Don Curzio Nitoglia 16 Marzo 2009
Col presente articolo, attraverso l’analisi del pensiero e delle conquiste del Sionismo, si intende far vedere come la formazione dell’attuale Stato di Israele non risponda alle promesse divine.
All’analisi dell’evolversi dell’idea sionista seguirà lo studio del movimento sionista e dei suoi rapporti con le superpotenze e con i vari Stati europei, compresi quelli nazifascisti, per arrivare alla questione teologica e dottrinale e al rapporto con la Chiesa.
Introduzione
Verso la seconda metà del XIX secolo si sviluppava il flusso migratorio di ebrei verso la Palestina, che non era tuttavia un fenomeno spontaneo, ma il prodotto del Sionismo (1), col concorso di duecento delegati ebrei riunitisi a Basilea e l’adesione di più di cinquantamila ebrei, e con lo scopo di “lavorare al riscatto della Palestina, per crearvi uno Stato israelita” (2).
Il Sionismo non inizia però nel XIX secolo, ma “è l’espressione moderna del sogno vecchio di millenovecento anni, di ricostruire Israele, dopo che Roma aveva messo fine all’indipendenza ebraica in terra d’Israele” (3).
Varie tappe dell’idea sionista
a) Primo periodo: dalla caduta di Gerusalemme fino alla morte di Giuliano l’Apostata (70- 363).
Sotto il regno di Traiano (circa 117) un falso Messia, chiamato Andrea, eccitò il fanatismo di alcuni ebrei al punto che, fra greci e romani, “duecentomila uomini perirono uccisi dalla spada e dal furore dei giudei” (4). Marco Turbo attaccò i rivoltosi e fece pagare loro col sangue un giorno di trionfo.
Sotto il regno di Adriano (130-135) si ebbe un secondo tentativo, quando un certo Bar-Cozbad si fece passare per il messia e i Romani furono cacciati da Gerusalemme, che tuttavia ricadde ben presto nelle loro mani; ma mentre Tito aveva lasciato ancora qualche casa intera, con Adriano la città fu rasa al suolo e al suo posto fu costruita Elia Capitolina, che solo più tardi riprese il nome di Gerusalemme.
Sia il terzo tentativo di rivolta, avvenuto sotto il regno di Antonino (138-161), sia il quarto sotto Marco Aurelio (174-175) non ebbero successo e furono repressi.
Un’altra volta - la quinta - gli ebrei, animati dalla speranza di restaurare politicamente il regno di Israele, al tempo di Settimio Severo (193-211), cospirarono in Siria con i Samaritani contro la dominazione romana, ma ottennero solo di appesantire il giogo cui erano sottoposti.
Il sesto tentativo di riscossa si verificò sotto Costantino (321-327), ma venne anch’esso soffocato e “San Giovanni Crisostomo nella seconda orazione contro i giudei, ci racconta che Costantino, convinto che gli ebrei non avevano rinunciato al loro spirito di rivolta, fece tagliare loro una parte dell’orecchio, affinché, dispersi nell’Impero, portassero dappertutto su di sé il segno della loro ribellione” (5).
Sotto Costanzo si ebbe una settima rivolta, ma Gallo volò in Giudea, dove sconfisse i rivoltosi e rase al suolo Diocesarea, seggio dell’insurrezione: gli ebrei furono uccisi a migliaia e molte città, tra cui Tiberiade, furono bruciate.
L’ultimo tentativo di questo primo periodo è uno dei più celebri ed ha come cooperatore Giuliano l’Apostata, che non solo permise agli ebrei di ricostruire il Tempio, ma li aiutò con tutti i mezzi: sull’esito finale (6).
Se un ruolo importante in tutti questi tentativi di rivolta è da attribuirsi alla tenacia ebraica, il fattore principale è dovuto, secondo l’ebreo convertito Augustin Lémann, ad una “interpretazione di certe profezie bibliche” (7); anzi “è proprio fondandosi su tali profezie che gli ebrei hanno sempre sperato di ritornare a Gerusalemme, di restaurarvi il Tempio (8), per gioirvi col Messia una piena e inalterabile prosperità” (9).
b) Secondo periodo: dalla morte di Giuliano l’Apostata fino alla Rivoluzione francese (363- 1789).
Questo lungo periodo fu marcato dalla rassegnazione, anche se si mantenne sempre una se pur sopita speranza, come afferma anche l’abbé Lémann: “con la morte di Giuliano l’Apostata e il trionfo definitivo del Cristianesimo, fino alla Rivoluzione francese, gli ebrei vivono un periodo di rassegnazione, ma sempre pieno di speranza” (10). Durante questo periodo “la capacità finanziaria e commerciale degli ebrei si sviluppa e si estende su tutte le nazioni, in maniera straordinaria [essi] divengono i finanzieri dei re. Ma in mezzo alle preoccupazioni dei loro traffici e dei loro negozi, non smettono di pensare a Gerusalemme” (11).
Verso il XVI e XVII secolo gli ebrei amanti della Terra Santa si spostarono verso Safed, a pochi chilometri da Betsaida; nel XVII secolo si contavano a Gerusalemme circa cento famiglie ebree e, a partire da quel periodo, i pellegrinaggi alla città santa cominciarono a diventare sempre più numerosi.
c) Terzo periodo
Col filosofismo tedesco del XVIII secolo e con la Rivoluzione francese si assiste all’abbandono dell’idea del ritorno a Gerusalemme e del dogma del messia personale.
Quali furono le cause di un tale mutamento?
La prima è proprio il filosofismo impregnato di quello scetticismo settecentesco, che è stato agente corrosivo di tutte le religioni, compresa la talmudica, prima con Spinoza e poi con Mendelshon, che può essere considerato il fondatore di una sorta di neo-giudaismo, mascherato da deismo. Comincia così a diffondersi nei ghetti l’idea che il Messia potrebbe essere un concetto, un regno, un popolo, ma non una persona, e sorge anche il problema della collocazione fisica e geografica di tale regno. E’ la Rivoluzione francese che concretizza questo mito. Nel 1791 fu concessa l’emancipazione agli ebrei francesi, che videro il messia nei diritti dell’uomo proclamati dalla Rivoluzione.
