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Temono l’uomo forte. Ma verrà?
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Contrordine: dimenticate Al Qaeda e Bin Laden. Il rischio primario per la sicurezza (egemonia) americana non è più il «terrorismo globale». Adesso la vera minaccia, ben più concreta, è la crisi economica «con le conseguenti drammatiche conseguenze politiche viste negli anni ‘20 e ‘30 in Europa» e la rinascita dell’«estremismo violento» di quegli anni. Dei fascismi, insomma.

L’ha detto davanti alla Commissione d’intelligence del Senato il nuovo direttore della «national intelligence» scelto da Obama, ammiraglio Dennis Blair. E’ un cambiamento epocale, la messa in archivio della psicosi post-11 settembre, dello «scontro di civiltà» anti-islamico, e delle scelte politico-propagandistiche che hanno dominato il decennio Bush con tutte le conseguenze, fra cui le due invasioni in nome della «guerra al terrorismo globale» (1).

Un tale cambiamento di prospettiva da lasciare sgomenti i senatori della Commissione. Il vice-presidente, senatore Christopher Bond del Missouri, s’è persino detto preoccupato che «la comunità dell’intelligence» USA si concentri troppo sulle «condizioni del Paese» e la «crisi economica globale» anzichè sulla caccia all’imprendibile Bin Laden. La risposta dell’ammiraglio Blair è stata sarcastica: «Oggi sto agendo come il vostro uomo d’intelligence, e vi dico di cosa il Senato, a mio parere, deve preoccuparsi». Stavolta la minaccia non è fantasmatica, insomma, ma reale: il dominio del capitalismo è messo in discussione dalle opinioni pubbliche, specie in Europa. E l’Europa ha un «know-how» di altri tipi di capitalismi e dirigismi... contrari agli interessi americani.

«Un quarto dei Paesi del mondo sta già attraversando qualche forma di instabilità e cambiamento di governo a causa della crisi», ha detto l’ammiragio (in Islanda il governo è stato rovesciato dalla furia popolare), e «dimostrazioni anti-Stato» sono visibili in Europa e nell’ex-URSS (2).

«Il tempo è contro di noi; più tempo occorre perchè cominci la ripresa, più grande è la probabilità di seri danni agli interessi strategici USA... Le crisi economiche accrescono il rischio di cambiamenti delle forme di governo se durano più di due anni».

E i cambi di regime potenziali avranno un tono anti-americano, data «la convinzione generale che i responsabili della crisi sono gli eccessi dei mercati finanziari USA e l’inadeguatezza delle regolamentazioni». Ciò ha creato «un crescente spirito critico contro le politiche di libero mercato», che ostacola «gli obbiettivi degli USA a lungo termine». Tanto più che «è messa in discussione la capacità di guida degli USA nella economia globale e sulla struttura finanziaria internazionale».

«La natura sincronizzata di questo rallentamento (sic) significa che i Paesi non riusciranno ad uscire dalla recessione accrescendo le loro esportazioni», ha aggiunto Blair; «anzi, politiche intese a promuovere le industrie nazionali, come svalutazioni competitive, dazi alle importazioni e/o sussidi alle esportazioni, rischia di scatenare ondate di protezionismo distruttivo», ossia quella catena di eventi che negli anni ‘30 portò al nascere di regimi forti, «e alla seconda guerra mondiale». Chiaramente, non è il ritorno di qualche forma di estremismo che teme l’ammiraglio, ma proprio di qualche forma di socialismo nazionale o di dirigismo autarchico.

Questa analisi converge con l’ultimo rapporto previsionale del centro francese Europe 2020: «Il sistema di liberismo globale è ormai fuori uso. Bisogna ricostruirne uno nuovo anzichè ostinarsi a salvare l’insalvabile» (3). Secondo questo rapporto, «In USA come in Europa e in Cina i dirigenti continuano a fare come se il sistema globale soffra solo di un intoppo passeggero, e come bastasse aggiungere del carburante (liquidità) ed altri ingredienti (calo dei tassi, acquisto di attivi tossici, piani di rilancio di industrie semi-fallite) per rimettere in moto la macchina».

