O Dio o l’assurdo
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“Dal nulla non viene nulla”

Padre Reginaldo Garrigou-Lagrange riassumeva le famose “cinque vie” tomistiche (S. Th., I, q. 2, aa. 1-3) in una semplice esposizione basata sul senso comune, che fosse – perciò – facilmente accessibile a tutti. Essa potrebbe essere qualificata come “sesta via per i semplici”.

La retta ragione, spiegava il grande teologo domenicano, si eleva spontaneamente alla conoscenza certa di un Creatore a partire dalle creature, mediante un ragionamento semplicissimo: si costata che esistono degli effetti, perciò deve esserci anche una causa (“ex nihilo, nihil fit”).

Tuttavia, ciò non significa che tutti gli uomini possano dimostrare metafisicamente l’esistenza di Dio e confutare filosoficamente tutte le obiezioni di coloro che la negano.

Il principio su cui si fonda la prova generale e accessibile a tutti della dimostrazione dell’esistenza di Dio è una verità evidente a tutti: “Il più non viene dal meno”. Ossia, “il più perfetto non può essere prodotto dal meno perfetto”. Insomma: “Ciò che è superiore non si spiega con ciò che è inferiore”.

Per esempio, la statua non si spiega solo con l’argilla o con il legno (che ne è soltanto la causa materiale). Infatti, la statua presuppone un artista o uno scultore (che ne è la causa efficiente).

Se il più perfetto (la statua) potesse essere prodotto dal meno perfetto (legno, marmo, argilla) come dalla sua causa pienamente efficiente e sufficiente; allora questa maggiore perfezione non avrebbe nessuna causa, essa arriverebbe all’esistenza senza che nessuno potesse spiegarla. Ora, “sine causa, nihil fit”: ossia, dal nulla e senza una causa non può provenire nulla.

Ora, nel mondo costato continuamente un moto (ossia un divenire o un passaggio dalla potenza all’atto) incessante e universale (il sole sorge e si corica, le stelle si accendono, le nuvole volano, i fiumi scorrono, gli oceani ondeggiano, i fiori nascono e muoiono, così gli alberi, gli animali e gli uomini, gli angeli si spostano dal cielo sulla terra e viceversa…). Perciò, dev’esserci un motore incessante e universale, capace di produrre tale divenire incessante e universale.

San Tommaso d’Aquino scrive che «vi è di più nel moto che nell’inerzia della materia» (S. Th., I, q. 2, a. 3). Perciò, il moto non può spiegarsi con l’inerzia della materia.

Possiamo riassumere in un semplice sillogismo la prova basilare dell’esistenza di Dio:

Maggiore - La materia dice potenza; il moto invece dice passaggio dalla potenza all’atto.

Minore - Ora, “nemo dat quod non habet”.

Conclusione - Dunque, la sola materia non può produrre e spiegare il moto. Perciò, è necessario un motore, che muova tutto e non sia mosso da nessuno (“ens in potentia non reducitur ad actum nisi per ens in actu”, oppure “omne quod movetur ab alio movetur” ).

Maggiore - L’Angelico scrive: è un fatto che nel mondo c’è un moto ed esso è incessante e universale; ad esempio il moto dei fiumi, dei mari, la luce del sole e delle stelle, il calore solare, la vita delle piante e degli animali, il movimento degli astri nello spazio.

Minore - Ora vi è di più nel movimento che nella materia inerte. Per esempio, una palla da biliardo non corre da sola e una volta che l’ho spinta essa - dopo un po’ - si ferma; così il legno non diventa da solo sedia, tavolo o statua.

Conclusione - Quindi, non c’è movimento senza motore. Ma, un movimento incessante e universale richiede un motore perpetuo e universale, capace di mantenere l’ente mosso in movimento dappertutto e per sempre. Questo Motore immobile si chiama Dio.

Bisogna scegliere: “O Dio o l’assurdo”

Delle due l’una: o Dio oppure il contraddittorio, tertium non datur!

È contraddittorio o assurdo un cerchio quadrato; oppure che 2 + 2 = 10. Così è parimenti assurdo che il nulla produca qualcosa. Il più non viene dal meno, nulla e nessuno non producono l’essere.

