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Pentagono: comincia il contro-golpe?
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Robert Gates, il ministro della Difesa, ha obbligato tutti i più alti funzionari del Pentagono, civili e militari, a non rivelare nulla dei tagli al mostruoso bilancio bellico, che l’amministrazione Obama si appresta a fare (1).

Gates ha voluto dare all’impegno una procedura ostentatamente formale: ciascuno, anche i capi degli Stati Maggiori congiunti - è stato richiesto di firmare un apposito modulo, che Gates stesso ha firmato.

«Chiunque partecipa al processo (di valutazione del budget) ha dovuto firmare un impegno a non parlare di nessuno dei temi che sono parte del processo stesso», ha spiegato Geoff Morrell, il capo dell’ufficio-stampa: «Si tratta di materia altamente sensibile, che coinvolge programmi che costano miliardi di dollari, occupano centinaia di migliaia di persone e vanno al cuore della sicurezza nazionale».

E’ una mossa senza precedenti, se non forse nello stato di guerra. E infatti è una dichiarazione di guerra contro un nemico insospettato: il complesso militare-industriale. Un «nemico» quasi invincibile, che ha molti complici tra i gallonati dello stesso Pentagono e nel Congresso, e che nel decennio Bush ha in qualche modo preso possesso del Pentagono (cioè del suo cliente primario), mettendo ai posti di comando uomini suoi, e spremendo senza controllo  miliardi di dollari in armamenti e progetti di sistemi d’arma superflui. Lockheed, Boeing e i grandi fabbricanti d’armi s’erano abituati a fare il bello e cattivo tempo: ad ottenere contratti mirabolanti per sistemi fantascientifici, a sforare le previsioni di spesa, e a non mantenere le promesse di efficienza e di superiorità dei loro armamenti.

Ogni Paese ha la sua «Casta», arraffatrice e inadempiente. In USA, la Casta è l’industria bellica, che non ha mai faticato a convincere il cliente (il Pentagono) della bontà delle sue «merci». Adesso, si tenta di cambiare.

Lo aveva annunciato Obama, nel discorso al Congresso e alla nazione in cui ha promesso di dimezzare il deficit entro il primo termine (quattro anni): «... In questo budget», ha detto, «noi elimineremo i contratti senza concorso che hanno sprecato miliardi in Iraq, e riformeremo il nostro bilancio preventivo della Difesa in modo da non pagare per armamenti da guerra fredda che non usiamo. Sradicheremo sprechi, frodi e abusi...».

Evidente l’allusione ad Halliburton, la ditta di Cheney che ha avuto contratti miliardari per l’Iraq, aggiudicati senza asta pubblica. Ma certo il discorso è risuonato come una minaccia letale per Lockheed Martin, Northrop Grumman e BAE Systems, il consorzio industriale che aveva rifilato al Pentagono i progetti dei nuovi F-22 e dell’F-35, prima che fossero «maturi» tecnologicamente, e che ogni giorno che passa superano di qualche miliardo il costo iniziale, già astronomico.

Ora, la minaccia è la pura e semplice cancellazione di quei caccia-bombardieri da guerra fredda, del tutto inutili contro i guerriglieri afghani. «Prima dell’acquisizione deve essere dimostrato che le tecnologia sono mature, costruire prototipi prima che si entri nella fabbricazione su larga scala», ha detto un uomo di Obama, Thomas Christie; oggi «saltiamo a quello stadio (di fabbricazione) prima del tempo, e non ammettiamo che ciò crea problemi» (2).

Altri esperti, riuniti in un gruppo chiamato Project on Government Oversight (POGO) hanno rivelato l’amara verità in pubblico, il 19 febbraio scorso: «Il ministero della Difesa spende di più per avere capacità minori e meno aerei, meno divisioni di fanteria, meno navi da battaglia... e spende nel modo sbagliato. Oggi il ministero Difesa spende, in dollari a valore reale depurato dall’inflazione, più di quanto abbia speso dopo la seconda guerra mondiale, compresa la guerra di Corea e il Vietnam». E’ proprio la descrizione-tipo della Casta: costa sempre di più e serve sempre meno.

Pochi mesi fa, non si osavano dire certe cose. Si vede che l’aria è cambiata. Ma l’impegno al segreto fatto firmare da Gates mostra quanto la battaglia sia difficile. I generali americani sono fin troppo vicini al complesso militare industriale. Quando vanno in pensione, ottengono un posto in infiniti consigli d’amministrazione, o direzioni generali, di qualche industria d’armamenti; per converso, amministratori delegati di industrie belliche diventano spesso ministri o vice-ministri.