Dalla fine del XVII secolo fino al 1848 il mito del messia impersonale ha avuto due scuole principali, di cui la prima fiorì in Germania sotto l’egida del filosofismo. Nel 1843 a Francoforte sul Meno si organizza un comitato ebraico riformista, al quale seguirono tre sinodi, uno nello stesso anno a Brunswick, uno ancora a Francoforte nel 1845 e un terzo a Breslau nel 1846, nei quali si affermava che l’unico messia atteso era la libertà di essere ammessi tra le nazioni; da questo il partito talmudista tedesco fu ferito a morte.
La seconda scuola si formò in Francia, sotto l’egida dell’emancipazione, che segna anche l’elemento diversificante delle due scuole. Infatti in Germania, dal momento che l’ebreo non era ancora emancipato civilmente, il suo pensiero era da considerare ardito e prematuro: la libertà civile, non ancora conquistata, era la perla per la quale si era pronti a sacrificare ogni cosa, anche il messia personale. In Francia, invece, gli ebrei fin dal 1791 godevano della libertà civile ed erano quindi più moderati nell’evoluzione della fede circa il messia. Nel Gran Sionismo del 1807 Napoleone era stato riverito ed insignito dei titoli riservati esclusivamente al messia, anche se il partito talmudista era ancora abbastanza forte per fare da contraltare. Fu soltanto a partire dal 1848 che ogni “repressione” da parte della Sinagoga talmudica divenne inefficace anche in Francia. Infatti durante il regno di Luigi Filippo il razionalismo tedesco aveva esercitato un notevole influsso sull’ebraismo francese. Nel 1846, durante l’insediamento del gran rabbino di Parigi, il colonnello Cerf-Beer, in un discorso di circostanza gli fece comprendere che era ormai ora di iniziare con le riforme (“l’aggiornamento”) anche in Germania: il partito talmudista non ebbe più la forza di reagire come in passato. Ormai anche il mondo ebraico francese affermava che la “la Rivoluzione era il vero messia per gli oppressi” (12).
“La nuova Gerusalemme sarebbe stata la Gerusalemme del denaro, con un banchiere per messia, con i fondi pubblici al posto della Thorà, la Borsa al posto del Tempio” (13). Quasi tutti i Paesi dell’Europa occidentale e degli USA in cui gli ebrei conobbero l’emancipazione civile, accolsero tali idee sul messia impersonale, col conseguente abbandono del dogma del messia personale e del ritorno a Gerusalemme.
Breve storia del
movimento sionista
Il Canale di Suez e la Gran Bretagna
Il progetto di aprire il canale di Suez suscitò, verso la
metà dell’800, un vivo interesse in Europa, perché il Mediterraneo avrebbe riacquistato
una notevole importanza. Erano interessate al progetto soprattutto la Francia,
l’Impero asburgico e l’Italia. L’Inghilterra invece sarebbe stata svantaggiata.
Chi si assunse l’onere economico dei lavori fu, in massima parte, il pascià d’Egitto
Said, ma le finanze egiziane furono dissestate dall’enorme quantità degli
esborsi. Nel 1863 gli succede suo nipote Ismail, al quale “vennero in aiuto le banche ebraiche Oppeneim e Rothschild, le quali, bloccato ogni diverso accesso al credito, strinsero in breve il sovrano in un abbraccio mortale agli egiziani è imposto il controllo congiunto
anglo-francese sulle loro finanze; è
l’anticamera dell’occupazione coloniale.
La bancarotta egiziana e le difficoltà politiche che essa genera coincidono col
destarsi dell’interesse britannico
per il canale” (14). La Gran
Bretagna incomincia così a cambiare politica nei confronti dell’Impero
Ottomano, e dopo averlo difeso gelosamente, in chiave antirussa e antifrancese,
decide di non opporsi la suo declino. Nel 1878 occupa Cipro e s’impossessa
delle dogane turche. La situazione col passare degli anni degenera in violenti
disordini e gli inglesi decidono di intervenire manu militari, per cui il 10
luglio 1882 le navi inglesi aprono il fuoco su Alessandria d’Egitto. Con la
grande guerra (1914-1918) l’Inghilterra coglie l’occasione per assestare il
colpo di grazia all’Impero Ottomano, prendendo il controllo della penisola
arabica e della Siria, assicurandosi così la chiave d’accesso dal Mediterraneo
verso la Mesopotamia e il Golfo Persico. La Palestina avrebbe messo al sicuro
le comunicazioni con l’India tramite il Canale di Suez. Il 18 dicembre 1814 la
Gran Bretagna occupa l’intero percorso del canale. Gli inglesi, per essere più
sicuri di aver debellato definitivamente l’Impero Ottomano, svolgono una
politica atta a guastare i rapporti tra i turchi e le popolazioni dell’ex
Impero Ottomano (15). Contattano
inoltre lo sceicco della Mecca Hussein, discendente della figlia di Maometto
Fatima e perciò carico di un gran prestigio spirituale nel mondo islamico (16). Si ruppe così la compattezza del
fronte musulmano.
Dopo tre anni di lotta la partita contro i turchi è vinta dagli arabi. Gli
inglesi occupano Gerusalemme e Hussein Damasco. L’11 novembre 1918 un
comunicato anglo-francese rassicura gli arabi promettendo loro dopo la lunga
oppressione turca, l’insediamento di governi e amministrazioni arabe. Tuttavia
gli arabi dovettero ricredersi e constatare che la Gran Bretagna non aveva per
nulla in vista la liberazione dei popoli arabi dall’oppressore turco, quanto
piuttosto desiderava imporre il proprio volere ai Paesi dei Medio Oriente.
Dalla dissoluzione dell’Impero Ottomano trassero vantaggio soprattutto l’Inghilterra
e la Francia; il trattato di Sévres (10 agosto 1920) segna la fine definitiva
dell’Impero Ottomano, la ratifica inglese di Cipro e dei poteri sul Canale di
Suez. Estromessi i turchi, il destino dell’Arabia passa nelle mani
anglo-francesi. Gli arabi non vogliono rinunciare all’indipendenza, ma il 24
luglio 1920 i siriani sono sopraffatti dai francesi e Damasco viene occupata (17).