Ora, se il nulla producesse non dico solo un tavolo o una statua ma addirittura il mondo, allora, il contingente sarebbe necessario, il non essere sarebbe essere, il cerchio sarebbe quadrato. Tuttavia, in tal caso sarebbe vero anche il contrario: il contingente non è necessario, il cerchio non è quadrato, il nulla non è essere.

Il transumanesimo

Infine, si arriva all’ultima domanda e opzione: o Dio o il luciferismo, secondo il quale è il mio “Io” che crea la realtà (“Cogito ergo sum”). Insomma: “Eritis sicut Dii”. Sarebbe la realizzazione del transumanesimo.

Ecco, perciò, la ragionevolezza di ammettere che esiste un Primo Essere, Causa Prima Incausata; altrimenti saremmo costretti ad ammettere l’assurdo radicale: il più perfetto viene dal meno perfetto, dal nulla viene l’essere, il semplice legno è già una sedia in atto e il cerchio è un quadrato.

L’evoluzionismo filosofico/teologico assoluto è un assurdo o una contraddizione nei termini. Infatti, esso vorrebbe spiegare l’intelligenza con la materia, il movimento con la stasi. Insomma, ciò che è superiore con l’inferiore; ossia, esso vorrebbe darci a intendere che un cerchio è quadrato, il che nega il principio per se noto di non contraddizione: infatti, “il più non viene dal meno”.

Perciò, se si nega l’esistenza di Dio bisogna ammettere che il principio di tutto è un divenire che spiega se stesso, ossia, un divenire senza una causa, nel quale incessantemente e dappertutto il più perfetto uscirebbe dal meno perfetto. Ora, ciò equivale a porre l’assurdo all’origine di ogni cosa, per cui l’assurdo o il contraddittorio sarebbe causa universale di tutta la realtà.

Eccoci dunque arrivati alla conclusione: un mondo senza un Dio sarebbe pure senza una causa, ma ciò è una contraddizione più o meno flagrante, proprio come la circolazione del sangue nel nostro corpo senza un cuore che lo pulsi o come un tavolo che si fosse fatto da solo, a partire da un tronco di legno, senza un falegname.

Insomma, siamo partiti da un dato di fatto (il divenire, ossia, “il passaggio dalla potenza all’atto, dal meno perfetto al più perfetto”); poi ne abbiamo mostrato la sua contingenza (“il più perfetto non viene dal meno perfetto”).

La serie infinita di enti contingenti

Ora, occorre dimostrare che l’esistenza reale di un fatto contingente non può essere il risultato di una serie infinita di enti contingenti.

Il passaggio essenziale che ancora non avevamo studiato era proprio questo: se, è vero che ciò che è mosso è mosso da un altro, occorre anche provare che in ciò non si può procedere all’infinito.

Perciò, bisognerà arrivare a un primo principio del divenire che non sia mosso da nessun altro (altrimenti non sarebbe “primo”) e che muova tutti gli altri.

Ora, una serie anche infinita di enti contingenti e subordinati, anche se fosse possibile, non basterebbe a spiegare se stessa. Perciò, bisogna risalire a un Ente necessario che sia la Causa prima della serie di enti contingenti.

Non si tratta di continuare - orizzontalmente e quantitativamente - andando all’infinito nella serie di figlio/padre per spiegare l’esistenza dell’uomo; ma, occorre risalire verticalmente dall’ente contingente, creato, finito a un Ente necessario, increato e infinito.

Infatti, ci si chiede se una serie infinita di enti contingenti (padre/figlio) possa essere la spiegazione dell’ultimo ente contingente (neonato) da cui è partita la nostra costatazione.

La spiegazione razionale è metafisica ed è la seguente: se non arrivo a cogliere una mela perché è troppo in alto per me, mi basterà aumentare la quantità della mia altezza, ricorrendo a una scala; ma, se la mancanza di spiegazione del mio esistere è dovuta non alla quantità o altezza, bensì alla natura di un ente (dal sasso all’angelo si tratta di enti contingenti, composti di essenza e di essere), allora anche se aumentassi la quantità (padre, nonno, bisnonno…) non risolverei nulla. Ad esempio, un pennello da solo non spiega la Gioconda, anche se lo allungo all’infinito (ponendo in essere una serie infinita di pennelli) non potrò spiegare l’esistenza del quadro. Perciò bisogna mettere all’inizio del manico del pennello un artista (Leonardo da Vinci) che muove il pennello e produce il quadro. Infatti, una serie infinita di pennelli renderebbe solo più difficile la pittura e non sarebbe la spiegazione del quadro.