I tentativi sono tutti falliti. E prendendo sulle proprie spalle gli immani debiti della finanza terminale, «anche gli Stati più potenti non si sono resi conto che stavano organizzando il proprio collasso sotto il peso della storia. Hanno dimenticato di essere costruzioni umane, che non sopravvivono se non finchè il maggior numero vi si ritrova». Oggi questi governi gestori del liberismo (secondo i dettami del Washington consensus) non sono più un luogo politico dove le masse «si ritrovano».

«La rottura del sistema monetario mondiale nella prossima estate del 2009», prevede il centro francese, «non solo trascinerà il collasso del dollaro e degli attivi denominati in dollari, ma anche una perdita di fiducia generalizzata nelle monete fiduciarie». Insomma la previsione è la più nera: l’implosione delle monete «create dal nulla», della moneta-debito su cui ha trionfato il liberismo speculativo senza frontiere, indebitando il mondo oltre la passibilità di ripagamento. Non a caso l’oro è in rialzo, e qualche analista finanziario USA consiglia come «investimento», «oro e bottiglie di whisky», queste ultime non per berle, ma per scambiarle nel sistema di baratto che si instaurerà dopo il collasso delle pseudo-monete bancarie «ex nihilo» (noi aggiungiamo: stecche di cioccolato, scatolame, fiammiferi e candele...).

Si prevede la stessa situazione che richiese modi di pensare l’economia  e di governare assolutamente nuovi negli anni ‘30, nonchè la presa di potere dell’«uomo forte» in cui si appuntarono, per esempio, le speranze dei 6 milioni di disoccupati tedeschi del 1933, quando Hitler andò al potere con voto elettorale. Un anno dopo, gennaio 1934, i disoccupati erano calati a 3,7 milioni; a giungo, erano ridotti a 2,5. Nel 1936 sono 1,6 milioni. Nel 1938, sono 400 mila.

Fu il tenebroso «miracolo economico hitleriano», costruito scientemente in senso anti-capitalistico, o almeno contro il capitalismo finanziario e la dittatura dei «mercati». Come ha scritto il generale britannico J.F.C. Fuller, non certo filo-nazista, il miracolo si basò sulle seguenti decisioni:

1 - Di rifiutare prestiti esteri gravati da interesse, e basare la moneta sulla produzione invece che sulle riserve auree.

2 - Di procurarsi le  merci da importare attraverso scambio diretto di beni (baratto) e sostenere le esportazioni quando necessario.

3 - Di porre termine alla cosiddetta «libertà dei cambi», ossia di speculare sulle monete e di trasferire i capitali privati da un Paese all’altro.

4 - Di creare moneta (di Stato) quando manodopera e materie prime erano disponibili per il lavoro, anzichè indebitarsi prendendola a prestito (4).

Queste ricette non implicano necessariamente una dittatura bellicista. In America, Roosevelt  applicò ricette dirigiste o almeno provò ad applicarle; nacque anche là un nuovo modo di pensare economico (il più grande economista del tempo, Irving Fischer, propose «una moneta 100 per 100», ossia il divieto alle banche di fare credito frazionale, di prestare più dei depositi), Gesell con la sua moneta deperibile era un socialista utopistico. Ma è certo che questo tipo di provvedimenti, necessari per la sopravvivenza stessa dei popoli, richiede almeno un «governo forte». Ossia un governo nazionale capace di imporsi alle troppe entità sovrannazionali (Fondo Monetario, WTO), riprendersi la sovranità monetaria e daziaria, di punire e disciplinare le entità speculative private che, spesso, sono più grosse e potenti degli stessi Stati.