Frattanto la nascita del Sionismo, lungi dal risolvere l’eterna questione ebraica, la complicherà, trasportandola, in un’ottica conflittuale, nei Paesi arabi, accenderà nuovo odio tra Islàm e giudaismo, che prima, teologicamente, non esisteva e che si afferma per motivi nazionalistici e di indipendenza territoriale. L’ebraismo internazionale mobilita i propri correligionari inglesi per ottenere l’intervento nella prima guerra mondiale degli USA. La Gran Bretagna concede ai capi sionisti impegnatisi a far scendere in guerra l’America, privilegi eccezionali (18). Il 2 novembre 1917 il ministro degli Esteri britannico lord Balfour consegna al presidente della federazione sionista britannica lord Rothschid una lettera che asserisce: questo focolare ebraico è una parola polisemantica, dietro la quale si cela il concetto di Stato ebraico. Tale progetto costerà caro soprattutto ai palestinesi, anche se l’insediamento ebraico non godrà mai sonni tranquilli in quella che si rivelerà in oriente, come già lo era stata in Occidente, un’avventura priva di certezze fin dal giorno in cui i capi del popolo dissero “Sanguis eius super nos et super filios nostros”, assumendosi una terribile responsabilità per i figli di Israele fino a quando non si convertiranno e non rientreranno nella Chiesa di Dio.
La Palestina diverrà un Paese isolato. “Rompere l’unità della Grande
Siria ed enucleare da essa la Palestina è il primo passo per assicurare il buon
esito del progetto sionista; è una
politica che genera nei palestinesi grande disorientamento. Essi si trovano d’improvviso in un Paese occupato militarmente
e tagliato fuori da qualsiasi precedente collegamento amministrativo e
politico.
La nuova entità territoriale che aveva sempre fatto parte di organizzazioni
statuali più vaste e mai aveva manifestato aspirazioni autonomiste, è creata, fin dall’inizio, con l’obiettivo dello snaturamento etnico. L’originaria popolazione araba è destinata ad essere sommersa e
sostituita” (19).
La reazione araba contro l’immigrazione e l’occupazione ebraica (che gli stessi inglesi autorizzavano) offrirà all’Impero britannico larghe possibilità d’ingerenza. Dietro l’alibi del mantenimento della pace, l’Inghilterra avrebbe potuto nascondere facilmente la sua volontà di presenza militare in Palestina sine die. Solo il processo di decolonizzazione iniziato alla fine della seconda guerra mondiale spingerà gli inglesi a lasciare la Palestina. Allora al colonialismo inglese subentrerà quello sionista.
Il “Libro
Bianco”.
Il 17 maggio 1939 l’Inghilterra annuncia di voler abbandonare l’idea della
spartizione della Palestina e il Foreign Office con un suo Libro Bianco, s’impegna
a concedere ai palestinesi l’indipendenza; l’effettivo passaggio dei poteri,
tuttavia, sarebbe avvenuto solo dieci anni dopo.
Gli arabi pensano di intravvedere la fine delle loro sofferenze, ma la proposta
inglese è condizionata all’esito della seconda guerra mondiale. Infatti il
Libro Bianco segue di pochi giorni le garanzie antigermaniche rilasciate dall’Inghilterra
a Polonia, Grecia e Romania, per cui rappresenta solo un diversivo o un
espediente atto a accaparrarsi, in un momento così difficile, la simpatia e la
neutralità del mondo arabo, la cui posizione è di estrema rilevenza strategica.
L’Inghilterra in sostanza con il Libro bianco ha voluto solo tergiversare e
congelare la questione palestinese e rinviare ogni decisione al termine del
conflitto. Gli ebrei di Palestina si vedono accordare così una tregua
provvidenziale di parecchi anni, una proroga all’eventuale sfratto e possono
continuare ad accogliere nuovi immigrati. Nel maggio 1942 a New York, all’Hotel
Biltmore, si riunisce una conferenza sionista che reclama la costituzione dello
Stato ebraico e pretende l’annullamento di qualsiasi limite all’immigrazione,
ed infine l’affidamento della supervisione sull’immigrazione alla Jewish
Agency. “In Palestina intanto l’Haganah, l’organizzazione militare ufficiale dei sionisti che dal 1929 al 1939 si
era armata con la connivenza della potenza mandataria (la Gran Bretagna), rafforza i suoi reparti e si prepara alla
lotta contro gli inglesi nel caso costoro insistano a dare applicazione a quel
Libro Bianco del 1939 col quale avevavo promesso ai palestinesi l’indipendenza. L’Irgun e la Banda Stern scatenano una campagna terroristica che si
propone di piegare definitivamente gli inglesi al volere del Sionismo. Prima
vittima illustre della Banda Stern è il ministro britannico per il medio
Oriente, Lord Moyne, che viene assassinato nel novembre 1944”
(20). Con la fine della seconda
guerra mondiale assistiamo al coincidere de facto delle aspirazioni del
Sionismo con quelle delle due superpotenze, (USA e URSS). Russi e americani
hannno capito che uno Stato ebraico in Palestina è un valido elemento
destabilizzante in una delle zone geopolitiche più importanti del mondo, che
permetterà loro di interferire negli affari interni di tutti i Paesi del Medio
oriente e di innescarvi una grave conflittualità tra Europa e mondo arabo.
Il compito dell’occupante britannico è ormai finito, ad esso subentreranno
sionisti, USA e URSS.
Il 29 novembre 1947 l’Assemblea Generale dell’ONU, con la risoluzione 181,
approva il piano che prevede la spartizione della Palestina in due Stati: uno
arabo e uno ebraico (21). Il 14
maggio 1948 il consiglio Nazionale Ebraico proclama lo Stato d’Israele,
mettendo il mondo davanti al fatto compiuto (22). Mentre USA e URSS dietro lo schermo della guerra fredda
collaborano sottobanco alla spartizione dell’Europa e del Medio Oriente, la
stampa filo-ebraica presenta Israele come il bastione contro il comunismo -
mentre in realtà era uno Stato laico e socialista nato col consenso sovietico -
tacendo però che il comunismo era fuori legge in tutti i Paesi arabi, e creando
il consenso del pensiero moderato e liberalconservatore. Con la guerra del 1967
l’intera Palestina è di Israele, compresa Gerusalemme, che secondo la
risoluzione 181 avrebbe dovuto essere posta sotto amministrazione
internazionale (23). Gli ebrei non
rispettano la decisione dell’ONU, le cui risoluzioni ingiungono il ritiro dell’esercito
israeliano e che restano però lettera morta. Il 10 novembre 1975 l’ONU, per non
perdere la faccia, è costretta a varare una risoluzione che equipara Sionismo e
razzismo, ma Israele non si ferma, confidando nella irresolutezza dell’ONU, che
di lì a qualche tempo sopprime la risoluzione.