E naturalmente, la maggior parte dei senatori difende questo o quel progetto inutile o immaturo, magari con la scusa di «difendere l’occupazione» nel suo collegio, ma perchè riceve mazzette dall’industria - praticamente la sola industria nazionale rimasta, che non ha delocalizzato (per ovvii motivi strategici), e da cui dipende molta della ricerca e sviluppo di punta.
L’impegno al segreto per tutti coloro che parteciperanno alle discussioni sul dove e come tagliare ha dunque uno scopo evidente: impedire le «soffiate» dall’interno alle aziende di armamenti, in modo che queste possano prendere contromisure, mobilitare i «loro» parlamentari, fare lobby e pressioni  per mantenere in vita i progetti minacciati - insomma mettere i bastoni tra le ruote. Di fatto, i più alti gradi del Pentagono firmano di routine impegni al segreto militare, per ottenere la «clearance» (ossia l’accesso a documenti «classificati» in vari gradi).

Ma la drammatizzazione che si è voluto dare a questo impegno scritto è che i violatori rischiano non solo il licenziamento, ma l’accusa di violazione della sicurezza nazionale, e forse di tradimento: come in guerra, appunto. Robert Gates (che fu messo a quel posto in sostituzione di Rumsfeld e contro di lui) conosce bene tutti i trucchi, i canali e le vie traverse di cui dispone al Pentagono il forte centro di potere che è il complesso militare-industriale.

contro_golpe_pentagono_1.jpgLa volontà di cambiare è stata confermata da una nomina che Obama ha appena fatto: Ashton B. Carter al posto di terzo viceministro del Pentagono, quello che si occupa delle «acquisizioni, tecnologia e logistica», di fatto colui che decide la spesa di 300 miliardi di dollari annui del titanico ministero. Carter ha sostituito a quel posto, guarda caso, un tale John D. Young che veniva dalla Lockheed Martin, che ha sostenuto a spada tratta l’F-35.

«Contrariamente ai suoi predecessori», ha scritto il Boston Globe (3), «Carter non ha alcun legame professionale con i fabbricanti di armi americani, nè ha passato la carriera nei centri statali di spesa. Invece, dalla sua cattedra alla Harvard’s Kennedy School, Carter ha continuamente accusato il Pentagono di comprare troppi armamenti di cui non ha bisogno, denunciando ciò che chiama mancanza di disciplina e incapacità di rendere contro dei costi crescenti».

Carter ha un dottorato in fisica teorica e un altro in storia medievale (!), e dunque ha le competenze tecniche e la cultura generale per «fare quelle che Gates ha chiamato scelte difficili», scrive il Boston Globe. Forse non a caso, su di lui cominciano a circolare voci di corruzione (che pare provengano dalla Lockheed), e da parte dei neocon, di anti-patriottismo. E su Obama, una parte ben determinata di politici repubblicani fa pendere l’accusa di «socialismo», di «tassatore», di «nazionalizzatore»
di sinistra.

Ma, fatto grave per la Casta bellicista, è che a dirsi d’accordo sulla necessità di prendere «dure decisioni» al Pentagono è il senatore John McCain, il rivale repubblicano di Obama nella corsa alla presidenza.

La guerra è dunque cominciata, ed ha i caratteri di una guerra civile. Se l’amministrazione Obama la vincerà, sarà spazzata via dal Pentagono quella concentrazione di potere - e di uomini di quel potere - che, esistente dalla seconda guerra mondiale, ha via via occupato posti sempre più avanzati, fino a prendere possesso totale del Pentagono al seguito di Bush jr.

Questo gruppo era noto ai tempi della guerra fredda come «Armageddon Network», per la sua insistenza nel proclamare la possibilità di sferrare e vincere una guerra atomica. Donald Rumsfeld ne è stata la figura storica, a capo di un «Team B», o «Committee on Present Danger», che esagerava regolarmente la minaccia sovietica spingendo così per un continuo rafforzamento militare, e che ostacolò il realista Henry Kissinger nei colloqui SALT, per la riduzione concertata delle armi atomiche. Donald Rumsfeld, quando non partecipava a qualche governo repubblicano, trovava lucrosa occupazione in qualche azienda farmaceutica (Searle) o alla testa di ditte del complesso militare-industriale come la General Instrument Corporation (elettronica).

Ricacciato nel settore privato durante la presidenza Clinton, l’Armageddon Network occupò quel periodo per intrecciare più forti relazioni con la lobby ebraica. Il luogo deputato a questa amorosa relazione è l’Istituto Ebraico per gli Affari di Sicurezza Nazionale (Jewish Institute for National Security Affairs), dove generali, consiglieri e amministratori delegati delle aziende militari fraternizzano con generali israeliani, finendo per identificare gli interessi USA con quelli di Israele - e del comune business. La convergenza di interessi ha rafforzato enormemente entrambi: ora le lobby erano due - l’israeliana e la industriale bellica - e quando sono unite, nessuno in America può sfidarle.