Per quanto riguarda l’esistenza dell’uomo o del mondo, essa non ha come spiegazione una serie infinita di uomini contingenti, finiti e creati (addirittura la scimmietta…), perché questa serie sarebbe senza spiegazione; infatti, non si potrebbe sapere chi abbia dato l’esistenza a essa in quanto l’ente contingente è composto di essenza che riceve l’essere.

Allora, occorre risalire a un altro ente, di qualità (non solo di quantità) diversa, che sia necessario e non contingente, non composto di essenza ed essere, ma assolutamente semplice o Atto puro da ogni potenza, che sia al di sopra (verticalmente) ontologicamente e non per quantità o altezza (orizzontalmente) dalla contingenza e composizione di potenza/atto, essenza/essere.

Parimenti, una serie infinita di vagoni ferroviari, non spiega il loro movimento senza un locomotore e questo senza un macchinista. Anzi senza il macchinista nel locomotore la serie infinita di vagoni complica e non facilita la spiegazione del movimento del treno, poiché ci vorrebbe un tempo infinitamente lungo affinché il moto dal locomotore possa giungere all’ultimo vagone di cui costato il moto.

Perciò, concludo che tutto ciò che non ha in sé la spiegazione o il perché della sua esistenza deve avercela in un altro, distinto da lui non solo quantitativamente e orizzontalmente ma entitativamente e verticalmente o qualitativamente. Per esempio, l’uomo non ha in sé la sua ragione d’essere, allora deve averla in un altro, distinto da lui assolutamente e ontologicamente, ossia di natura totalmente diversa, cioè non composto di essenza ed esistenza, ma che sia l’Ente per sua natura o sua essenza; ossia l’Atto puro, ovvero Dio.

La “prova metafisica” oltre le “cinque vie”

San Tommaso non dimostra l’esistenza di Dio solo con le cinque vie, seguendo l’orma aristotelica (e anche platonica per la quarta via, ossia la partecipazione), ma egli arriva metafisicamente all’Ente stesso per sé sussistente, partendo dagli enti caduchi, contingenti e composti di atto/potenza, essere/essenza (De ente et essentia, c. 4, n. 27; I Sent., dist. 3; II Sent., d. 1, q. 1, a. 1; De Veritate, q. 2, a. 3; q. 10, a. 2;  Summa c. Gent., lib. I, cap. 13; De Potentia, q. 3, a. 5).

Insomma, tutti gli enti che costatiamo davanti a noi, sono finiti e contingenti perché non sono il loro stesso essere per la loro essenza o natura, ma ricevono o partecipano una parte dell’essere infinito. Ora, questo essere che è loro dato o partecipato può essere causato non da loro stessi (“nemo dat quod non habet”), ma soltanto da Colui che è il suo stesso essere per sua natura o essenza e che noi chiamiamo Dio.

L’essere non è incluso nella nozione di essenza dell’ente creato o finito. Ora, essere ed essenza nell’ente, formano un tutt’uno; infatti, l’ente è un’essenza avente l’essere ed essi sono uniti tra di loro come atto e potenza, materia e forma. Ma, siccome questa composizione è costituita da elementi diversi, essa ha bisogno di una causa efficiente che li unisca tra loro, poiché essendo diversi non s’uniscono di per sé. Quindi, ogni ente composto di materia/forma, accidenti/sostanza, potenza/atto, essenza/essere ha bisogno di un ente che li unisca (“omne quod movetrur ab alio movetur”).

Insomma, gli enti creati non sono l’Essere per sua essenza, ma lo ricevono per partecipazione e limitatamente; perciò, sono sostanze che hanno l’essere e non sono l’essere, ma lo ricevono da Colui che è l’Essere per essenza, ossia Dio.

d. Curzio Nitoglia