Balcani e questo irritava e preoccupava l’Austria-Ungheria, la quale, alle prese con un difficile riequilibrio interno in senso confederale, tutto poteva permettersi tranne le pressioni di uno Stato confinante che infiammando il nazionalismo slavo mettesse in pericolo la sua mirabile ma anche fragile compagine tradizionale plurinazionale e plurireligiosa.

L’Europa era sull’orlo del baratro ma nessuno sembrava comprenderlo con chiarezza.

Luigi Copertino

(fine quarta parte di cinque)

Libia 1911 - Europa 1914 (parte I)
Libia 1911 - Europa 1914 (parte II)
Libia 1911 - Europa 1914 (parte III)
Libia 1911 - Europa 1914 (parte V)

 

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