La vittoria del Sionismo fallisce però il suo obiettivo
principale, quello cioè di dare vita ad uno Stato nazionale pacificato e
compatto anche etnicamente, come ha rilevato anche il giornalista ebreo Paolo
Guzzanti in un articolo su La Stampa di Torino: “Questi giovani (di Tel Aviv)
così euroamericani, così laici, non hanno affatto l’aria di
coltivare il nostalgico patriottismo dei padri e dei nonni. Questa città sta
perdendo la memoria, Tel Aviv si va
sempre di più costruendo dentro di sé come una minuscola simbolica New York, l’intera
città pullula di locali per gay, per
lesbiche, per transessuali Le
sfrenate passioni adolescenziali di molte ragazze di Tel Aviv per i Che Guevara
di Hamas sono leggendarie. Passioni in genere corrisposte da giovani
palestinesi con spirito predatorio a senso unico: non si ha notizia di sciagurati sbandamenti delle ragazze palestinesi
per i giovani soldati israeliani e matrimoni nei due sensi seguono la stessa
legge: marito palestinese e moglie
israeliana, sì. Marito israeliano e
moglie palestinese, no. Un uomo che
ha combattuto tutte le guerre mi dice: ‘La
pace non è la fine dell’incubo. I
nemici che un tempo erano incapaci di combattere contro di noi, che potevamo sconfiggere in un attimo oggi sono
bravi come ed anche più dei nostri soldati; sanno per che cosa combattere,
sono bene armati ed addestrati.
Da noi il patriottismo cede il passo al senso di colpa. Gli arabi ci odiano, ma parlano perfettamente l’ebraico. Noi non parliamo una parola di
arabo e vorremmo essere amati da loro”
(24).
Il Sionismo: nascita e sviluppo del movimento sionista
a) Il primo Congresso di Basilea (agosto 1897).
Le origini del Sionismo attuale vanno ricercate nell’opera
del giornalista viennese Theodore Herzl che, insieme al parigino Max Nordan,
organizzò tre congressi a Basilea. Nel primo fu definito il programma del
Sionismo, cioè “creare al popolo ebreo un
domicilio garantito dal diritto pubblico in Palestina”. Molto forti e
vivaci furono le reazioni, quasi “una
sollevazione massiccia del rabbinato
contro tale progetto” (25), al
punto che si parlò di “divorzio tra
sinagoga e Sionismo.
La prima, soddisfatta dell’emancipazione, non voleva essere nient’altro che una religione.
Il secondo, risvegliato dall’esplosione misteriosa dell’antisemitismo, proclama: noi siamo un
popolo e vogliamo ricostruire la nostra nazionalità. La prima non ha più la
fede integrale di Mosé e dei profeti. Il Sionismo non considera gli ebrei che
come un popolo, invece di riconoscere
che è il il popolo di Dio” (26).
Infatti è “unicamente in un fine politico e senza rifarsi al passato religioso d’Israele che il Sionismo vorrebbe rientrare in possesso di Gerusalemme e resuscitarvi la nazionalità ebraica” (27).
D’altra parte il rabbinato occidentale, pur avendo per lo più abbandonato la speranza di un Messia personale, rifiuta di associarsi al Sionismo e di incamminarsi verso Gerusalemme. Questo è il cuore del problema sionista e il principio della sua soluzione alla luce della fede cristiana, come vedremo in seguito.
Il gran rabbino di Francia, Zadoc-Fahn spiega mirabilmente che “Il Sionismo risale alla distruzione del Tempio di Gerusalemme da parte di Tito. Ma vi è un’enorme differenza tra il Sionismo attuale e quello di diciotto secoli fa. Per i fedeli dei tempi antichi era il Messia inviato da Dio che doveva miracolosamente ricostruire Sion e non avrebbe mai neppur lontanamente pensato a cogliere tal fine mediante vie naturali. Un tale spirito non poteva resistere all’influsso della Rivoluzione francese. L’idea messianica si trasformò, il Messia divenne il simbolo del progresso, della fraternità umana, infine realizzata dal trionfo delle grandi verità morali e religiose che il giudaismo ha sparso dappertutto” (28).
Se il rabbinato occidentale, oramai ben integrato in Europa,
rifiutava anche lo pseudo sionismo laico di Herzl, vi era ancora una frangia
ebrea che attendeva un messia figlio di David, ma “non avrebbe mai accettato di ritornare a Gerusalemme fino a che il
Messia non fosse comparso” (29).
Ristabilire uno Stato d’Israele con mezzi umani - come è avvenuto - non era
accettabile per gli ebrei talmudisti. Gli Archives Israëlites scrivevano a
questo riguardo: “Se per Sionismo si intende
coloro che perseguono attualmente prima del tempo promesso la ricostruzione
della nazionalità ebrea possiamo affermare che i sionisti di questa specie sono
rari nantes in gurgite vasto” (30).
Ed ancora: “Ricostruire il Regno di
Giuda? Noi ebrei ortodossi, fedeli
all’idea messianica, crediamo alla
venuta del Messia fondatore di un impero universale. Ma quale rapporto vi è tra
questo ideale religioso e il progetto del dottor Herzl e dei suoi amici?” (31).
b) Il secondo Congresso di Basilea (agosto 1898).
