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Ma quel Fazio è un fiancheggiatore?
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Cesare Battisti, dal suo rifugio brasiliano, ha ammesso di bocca sua di essere stato aiutato nella fuga dai servizi francesi, che gli hanno fornito un falso passaporto italiano e da «alcuni membri del governo (francese) i cui nomi non posso fare».

In tal modo, l’assassino uccel di bosco praticamente vanifica gli sforzi fatti da Fabio Fazio di scagionare i francesi pochi giorni prima, quando, nella trasmissione di sua proprietà, ha dato tutto lo spazio che voleva alla 'favorita' de la République, Carla Bruni Tedeschi, onde questa smentisse a suo agio le voci che si addensano su di lui.

Secondo queste voci, sarebbe stata Carla Bruni Tedeschi a premere sul suo marito Sarko perchè negasse l’estradizione di Battisti e ne agevolasse la fuga in luogo esterno alle normative europee sull’estradizione. Carlà Tedeschi l’avrebbe fatto per odio suo verso Berlusconi, ma anche per accontentare una sua sorella Valeria Bruni Tedeschi che sta a Torino e a Parigi e che, a quanto pare, è interna a una rete di salvataggio e soccorso di terroristi di sinistra sottrattisi alla cattura (ha già operato per il salvataggio di Marina Petrella).

Ho visto la trasmissione e ne ho provato vari motivi di malessere. Anzitutto, vedere la moglie del presidente della repubblica francese presentare – incapace di sottrarsi alla sua precedente vita di squinzia – un suo cd di canzoni, ed esibirsi a voler cantare, senza talento nè voce, congratulata dallo scodinzolante Fabio Fazio. Poi, la faccia stessa di Carlà: la pelle di un volto femminile stesa a forza, per i sinistri miracoli della chirurgia plastica, su un cranio di ossa spesse e grosse, con una mascella enorme. Al punto che lei doveva limitarsi a simulare il sorriso delle labbra rese immobili; ma qui, i miracoli della plastica facciale non spiegano come mai questo essere non sappia ridere nemmeno con gli occhi: sempre fissi in una vigilanza cattiva, da predatore, anche quando la bocca diceva qualcosa di «carino».

Ma naturalmente, ancora più malessere veniva dal vedere con quanto servilismo Fazio «porgeva» a questo essere non-umano la battuta perchè potesse smentire e smentire a suo piacimento. No, non sia mai che io influisca su mio marito, diceva la mascella stritolatrice coperta di pelle di donna; a chi e come può essere venuto in mente che io... E’ una calònnia, una calònnia.

L’intervista non ha mai avuto un guizzo di simpatia nè di contenuto,come quasi tutte le interviste di «Che tempo che fa». E perciò aggiungeva malessere al malessere vedere come Fazio rideva per frasi del nulla, si piegava in due, scondinzolava, sbrodolava e gongolava di avere lì un personaggio così «importante». Fazio e la Bruni Tedeschi si davano del tu; si scambiavano paroline nel comune piemontese, affettavano intimità e comuni amicizie torinesi. L’intervista era evidentemente concordata.

Ora, Cesare Battisti è latitante. Ma Fabio Fazio è ancora reperibile, per cui in un Paese civile un procuratore lo chiamerebbe per porgli alcune domande.

Per esempio: perchè, o su mandato di chi, Fazio ha offerto il suo spazio televisivo a questa Carla Tedeschi, onde potesse profferire menzogne pochi giorni dopo smentite dallo stesso Battisti? Chi glielo ha fatto fare? Che c’entra lui con i servizi francesi? Che interesse ha a coprire le trame della 'favorita' de la république, a vanificare le ombre che si addensano su questo personaggio ambiguo, a fare pubblicità – en passant – al suo ultimo disco velleitario e di nessuna qualità?