La forza degli Stati e degli uomini «forti» viene però solo da una cosa: dal favore dei loro popoli, convinti o speranzosi che essi possano risolvere, con la dovuta energia (brutalità non esclusa) i problemi insolubili creati dalla finanza. Ciò richiede condizioni dello spirito popolare (delle «masse», come si diceva allora) che sono a mio parere - e ciò dovrebbe tranquillizzare l’ammiraglio Blair - irripetibili.

Anzitutto,  oggi non bastano «uomini forti» di livello nazionale, occorrerebbe un «uomo forte» europeo, che non è proprio in vista. Inoltre, l’Europa che diede forza agli uomini forti era fatta di giovani, oggi è fatta di vecchi. Erano giovani appena usciti dalla Grande Guerra, in se stessa un fenomeno sanguinoso ma straordinario come «formazione» di una classe dirigente «forte».

Le necessità della guerra - la prima guerra altamente industriale - comportò il dominio totale degli Stati sull’economia, e il rafforzamentto assoluto del potere esecutivo. Se non fu abolito esplicitamente il capitalismo privato, però il «libero mercato» fu abolito o marginalizzato; lo Stato si occupava del vettovagliamento, del razionamento, del controllo dei prezzi, del procacciamento delle materie prime strategiche, della ricerca e sviluppo (di nuove armi); ordinava alle imprese i generi necessari allo sforzo bellico, della standardizzazione produttiva in ogni campo; gestiva i profughi e gli sfollati (in modo esemplare, data la situazione), la propaganda  in senso univoco (il «fronte interno» psicologico), l’ordine pubblico più restrittivo.

In questa opera, gli Stati si dotarono di burocrazie efficaci (quelle di oggi, la Casta, sono le eredi degeneri di quel periodo), di capacità logistiche, di ordini giuridici di tipo sociale (esempio il blocco degli affitti), di qualità intellettuali e scientifiche - e nel più ampio senso «culturali» - da mettere all’opera per la vittoria. Nella grande depressione del dopoguerra, queste strutture pubbliche efficienti e «forti» erano già pronte a disposizione dell’«uomo forte» (5).

Non è certo il caso oggi, dopo decenni in cui tutte le decisioni sono state lasciate al «mercato» e ai suoi speculatori-plutocrati scandalosi, l’intervento pubblico è stato screditato e la responsabilità publica ridicolizzata, e tutti i processi di formazione ed educazione superiore sono stati delegati a «master in business administration», dalla Bocconi ad Harvard - i cui laureati sono proprio i responsabili del disastro.  Bisognerebbe ricostituire la «cultura dello Stato» perduta in anni di irresponsabilità ed egoismo, promossi e premiati. Come si fa senza guerra? (6).

La grande guerra fu una guerra di massa: 600 mila morti in Italia, 1,7 milioni in Francia, 2 milioni in Germania. La carneficina abituò popoli interi al sacrificio, alla scarsezza di mezzi e persino di cibo (razionato), all’azione violenta; e li rese coscienti del loro potere, della forza del numero: quando arrivò la pace, erano cittadini-soldati, capaci di aderire a forme organizzate e mirate di violenza politica. La società era infinitamente meno individualista nel senso deteriore attuale, e nella guerra lo divenne ancor meno.

Nelle trincee, decine di migliaia di civili istruiti divennero ufficiali, tenenti, capitani, colonnelli: in altre parole, impararono il comando operativo nelle condizioni più tragiche, che richiedono coraggio, audacia e senno. I comandanti intermedi appresero l’obbedienza e la disciplina,  praticarono la tattica militare che poi usarono nelle rivolte di piazza degli anni ‘20, fascisti e comunisti non fa differenza - erano tutti giovani reduci armati, decisi a non farsi più asservire dalle oligarchie savoiarde, insieme stupide ed egoisticamente disoneste. Quando la crisi travolse la legittimità delle «democrazie» e del «mercato», le catene di comando erano intatte; bastò ai rivoltosi disoccupati ritrovare il proprio colonnello e il proprio capitano di cui avevano sperimentato l’affidabilità.