Da questa incestuosa relazione sono nate numerose creature: dall’American Enterprise, al Defense Policy Board (di Richard Perle) al «Project for a New American Century», il tink-tank che nel 2000, in una lettera.rapporto, consigliava il futuro presidente USA di approfittare dello stato di «unica superpotenza rimasta» per scatenare un eccezionale riarmo, aggiungendo che per convincere l’opinione pubblica alle enormi spese militari in progetto occorreva «una nuova Pearl Harbour».

Donald Rumsfeld era uno dei firmatari del documento, con Cheney, Wolfowitz, Richard Perle e il futuro Comptroller del Pentagono, il rabbino Dov Zakheim.

Alla data dell’11 settembre 2001 - la nuova, desiderata Pearl Harbour - ai primi  posti del Pentagono  si trovavano piazzati i principali firmatari dell’appello-profezia: Donald Rumsfeld ministro, Paul Wolfowitz, Douglas Feith e Dov Zakheim vice-ministri. Mentre Richard Perle (detto «the prince of darkenss») aveva trasportato il suo Defense Policy Board (formalmente un «istituto privato di consulenza militare») all’interno del Pentagono, come decisore delle politiche belliciste cominciate col pretesto dell’11 settembre. «La  camarilla Wolfowitz» (Wolfowitz’s Cabal»), come la definì Colin Powell, del tutto emarginato da questa «camarilla».

Tutti quei vice-ministri sono ebrei, e collegati col sistema militare-industriale. Paul Wolfowitz, numero 2, l’allievo del filosofo nicciano-talmudista Leo Strauss, consulente Notrhrop-Grumman, il guerrafondaio «Ravelstein» di un romanzo di Saul Bellow. Douglas Feith, il numero 3 col titolo di «policy adviser», è il rappresentante legale della «Israeli Armements Manufacturers», praticamente il consorzio industriale militare israeliano per l’export di armi. Dov Zakheim è l’amministratore delegato (ma in pratica il padrone) della System Planning Corporation, una ditta della difesa che mette in vendita tra l’altro un sistema di teleguida di aerei-bersaglio, capace di controllarne in volo fino ad otto contemporaneamente, nonchè la tecnologia «Flight Terminator System», che consente di prendere il controllo da terra di un aereo dirottato. Tutte tecnologie molto interessanti per gli (ignoti?) autori dell’attentato alle Twin Towers. Dopotutto, gli aerei da teleguidare erano solo quattro, uno scherzo per la System Planning Corp.

Un’altra sussidiaria della System Planning Corp., la Tridata Corporation, nel maggio 2001  (Zakheim era già vice-ministro) era stata incaricata di condurre le indagini e i sopralluoghi relativi al vecchio attentato al World Trade Center, quello risalente al 1993, acquisendo evidentemente un’intima conoscenza delle due Torri e dei loro apparati di sicurezza. In quei mesi, ad occuparsi della sicurezza delle Twin Towers era una ditta, Securacom, nel cui consiglio d’amministrazione sedeva Marvin Bush (fratello del presidente), e che fu chiusa pochi mese dopo l’11 settembre.

contro_golpe_pentagono.jpgFinchè è rimasto viceministro (se n’è andato spontaneamente nel marzo 2004), Dov Zakheim (I neocon sotto accusa a Washington, Maurizio Blondet, EFFEDIEFFE.com) è stato il «controllore dei conti» del Pentagono. E mentre era in quella veste, dai mostruosi e proliferanti conti del Pentagono sono spariti diverse migliaia di milioni di dollari. «Secondo le stime, non siamo in grado di rintracciare 2,3 trilioni di transazioni», disse candidamente Rumsfeld. Una parte di questi trilioni può essere finita in Israele: si disse allora che Zakheim aveva venduto a Sion dei jet nuovi di zecca come «surplus», a prezzo da mercatino dell’usato. In effetti, il General Accounting Office (la contabilità generale dello Stato) notò che, a causa dei sistemi di inventario del Pentagono, erano spariti nel nulla «56 aerei, 32 carri armati e 36 sistemi di lancio di missili Javelin».

Nessuno osò chiedere conto a Dov Zakheim (4), che pure doveva controllare. Forse perchè tutti sono intimiditi dal fatto che è un rabbino, con cittadinanza israeliana. Forse perchè appartiene ad una particolare aristocrazia ebraica: suo nonno, Julius Zakheim (Zhabinka), rabbino ucraino, aveva sposato una parente di Karl Marx ed aveva partecipato alla rivoluzione abortita del 1905 in Russia; suo padre, Julius Zakheim, era un esponente del Betar, organizzazione terroristica ebraica. Fatto sta che, alla richiesta di dove fossero finiti i quattrini, rispose con sicumera: «Noi siamo qui per vincere le guerre, mica per fare i ragionieri». Oggi, indisturbato, è uno dei capi della Booz Allen Hamilton, la più prestigiosa delle agenzie di consulenza strategica, intimamente collegata con il DARPA, la Defense Advanced Research Projects Agency, che è il braccio di ricerca-sviluppo del Dipartimento di Stato.