Durante il secondo Congresso apparve ancora più chiaro il nodo del problema e la contraddizione immanente al Sionismo moderno, per il quale il giudaismo deve essere una nazione e non una religione, mentre per il rabbinato esso era una religione piuttosto che una nazione. Perciò il rabbinato occidentale emancipato, benché liberal non voleva avere rapporti con il Sionismo, poiché quest’ultimo era soltanto un nazionalismo razionalista laicista e naturalista che non aveva alcuna radice nel suo passato religioso: “Noi non ci immaginiamo facilmente uno Stato ebreo laico, di cui la Thorà non sia la carta necessaria non si riesce a capire l’esistenza di una società israelitica che non abbia la fede per suo fondamento. Tale nazionalismo puramente razionalista sarebbe la negazione della storia e delle profezie bibliche!” (32).
In sintesi il secondo Congresso segna l’abbandono di Gerusalemme da parte dei rabbini e l’abbandono della religione, e quindi del passato di Israele, da parte del Sionismo.
c) Il terzo Congresso di Basilea (agosto 1899).
L’ostilità del rabbinato esplode per la terza volta e la maggior parte degli ebrei d’Occidente si mostra fermamente contraria ai progetti dei sionisti. Tuttavia gli ebrei orientali, non ancora emancipati civilmente e quindi non assimilati, restano fedeli, per la maggior parte, all’idea del messia personale e del ritorno miracoloso a Gerusalemme (33).
Il periodo di
rassegnazione speranzosa è sempre sussistente nel giudaismo orientale
Migliaia e migliaia di ebrei dell’Austria, della Romania, Polonia, Russia, dell’Asia e dell’Africa restano fedeli al Talmudismo, restano cioè estranei all’influsso del filosofismo, delle idee moderne e non hanno conosciuto la rivoluzione emancipatrice; perciò mantengono una fede cieca in un messia bellicoso e conquistatore che li riporterà a Gerusalemme. Essi sono più numerosi degli ebrei occidentali. “Su sette, otto milioni di ebrei che esistono oggi [1901] come all’epoca di Gesù Cristo, la maggior parte risiede fuori dell’Europa occidentale” (34). E’ significativo l’appello indirizzato agli studenti ebrei dell’università di Praga dal Consiglio eletto del Corpo degli studenti della nazione ebrea: “Compagni israeliti, gli ebrei non sono né tedeschi, né slavi, essi sono un popolo a parte. Gli ebrei sono stati e restano un popolo autonomo per unità di razza, di storia, di sentimenti! Basta con le umiliazioni! Ebreo, non sei uno schiavo!” (35).
Il Sionismo e Il B’naÏ B’rith
Se lo scopo del presente articolo è quello di affrontare il discorso sul Sionismo alla luce delle profezie dell’Antico e del Nuovo Testamento ad esso inerenti, occorre tuttavia fare un costante riferimento al processo storico della realizzazione del Sionismo in Palestina dalla fine del XIX secolo ai giorni nostri, rimandando il lettore per gli argomenti più specifici alla bibliografia indicata alla fine.
Emanuel Ratier ha presentato anni fa uno studio molto interessante e ricco di documenti inediti sul B’naï B’rith (36), nel quale vi è un intero capitolo dedicato al Sionismo, la cui documentazione servirà ora per analizzare quale influsso la potente loggia dei “Figli dell’Alleanza” abbia avuto nella nascita dello Stato di Israele.
Fin dalla sua origine il B’naï B’rith è di ispirazione sionista, fin da quando due rappresentanti del B’naï B’rith romeno parteciparono nel 1898 al secondo congresso sionista di Basilea. Tuttavia le logge americane, a differenza di quelle europee, tutte filosioniste, erano su posizioni molto più moderate; ma l’evoluzione verso un atteggiamento favorevole al Sionismo fu rapida e già nel 1917 il giornale ufficiale del B’naï B’rith americano si dichiarava favorevole alla dichiarazione di Balfour (37). Anche le logge londinesi esercitarono una capitale influenza sullo sviluppo del Sionismo, come testimonia anche Paul Goodman nella storia della prima loggia del B’naï B’rith d’Inghilterra (38). Anche il distretto di Germania, inizialmente ostile al Sionismo si avvicinò successivamente alle posizioni londinesi filosioniste. Nel 1897 in una dichiarazione del 27 giugno, il comitato generale del B’naï B’rith tedesco, si dichiarò totalmente contrario al Sionismo, ma successivamente in una seconda risoluzione del comitato generale del 22 maggio 1921 si schierò su posizioni assolutamente favorevoli alla creazione di uno Stato ebraico in Palestina.
Il B’naï B’rith in Palestina (39). Da centinaia di anni il giudaismo d’oriente viveva in uno stato quasi letargico sotto il regime ottomano (40).
Nel 1865, ventitré anni prima della nascita del Movimento sionista di Herzl, il B’naï B’rith organizzò una grande campagna di aiuti alle vittime ebree del colera in Palestina e da allora non ha mai cessato di finanziare iniziative private in Israele. Non appena le circostanze politiche lo permisero, l’ordine si impiantò in Medio Oriente; in Egitto nel 1887 furono create due logge e l’anno seguente fu fondata la prima loggia di Palestina, il cui primo segretario fu Elieser Ben-Yehouda, il padre dell’ebraico moderno, allora considerato una lingua morta, nel quale tradusse la costituzione e il rituale segreto del B’naï B’rith (41).
Nell’aprile del 1925 l’Ordine inaugurò la prima Università ebraica.
La grande Loggia di
Palestina
Il B’naï B’rith aveva sempre temuto che la creazione di un distretto di Palestina insospettisse il regime turco, per cui la sede del distretto d’Oriente era stata posta a Costantinopoli. Il mandato inglese e la dichiarazione Balfour autorizzarono la creazione del XIV distretto il cui primo gran presidente fu David Yellin. Nel 1948 il B’naï Brith contava in Israele quarantotto logge, nel 1968 centotrentotto, mentre oggi il loro numero supera le duecento.
Durante il regime turco, tra il 1873 e il 1917, erano già state fondate sei logge massoniche in Palestina... di cui la prima, denominata Loggia del re Salomone, a Gerusalemme nel maggio 1873; durante il mandato britannico (1921-1947) la Massoneria conobbe un rapidissimo sviluppo.