Oggi, le catene di comando sono ridicolmente torbide persino nel Paese più bellicista, gli Stati Uniti, ridotti in Afghanistan e in Iraq ad usare mercenari e «contractors» privati, che obbediscono (quando lo fanno) ai loro dirigenti aziendali. Peggio: le «masse» odierne  esistono solo nell’Auditel; si sono sperimentate, diciamo così, solo davanti alla TV, utenti passivi della società dello spettacolo; sono aduse all’insubordinazione anarchica, parolaia o violenta per futili motivi (le tifoserie, gli stupratori...), corpuscolare e vacua, che esclude per principio ogni obbedienza contro cui s’incaglia ogni tentativo di azione disciplinata. Il consumo di droghe raggiunge il 9% della popolazione.

E ovviamente, nessuno Stato uscito dalla tragedia bellica avrebbe tollerato di essere sostituito dalla criminalità pullulante - la sola cosa «organizzata» da noi - in ben tre regioni, nè il dilagare di micro-criminalità non-politica, disordinata e senza scopo. La repressione sarebbe stata durissima, come lo era stata in tempo di guerra.

Quando le masse negli anni ‘30 - il fondo più cupo della Depressione - acclamarono l’uomo forte e gli diedero il potere (il «loro» potere, non dimentichiamolo: nessun politico è forte senza il massiccio appoggio delle «masse») - ciò che volevano era «il lavoro». Qualunque lavoro: inteso esso stesso come dignità fondamentale e dovere quasi-militare. Nessun tedesco o italiano di quegli anni avrebbe rifiutato il lavoro di mungitore (che i padani e i meridionali affidano ai Sikh), nè quello dei fornai, abbandonato agli egiziani. La produzione essenziale, allora, era quella del necessario, non del superfluo - la società dei consumi. Si desiderava il pane e il pollo e il carbone per la stufa, non il telefonino made in Taiwan. E questo di per sè rende molto più difficile la soluzione «forte» della crisi (7).

Sicchè, io credo che l’ammiraglio Blair sbagli a preoccuparsi: gli anni ‘30 in Europa non si ripeteranno. Quel che ci aspetta è piuttosto una disgregazione sociale di tipo messicano o colombiano, la violenza endemico-criminale tipica di quei Paesi, che la crisi - e l’iper-inflazione- aggraveranno oltre ogni limite.

E in ogni caso, come vedete, «loro» si stanno preparando a reprimere anche questa possibilità improbabile, a difesa del loro capitalismo (8). Noi, a cosa ci stiamo preparando? A cosa,  le nostre classi dirigenti?