In quegli anni, Rumsfeld ha avuto tutto il tempo e il potere per applicare al Pentagono la sua «Revolution in Military Affairs», che doveva trasformare le forze armate USA in un agile leopardo capace di balzare felinamente da una guerra all’altra, e ne ha fatto l’ippopotamo obeso che ora Obama e Robert Gates cercano di far dimagrire.

La presa del potere del vecchio «Armageddon Network» sul Pentagono ha, come si vede, i crismi di una specie di colpo di Stato di tipo nuovo. Il repulisti che Obama sta tentanto può dunque configurarsi come un contro-golpe, la liberazione del Pentagono da quei centri di potere, e dalle abitudini che hanno creato con il loro dominio incontrastato.
Presto o tardi, questo sforzo dovrà scontrarsi con la lobby pro-israeliana, i militaristi neocon ancora potentemente presenti sulla scena politica, e ancor più dietro le quinte.

Forse non è un caso che Ashton Carter, il nuovo viceministro delle acquisizioni, provenga dalla Kennedy School of Government di Harvard, la stessa in cui insegna politica internazionale il professor Stephen Walt, autore con John Mearsheimer (università di Chicago) del famoso saggio «The Israeli Lobby and US Foreign Policy», che per primo ha osato affrontare l’argomento-tabù:  come gli interessi israeliani distorcano la politica estera USA, e danneggino i suoi  interessi internazionali.

La guerra sarà dura, comunque. Nei giorni scorsi, Hillary Clinton è spiaciuta alla lobby, perchè pare abbia inviato un messaggio al governo israeliano chiedendo, in termini recisi, che smetta di bloccare gli aiuti umanitari a Gaza (Obama ha stanziato 900 milioni di dollari per la ricostruzione). Diciamo pare, perchè nessun giornale ha pubblicato l’esatto contenuto del messaggio della Clinton,  evidentemente riservato e non destinato alla pubblicazione. Ma per contro, giornali e TV  hanno dato conto delle furiose reazioni della comunità ebraico-americana contro Hillary (5).

«Francamente sono molto sorpreso di questa posizione del governo e della segretaria di Stato», è saltato su Mortimer Zuckerman, esponente del «Jewish Community Relations Council» di New York (il collegio dove la Clinton è senatrice).

«Mi piaceva più prima», ha rincarato Dov Hikind, consigliere comunale ebreo di New York, «e mi domando, come facevo un tempo, chi è veramente Hillary Clinton».

E la giornalista Marcia Kramer s’è affrettata a ricordare che, «quando era first lady, Hillary Clinton invitò a colazione Suha, la moglie di Arafat», e ad intervistare una quantità di ricchi e potenti ebrei di New York che gridano al voltafaccia e al tradimento: quando concorreva per la presidenza, la Clinton si è spesa in stentoree dichiarazioni pro-israeliane, dicono; adesso «ha rivelato il suo vero volto», adesso è «palestinese al 100%».

«Del resto lo abbiamo sempre saputo», dice un altro ebreo di New York.

«E’ grave che non continuino la politica dell’amministrazione Bush, che era  molto più filo-israeliana», dice un tal Akiva Homnick da Gerusalemme.

Insomma, la lobby è sul piede di guerra, e sta preparando una gelida accoglienza per la visita che Hillary si prepara a fare in Israele. Aspettiamoci campagne di stampa sul suo «antisemitismo», e manovre anche peggiori, tipo accuse di corruzione o rivelazioni scandalistiche. Il contro-golpe non è semplice, il nemico agisce senza esclusione di colpi.




1) «Pentagon moves to impose secrecy on budget talks», AFP, 25 febbraio 2009.
2) Antoine Boessenkool, «Critics: DOD spending more, getting less», Defense News, 20 febbraio 2009.
3) Bryan Bender, «Harvard expert nominated for key Pentagon post», Boston Globe, 23 febbraio 2009.
4) Jerry Mazza, «Recherche du trillions perdu», Online Journal, 20 luglio 2006.
5) Marcia Kramer, «Jewish Leaders Blast Clinton Over Israel Criticism - Zuckerman, Lawmakers, Local Jews Say Secretary Of State Not The Hillary Clinton They Used To Know - Hillary Pressuring Israel To Speed Up Aid To Gaza», WcbsTV,  26 febbraio 2009.


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