La loggia inglese del
B’naï B’rith e la Palestina
Il primo presidente del B’naï B’rith Herbert Bentwich era stato uno dei primi a condividere le tesi di Theodor Herzl sul Sionismo e nel 1897 aveva organizzato un pellegrinaggio di ebrei in Palestina tramite l’Ordine degli anziani Maccabei, a nome del quale aveva vi acquistato un terreno, a Gezer, dando inoltre alla First Lodge un orientamento spiccatamente sionista.
All’inizio della prima guerra mondiale fu creato un Comitato ebraico d’urgenza, composto esclusivamente da membri del B’naï B’rith, con lo scopo di fare pressione sui futuri negoziatori di pace, per ottenere nel dopoguerra una home nazionale ebraica in Palestina (42).
Henry Monsky
In America l’Ordine fu il principale luogo d’incontro e
fusione tra gli ebrei di origine tedesca (borghesi e riformisti) e gli ebrei
provenienti dall’Europa dell’Est (più poveri, ortodossi e filosocialisti), che
si opponevano all’idea di fusione degli ebrei con il popolo americano. L’ascesa
al potere di Hitler nel 1933 rilanciò l’interesse per la home nazionale ebraica
in Palestina. “Il vecchio antisionista è così divenuto - scrisse
Alfred Cohen, presidente del B’naï B’rith americano - un non-sionista. Egli guarda senza ostilità l’operazione Palestina. Sarà tuttavia sempre contro il Sionismo politico, che apparirà, per il momento, come una
causa per la quale non ci può infiammare.
Le discussioni accese tra sionisti e antisionisti si sono raffreddate” (43).
Henry Monsky, eletto presidente del B’naï B’rith nel 1938, approfittò della seconda guerra mondiale per rilanciare l’Eretz Israel e dal 1941 rimase in stretto contatto con i principali dirigenti sionisti. Il B’naï B’rith nel 1942 approvò il programma di Baltimora.
Il 29 agosto 1943 si tenne una storica riunione dell’Ebraismo americano, voluta da Monsky, alla quale erano presenti sessantaquattro organizzazioni nazionali ebraiche, con cinquecentoquattro delegati - di cui almeno duecento fratelli del B’naï B’rith - in rappresentanza di un milione e mezzo di ebrei. La riunione fu tuttavia boicottata da due tra le principali organizzazioni ebraiche antisioniste, il Comitato ebraico americano e il Comitato del lavoro ebraico.
Monsky fu correlatore della risoluzione a sostegno del
programma di Baltimora, approvata quasi all’unanimità (408 voti contro 3), e
divenne il presidente della nuova struttura ebraica unitaria,
la Conferenza ebraica americana, che ebbe termine nel 1949, ma che fu rimessa
in piedi nel 1955 da un organismo più modesto, la Conferenza dei presidenti
delle grandi organizzazioni ebraiche, in seguito al riconoscimento dello Stato
di Israele. Samuel Happerin ha scritto: “Pur
non avendo mai ufficialmente avocato a sé l’ideologia sionista le azioni effettive del B’naï B’rith hanno compensato
tutte le esitazioni. Per valutare l’aumento
di potere del Sionismo americano bisogna tener conto in maniera preminente
della guida, del numero dei membri e
dell’assistenza finanziaria del B’naï
B’rith” (44). Il B’naï B’rith non aveva infatti preso ufficialmente
posizione in favore del Sionismo fino al 1947, volendo evitare ogni divisione
in seno all’ebraismo americano al cui interno permaneva una minoranza
antisionista.
Il B’naï B’rith fa riconoscere Israele
E’ stato il B’naï B’rith che ha provocato il riconoscimento
(de facto) dello Stato d’Israele da parte del presidente americano Harry
Truman, che era ostile ad un riconoscimento rapido d’Israele, e che a causa del
suo “ritardismo” veniva accusato dai
dirigenti sionisti di essere un traditore. Nessuno dei leader sionisti era
ricevuto, in quei frangenti, alla Casa Bianca. Tutti, tranne Frank Goldman,
presidente del B’naï B’rith, che non riuscì però a convincere il presidente.
Allora Goldman telefonò all’avvocato Granoff, consigliere di Jacobson, amico
personale del presidente Truman. Jacobson, un B’naï B’rith, pur non essendo
sionista, scrisse tuttavia un telegramma al suo amico Truman,
chiedendogli di ricevere Weizmann (presidente del Congresso Sionista mondiale).
Il telegramma restò senza risposta, allora Jacobson chiese un appuntamento
personale alla Casa Bianca. Truman lo avvisò che sarebbe stato felice di
rivederlo, a condizione che non gli avesse parlato della Palestina. Jacobson
promise e partì. Arrivato alla Casa Bianca, come scrive Truman stesso nelle sue
“Memorie”: “Delle grandi lagrime gli colavano dagli occhi... allora gli dissi: ‘Eddie, sei un disgraziato, mi avevi
promesso di non parlare di ciò che sta succedendo in Medio Oriente’. Jacobson mi rispose: ‘Signor presidente, non ho detto neanche una parola,
ma ogni volta che penso agli ebrei senza patria (...) mi metto a piangere’ Allora
gli dissi: ‘Eddie, basta’. E discutemmo d’altro, ma ogni tanto una
grossa lacrima colava dai suoi occhi (...) Poi se ne andò”.
Ebbene poco tempo dopo, Truman ricevette Weizmann in segreto e cambiò radicalmente opinione, decidendo di riconoscere subito lo Stato d’Israele. Così il 15 maggio 1948 Truman chiese al rappresentante degli Stati Uniti di riconoscere de facto il nuovo Stato. E quando il presidente firmò i documenti di riconoscimento ufficiale dpIsraele, il 13 gennaio 1949, i soli osservatori non appartenenti al governo degli Stati Uniti erano tre dirigenti del B’naï B’rith: Eddie Jacobson, Maurice Bisyger e Frank Goldman.
E’ poi da ascrivere al B’naï B’rith il mutamento della politica americana riguardo alla questione palestinese: infatti se negli anni cinquanta essa era stata globalmente favorevole agli arabi, essa cambiò rapidamente in seguito alle continue pressioni dell’Ordine sul governo americano per ottenere enormi aiuti economici e bellici in favore dello Stato di Israele.