1) Bill Van Auken, «US intelligence chief: World capitalist crisis poses greatest threat», World Socialist Website, 14 febbraio 2009.
2) Shaun Walker, «There will be another Russian revolution?», Independent, 17 febbraio.  Manifestazioni sono in corso nelle «città mono-industriali» (eredità sovietica) sconvolte dalla disoccupazione. «But while the crisis might bring a few more thousands on to the streets for protest rallies, few analysts seriously believe mass protests will emerge from monotowns, even if things get really bad. There’s no such thing as society in Russia, according to the Moscow-based analyst Leonid Radzikhovsky, and nobody well organised enough to mount a real challenge to the government from below. ‘Twenty years ago, when the Soviet Union fell, there were people offering alternative ideologies’, says Radzikhovsky. ‘Now, nobody has any alternatives, and there are no structures to organise people’ ».
3) «4° trimestre 2009 - Début de la phase 5 de la crise systémique globale: la phase de dislocation géopolitique mondiale», Europe 2020, 15 febbraio 2009.
4) Fuller, «Amilitary history of the Western world», Minerva Press, 1956. In Giappone è già stata ventilata la proposta di emettere moneta di Stato, anziche farla emettere dalla Banca Centrale «Japan To Issue Government (versus Bank of Japan) Currency? «, Tokyo Takes, 10 febbraio 2009).  La Banca Centrale giapponese, con i tassi a zero, è praticamente ridotta all’impotenza. Quanto allo Stato, ha già un debito immane (175% del PIL) e dunque non può aumentare la spesa pubblica a credito con stimolo keynesiano. La stampa di moneta di Stato consentirebbe di farlo senza spese.  Benchè questo approccio sia ancora inteso a salvare il sistema finanziario insalvabile, indica già un nuovo modo di pensare. O un ritorno al vecchio e comprovato, se si vuole: lo Stato nipponico stampò moneta militare (gumpyo) durante la guerra russo.giapponese e nella seconda guerra mondiale.
5) Il patriottismo suscitava onestà anche nelle burocrazie. Ricordo che, per la bonifica delle Paludi Pontine, il regime stanziò 5 mila lire ad ettaro; e ad opera compiuta, risultarono spese 4.300 lire ad ettaro. La gestione monetaria della Repubblica Sociale fu un modello di responsabilità; al crollo di Salò, la lira si era apprezzata e le riserve auree ancora ragguardevoli (furono saccheggiate dai vincitori, il primo saccheggio delle «democrazie»).
6) Ora qualcuno non intenda che raccomando la guerra. Dichiaro esplicitamente: sono contrario alle guerre, l’eccesso di potenza di fuoco, le armi atomiche e l’uranio impoverito le hanno rese una forma di auto-genocidio. E non servono più nemmeno come tragica scuola di formazione alla responsabilità, vedi USA.
7) Le produzioni o i servizi superflui sono quelli che, nella società dei consumi, impiegano i tre quarti della forza lavoro; la finanza ha finanziato soprattutto quelle, i «consumi voluttuari» in cui ad essere venduti sono il marchio, l’illusione sociale e la pubblicità. Ovviamente, questi consumi sono i primi ad essere tagliati in tempo di crisi. La depressione, la restrizione del credito al consumo,  oggi dunque colpisce in modo più crudele e imponente che negli anni ‘30; ogni programma di austerità  patriottica avrebbe oggi un prezzo sociale troppo alto. Ma d’altra parte, «l’uomo forte»  poteva garantire il necessario e lo strategico, non il voluttuario; è impensabile che il dirigismo
«di guerra» (o di crisi) si applichi alle Ferrari, agli occhiali Luxottica e alle giacche di Armani, o che si immagini una battaglia del grano per la produzione autarchica di telefonini. Bisognerà aspettare che sia la fame vera a riportare «le masse» alla ragione, se ne hanno una. Del resto anche negli anni ‘30 gli uomini forti sono stati portati al potere solo dopo che la crisi aveva devastato tutte le altre  legittimità politiche.
8) E’ da notare che il «liberal» Obama ha nominato tre generali nel suo gabinetto. Oltre l’ammiraglio Blair alla intelligence, il generale dei Marines James Jones come consigliere di sicurezza nazionale, e l’ex capo di StatoM generale Erik Shinseki (che fu cacciato da Rumsfeld)  come ministro agli Affari dei Reduci (veteran affairs). Un significativo segnale del crescente potere politico dei militari nella «democrazia» americana. Evidentemente, sono gli «uomini forti», ma  selezionati al servizio dl  capitalismo terminale. E della repressione interna dei disordini sociali da depressione. Lo scorso novembre l’US Army War College ha emanato uno studio che prevede l’intervento delle forze armate in uno scenario di «dislocazione strategica e violenza del potere interno agli Stati Uniti» e «la perdita di un ordine legale e politico funzionante». La legge marziale sostituirebbe prontamente la «democrazia».  («Known Unknowns: Unconventional ‘Strategic Shocks’ in Defense Strategy Development»).


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