Non si dica che Fazio ha messo a segno un colpo da «giornalista». Altrimenti bisogna chiamare «giornalismo» anche le interviste in stato di orgasmo adulatorio che Fede fa a Berlusconi, o quelle compiacenti che Bruno Vespa fa a chiunque sia più potente di lui. Non può chiamarsi giornalismo un tipo d’intervista dove il «giornalista» porge all’intervistato domandine pre-concordate, edulcorate e sanitizzate; dove non c’è una sola domanda a sorpresa che possa mettere in difficoltà l’intervistato; dove  l’intervistatore dimostra, con i suoi cinguetti e tutto il suo linguaggio del corpo e il frenetico agitar della coda, che lui è d’accordo con lei per principio, che vuole solo compiacerla, che è lì per servirla.

Un giudice di un Paese serio si chiederebbe: Fazio è un fiancheggiatore?

Sì, tirerebbe fuori dagli armadi giudiziari questo vecchio termine dei tempi delle Brigate Rosse e dei Nuclei Combattenti, quando si capiva e si vedeva che i terroristi attivi avevano dei «fiancheggiatori» – ossia persone spesso influenti, di ambienti spesso importanti, che sapevano molto su di loro e ne tacevano, agevolandole la clandestinità e la copertura.

Fabio Fazio può sicuramente essere definito un fiancheggiatore di Carla Bruni Tedeschi in Sarkò. Lo è anche di Battisti?

Non sono accuse. Sono domande. Un giudice serio, in un Paese serio, chiamerebbe anche la sorella della Bruni Tedeschi come persona informata sui fatti, ossia sulla rete internazionale di soccorso dei terroristi rossi, che in Francia ha le sue basi annose in ambienti insospettabili dell’alta società radical-chic.

Lasciate al vecchio cronista ricordare quel poco che apprese della «rete» in anni ormai lontani.

A Parigi, quai de Tournelle 27, aveva sede la Hyperion: una scuola di lingue, ufficialmente, ma dove «insegnavano» tutta una serie di latitanti rossi. Corrado Simioni, uno dei dirigenti insieme a Vanni Mulinaris, fu indicato a Di Pietro da un teste-imputato di Mani Pulite (Silvano Larini, titolare del «Conto Protezione») come il vero capo delle BR. Forse con più precisione, il generale Carlo Alberto Della Chiesa definì Simioni «una intelligenza a monte delle Brigate Rosse».

Espulso dal PCI nel 1965, dopo due anni trascorsi a Monaco di Baviera, Simioni tornò in Italia e fu relatore con Renato Curcio dei due ‘convegni’ che fondarono le BR. Nel 1970, Simioni lasciò l’organizzazione brigatista per raggiungere altri superclandestini a Parigi. Dalla scuola Hyperion – frequentata peraltro anche da personaggi vicini alla CIA – Simioni, secondo il giudice Carlo Mastelloni, si sarebbe occupato di affari come un traffico di armi tra le BR e una fazione dell’OLP; anche per il giudice Rosario Priore il Simioni era il capo della centrale internazionale della lotta armata.

La Hyperion aprì anche una succursale a Roma, in via Nicotera 26, nel dicembre 1977. La scuola fu però chiusa molto presto, nel giugno 1978, ma non certo perchè gli affari andavano male: il 16 marzo 1978 fu rapito Aldo Moro, che fu ucciso il 9 maggio dello stesso anno. Mission accomplished, si può dire. Anche Mario Moretti, l’interrogatore di Moro, e Prospero Gallinari, il suo esecutore, furono frequentatori della Hyperion a Parigi.

Quando Moro fu sequestrato, testimoni riconobbero in foto segnaletiche un altro dirigente della Hyperion, indicandolo come uno degli uomini del gruppo di fuoco brigatista: Innocente Salvoni. Questo Salvoni era addirittura il marito della presidentessa della scuola Hyperion, Françoise Tuscher. Sarebbero stati i due cari coniugi, secondo un rapporto SISMI coperto da segreto di Stato fino al 1990, a scrivere i comunicati delle BR durante il sequestro Moro.

La Tuscher è una francese in contatto con ambienti influenti, non fosse che per il fatto che era nipote dell’abbè Pierre, figura notissima di semi-frate caritativo, organizzatore di mense e punti di soccorso per i senzatetto a Parigi, candidato al Nobel per la pace.