Con la “guerra dei sei giorni” si assistè infine alla sionizzazione definitiva de facto e de jure del B’naï B’rith e dell’A.D.L.; “Questa vittoria miracolosa ha permesso un’identificazione tra ebrei e Stato di Israele, del tutto diversa da quanto era avvenuto agli albori di tale Stato. E’ in questo frangente che l’A.D.L. e il B’naï B’rith pongono come pietra di paragone l’asserto che l’antisionismo equivale all’antisemitismo” (45).
Il laicismo sionista
L’idea sionista di Teodoro Herzl è assolutamente laica e (46), come testimoniano le sue parole
(47 e 48).
Ma l’idea sionista era molto forte, al punto da rasentare in tanti fondatori di Israele l’indifferenza verso il genocidio, come denuncia lo storico israeliano Tom Segev nel suo libro “Le septiem million” (49), e come scrive Barbara Spinelli su La Stampa (50). Anche Fiamma Nirestein qualche giorno prima aveva ricordato, sullo stesso quotidiano, che Ben Gurion aveva fatto affondare una nave carica di giovani militanti dell’Irgum, perché erano di ostacolo al riconoscimento dello Stato di Israele.
Vana era stata anche la speranza, di Teodoro Herzl, di ottenere un riconoscimento da parte della Santa Sede, nonostante l’incontro con San Pio X il 25 gennaio 1904, preceduto da quello con il cardinale Merry Del Val il 22 (51).
La conquista della Terra Santa
“Questo piano - scrive il Lémann - sembra essere stato adottato dai promotori del Sionismo. E’ così che l’infiltrazione lenta e dissimulata preparerebbe, a colpo sicuro, gli elementi costitutivi dello Stato ebraico in Palestina, fino al giorno in cui un avvenimento propizio ed improvviso (la seconda guerra mondiale, ndr), permetterà al Sionismo, sia mediante un tentativo ardito, sia mediante un’abile diplomazia, di mettere definitivamente la mano sul suolo tanto desiderato di tutta la Giudea” (52).
Con la dissoluzione dell’Impero ottomano (durante la prima guerra mondiale) il mondo cattolico cominciò a sperare che la Palestina sarebbe tornata in mani cristiane (53). E Pasquale Baldi, uno dei più noti studiosi della questione dei luoghi santi, così scriveva: “Oggi per un prodigioso combinarsi di eventi, che noi riteniamo provvidenziale, Italia, Francia, Inghilterra, tre nazioni che ebbero tanta parte nelle guerre sante, tengono Gerusalemme sotto il proprio dominio. Oggi a ragione dunque i cattolici di tutto il mondo possono attendersi che suoni finalmente l’ora della giustizia; che per i Santuari della Palestina si rinnovino gli splendori dell’era costantiniana, gli splendori del primo secolo delle crociate!” (54).
Ciò che della questione dei Luoghi Santi maggiormente colpì ‘attenzione dell’opinione pubblica europea fu la loro liberazione dal dominio musulmano e poi le controversie delle diverse confessioni cristiane circa il loro possesso. La Santa Sede agì diplomaticamente in vista di questi due obiettivi principali, situare la Palestina nella sfera di controllo delle potenze cattoliche, e porre un riparo alle usurpazioni compiute dai greci ortodossi nel 1757 (55). Quando gli Stati dell’Intesa, ormai in procinto di vincere il conflitto, manifestarono un orientamento favorevole alla internazionalizzazione della Terra Santa, il mondo cattolico pensò che il primo obiettivo fosse quasi raggiunto.
L’idea di affidare la Terra Santa ad un governo internazionale non era nuova, ma fu soltanto nel corso della prima guerra mondiale che queste proposte assunsero un carattere di attualità. Con la caduta del regime zarista cessò anche ogni possibilità di intervento russo-ortodosso in Medio Oriente (56).
Il Vaticano tuttavia non riteneva che la soluzione di affidare il governo della Terra Santa ad un governo internazionale fosse la migliore; lo stesso cardinal Gasparri puntualizzò che alla Santa Sede sembrava più corretto parlare di ‘carattere di nazionalità intendendo sottolineare che i luoghi santi, anziché essere sottoposti al governo di più nazioni, avrebbero dovuto essere sottratti al controllo di qualsiasi organismo politico ed affidati ad istituzioni religiose come la Custodia di Terra Santa. In questo contesto potrebbero trovare spiegazione le voci - non però confermate - relative all’eventualità di un governo pontificio in Palestina. Tuttavia la consapevolezza dell’impossibilità di tradurre in pratica questo progetto ne aveva impedito qualsiasi elaborazione concreta ed aveva indotto la Santa Sede a ripiegare sull’ipotesi di un regime internazionale” (57).
“Dopo la prima guerra mondiale gli sforzi della Santa Sede si erano indirizzati nel senso di realizzare un progetto di riaffermazione del Cattolicesimo ispirato dal ‘proposito di procedere ad una cristianizzazione non soltanto degli individui, ma della società e degli Stati da compiere con tutti i mezzi” (58). “La codificazione canonica del 1917, dominata dall’immagine della Chiesa come societas juridice perfecta, e la politica concordataria degli anni venti e trenta, volta a restituire alla Chiesa quelle funzioni pubbliche che le erano state sottratte in epoca liberale, costituirono le manifestazioni salienti di questo intendimento, cui era sottesa una ecclesiologia che mirava ad instaurare visibilmente il regno di Cristo in ogni sfera della vita umana, compresa quella politica” (59).
Tuttavia le speranze della Santa Sede ebbero vita breve, perché tra il 1917 e il 1918 il quadro politico subì radicali cambiamenti che portarono all'accantonamento del progetto d’internazionalizzazione.
Vi fu quindi la famosa dichiarazione Balfour, che impegnava la Gran Bretagna a favorire la creazione di una casa nazionale ebraica in Palestina (60). Il cardinal Gasparri stesso, nel dicembre 1917, aveva espresso al rappresentante diplomatico del Belgio le sue perplessità (61). Lo stesso pontefice Benedetto XV intervenne pubblicamente ed affermò che deprecava l’eventualità di uno Stato sionista (62).