Vanni Mulinaris, un superclandestino friulano spesso citato a fianco di Simioni come dirigente della Hyperion, era in possesso di un documento d’identità che lo qualificava come membro dell’OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico), ufficialissimo ente euro-americano che a suo tempo distribuiva gli aiuti del Piano Marshall. Mulinaris aveva ottenuto il documento, che garantiva facili passaggi di frontiera, attraverso Salvoni, che l’aveva chiesto all’abbè Pierre.

La commissione parlamentare d’inchiesta sulla morte di Moro ha lamentato che mai nulla sia stato fatto contro la scuola Hyperion: «Le insistenti richieste rivolte all’autorità di polizia e ai servizi perchè svolgessero serie indagini sull’istituto parigino sono state in pratica disattese», si legge nella relazione finale.

Cesare Battisti è stato promosso e protetto da una rete del genere? O dalla più vasta rete di potere, di cui la Hyperion era un nodo, di trotszkisti al caviale e no-global in cashmir con belle ville dove si possono nascondere amici nel bisogno, da case editrici avanzate in cui un Toni Negri può frequentare Bernard Henri Lévy, e Battisti – romanziere acclamato da tali squisite case editrici – godere la protezione del ministro brasiliano Tarso Genro, dirigente del movimento mondiale antiglobalista?

O magari dove un direttore d’orchestra del Santa Cecilia ora defunto, Igor Markevitch (1), agente del KGB e dei servizi americani, pare abbia avuto una parte nel rapimento di Aldo Moro, il cui cadavere è stato trovato a fianco del suo palazzo – il palazzo Caetani, ossia della principessa sposata da Markevitz?

Alta società, in ogni caso. Come il papà di Carlà, Alberto Bruni Tedeschi, definito «industriale e musicista» dalle biografie compiacenti: erede della CEAT pneumatici appartenente a suo nonno, membro storico della comunità ebraica vercellese. Piacerebbe sapere se vi siano collegamenti con la potente e discretissima  famiglia ebraica dei Tedeschi che dominano da sempre la Fondiaria Assicurazioni, piccolo scrigno segreto fiorentino della finanza massonica più indiscussa e meno citata.

Cesare Battisti è ben protetto. Anche Fabio Fazio è ben protetto. Vedo che ha omaggiato pubblicamente Sofri (altro Battisti) e che godeva dalla potente «amicizia» di Enzo Biagi; il che lo indica come portato da un certo giro di potere; ma non è tutto, non basta. Altrimenti non si spiegherebbe l'irresistibile ascesa di una simile nullità alla RAI degli ex-comunisti. Non è certo senza auguste protezioni che si ottiene un programma di prima serata, centro di potere che crea o nega fame miliardarie dal nulla, o rivivifica notorietà stantie; nè è ammissibile che senza protezioni il Fazio possa continuare a reggerlo per anni, nonostante la quasi intollerabile noia e la lungaggine inerte del suo modo di «intervistare», ossia di porgere le sue domande lubrificate al miele e i suoi favori  di lingua e i suoi servizi di vaselina; non certo concepiti per interessare gli ascoltatori, ma qualcun altro che non sappiamo.

Perchè Fazio? Mancano forse, in Italia, i lecchini dotati di un poco più di spirito? Da dove viene? Com’è arrivato lì? Chi ce l’ha messo? E soprattutto, chi ce lo tiene?

Santoro – pelo sullo stomaco più folto, ma qualità giornalistiche inconfrontabili – è stato censurato e multato dal comitato di sorveglianza RAI per aver mostrato una volta la verità sul massacro di Gaza, su ordine dell’ambasciatore di Israele. Non c’è da sperare che detto comitato di sorveglianza si muova a censurare Fazio per aver consentito alla 'favorita' Tedeschi di profferire le sue menzogne.

Ah, se ci fosse un giudice in questo Paese! Le nostre domande potrebbero trovare qualche risposta. Ma non c’illudiamo.

Su Repubblica, la Gabanelli ha intervistato Francesco Pazienza, vecchio ma intelligente intrigante della P2 di Gelli, consulente del SISMIi e di non si sa quanti altri servizi occidentali, vicino a finanzieri sauditi. Alla Gabanelli Pazienza dice, di punto in bianco, che la strage alla  stazione di Bologna fu opera della Libia; una vendetta di Gheddafi, perchè a quel tempo l’Italia aveva, su richiesta americana, garantito la sua protezione militare (sic) a Malta, su cui il colonnello Gheddafi aveva delle mire...

Intendiamoci, Francesco Pazienza è bravissimo a mentire, è parte del suo pericoloso mestiere. Ma questa sua affermazione s’incastra bene con quel che disse allora, mentre ancora la stazione di Bologna fumava e si portavano via i cadaveri, il ministro socialista Rino Formica: che quell’attentato era opera «di un piccolo Paese del Medio Oriente» che voleva «metterci in cattiva luce con gli americani».

Ho sempre creduto che con questa frase sibillina, Formica indicasse Israele; ora vedo che può benissimo applicarsi, come sostiene Pazienza, alla Libia.

Ma vedo anche che la verità – se è la verità – salta fuori così, come per caso buttata lì, solo adessso – probabilmente per qualche scopo contro Berlusconi, che ha firmato il noto trattato con la Libia. Decenni dopo i fatti, evidentemente noti a molti ambienti.

E mi chiedo: come mai, per vent’anni, è stata accanitamente perseguita dalla giustzia italiana una assurda «pista nera»? Vite di giovanissimi militanti neofascisti sono state braccate e troncate, nell’ostinata volontà di dare una matrice nera alla strage di Bologna; sono state comminate carcerazioni preventive del tutto ingiuste; il PCI ha tirato i fili delle famiglie delle vittime che volevano, pretendevano loro per prime che la pista fosse «nera», che non si sviassero le indagini verso altre piste.

Si trattava di coprire e proteggere una piccola potenza medio-orientale per qualche occulta ragion di Stato, d’accordo; ma perchè a prezzo di innocenti, nello sfregio delle vittime?

Domande senza risposta. Figurarsi se la giustizia si scomoda per far domande a un Fazio sui suoi rapporto con la Bruni Tedeschi.

Contro il Brasile che rifiuta di consegnarci l’assassino Battisti, il nostro ministero ha già deciso – o quasi – la punizione assoluta: non far giocare la partita Italia-Brasile.

Questo si chiama battere il pugno sul tavolo, ragazzi.




1) Igor Markevitch (Kiev, 27 luglio 1912 – Antibes, 7 marzo 1983) è stato un compositore e direttore d'orchestra ucraino naturalizzato italiano. La sua prima composizione, un concerto per piano, risale al 1929 e gli fu commissionata da Sergej Diaghilev, coreografo di quel Vaslav Nijinski, celebre ballerino, che sarebbe diventato il suocero del musicista il quale ne sposò la figlia Kira. Durante la Seconda Guerra Mondiale fu in Italia, dove nel 1948 ottenne la cittadinanza, sposando in seconde nozze la duchessa Topazia Caetani, appartenente alla storica famiglia della nobiltà romana. Il suo nome fu coinvolto nelle indagini relative al sequestro e all'assassinio di Aldo Moro: un rapporto del SISMI del 1980, lo identifica infatti come il misterioso "anfitrione" che avrebbe avuto un ruolo di primo piano negli interrogatori del politico italiano. Una traccia investigativa che è stata rivalutata di recente in quanto collegata ad una serie di circostanze mai del tutto chiarite delle quali parlò spesso il giornalista Mino Pecorelli, con particolare riferimento alle presunte basi brigatiste situate nel ghetto ebraico di Roma, dove si trovano via Caetani ed il palazzo omonimo, di proprietà della moglie (da Wikipedia). Una luce definitiva su questa ambigua e intoccabile figura l’hanno accesa i giornalisti Fasanella e Rocca nel loro saggio «Il misterioso intermediario – Igor Markevic e il caso Moro», pubblicato da Einaudi. Il libro è stato boicottato ferocemente ed efficacemente dal solito giro radical-chic che fa capo ai giornali di De Benedetti, La Repubblica e l’Espresso.



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