Il Papa espresse i suoi timori soprattutto nell’Allocuzione “Causa nobis”, del 13 giugno 1921 (63).
Il Consiglio supremo Alleato riunito a Sanremo nell’aprile del 1920 pose definitivamente fine alla speranza di una internazionalizzazione della Palestina assegnandone il controllo alla Gran Bretagna, proprio a quel Paese, cioè, di cui la Santa Sede diffidava maggiormente, non solo per il sostegno promesso alla causa sionista, ma anche per l’influenza che la chiesa anglicana avrebbe potuto esercitare in Terra Santa (64).
La Santa Sede e la “Teologia del Sionismo”
La Santa Sede vedeva nella dichiarazione Balfour per la creazione di una sede nazionale ebraica in Palestina la conferma del timore già espresso da Benedetto XV. Il cardinal Gasparri da parte sua, aggiungeva in una lettera, ai timori prettamente religiosi espressi dal Pontefice, una nuova motivazione, la difesa delle “popolazioni indigene” e delle “nazionalità” minacciate dalle aspirazioni sioniste (65 e 66).
L’Osservatore Romano si occupò ampiamente dei problemi della Terra Santa e del Sionismo, non sottovalutando affatto l’enorme importanza e la portata escatologica della questione sionista.
“In Europa - scriveva il suo corrispondente da Gerusalemme - si è troppo facili, con una superficialità che irrita, a guardare al nuovo fenomeno semitico palestinese con aria scettica di compatimento. Ma la realtà è una sola: gli ebrei lavorano con eroica serietà di propositi L’eventualità di un argine da parte degli arabi non ha nessuna consistenza. La loro opposizione di prammatica non arresterà nemmeno di un passo l’avanzata del Sionismo” (67).
Da questa osservazione nascevano due linee interpretative, l’una privilegiava una lettura in chiave religiosa del Sionismo, giudicato un punto di passaggio verso “la conversione degli ebrei al Cristianesimo” (68); l’altra, invece, insisteva piuttosto sui pericoli che derivavano alla presenza cristiana in terra Santa, dal rafforzamento del Sionismo.
La Civiltà Cattolica si segnalò per aver fornito una visione teologica del problema sionista, definendo chimerico il disegno perseguito dal Sionismo, oltreché ingiusto (69 e 70). Il Sionismo inoltre, per i gesuiti della Civiltà Cattolica, si mostrava incapace di dare una risposta convincente al problema ebraico (71 e 72 ). Soprattutto costituiva un problema rper la pace in Palestina (73).
Nel 1943 monsignor Tardini, Segretario per gli affari straordinari della Santa Sede, confermò tale visione teologica sul Sionismo (74).
La condanna dell’antisemitismo razzista e biologico espressa da Pio XI nel 1928 “non implicava in alcun modo l’adozione di orientamenti più favorevoli al Sionismo. Essa infatti nasceva dalla preoccupata reazione della Santa Sede per il dilagare in Europa di movimenti e dottrine ispirati a principi di esasperato razzismo e nazionalismo, ma non presuppone alcuna revisione della tradizionale concezione cattolica che negava al popolo ebraico, dopo la venuta di Cristo, qualsiasi ruolo nella storia della salvezza, che non fosse quello di testimoniare, con le sue sofferenze, la verità della Rivelazione cristiana. ‘Dopo la morte di Cristo, Israele fu licenziato dal servizio della Rivelazione’, disse nel 1933 l’arcivescovo di Monaco, cardinal Faulhaber” (75).
Nel 1938 La Civiltà Cattolica ribadì in modo più esteso la sua posizione: “Tutto il valore del giudaismo era nella sua sola ragione di essere la preparazione del’Avvento del Messia; venuto il Messia, in persona di Gesù Cristo, cessò necessariamente e automaticamente il valore del giudaismo tutt’insieme, e quale popolo ‘eletto’ e quale religione” (76, 77, 78 ).
Come aveva scritto L’Osservatore Romano “il Sacrificio di Cristo, voluto da un popolo che se ne proclamò responsabile per sé e per i suoi figli, nei secoli, davanti al giudice umano come a quello divino, costituiva di fronte alla storia e alla civiltà mondiale una tale prescrizione di qualsiasi diritto sulla terra promessa da non avere certo bisogno di invocare venti secoli ormai trascorsi a suo favore per essere ratificato da qualsiasi tribunale politico” (79). Su tale base di natura teologica si innestavano poi precise ragioni di ordine politico, che confermavano l’avversione al movimento sionista della Santa Sede, il cui obiettivo prioritario era quello di mantenere in mani cristiane il controllo dell’intera Palestina e per la quale il mandato britannico appariva il male minore a fronte della costituzione di due Stati non cristiani in Terra Santa (80).
Il Vaticano e la
questione palestinese
La Santa Sede continuò a ribadire la sua ferma opposizione alla costituzione di una home ebraica in Terra Santa. In una lettera al delegato apostolico a Washington il Segretario di Stato, il 25 maggio 1943, sosteneva esplicitamente il disappunto della Chiesa nei confronti del Sionismo (81). Anche monsignor Tardini scriveva: “La Santa Sede si è sempre opposta alla dominazione ebraica sulla Palestina. Benedetto XV si è adoperato con successo per evitare che la Palestina divenisse uno Stato ebraico. In effetti dal punto di vista religioso (il più importante) la Palestina è una terra sacra, non solo per gli ebrei, ma molto di più per tutti i cristiani e specialmente per i cattolici. Darla agli ebrei significherebbe offendere tutti i cristiani e violare i loro diritti” (82). L’avversione alla costituzione di una home ebraica in Palestina non significava però che la Santa Sede fosse favorevole ad una dominazione araba sulla Terra Santa (83). Tutta la politica vaticana riguardo alla Palestina era ispirata dal timore che sia una dominazione araba sia una dominazione ebraica risultassero pregiudizievoli per gli interessi cattolici in Terra Santa (84).
Ma la risoluzione approvata dall’Assemblea delle Nazioni
Unite il 29 novembre 1947 introdusse un fatto nuovo nello scenario
mediorientale: la creazione di uno Stato ebraico indipendente, prevista per l’ottobre
del 1948. La prospettiva della costituzione di uno Stato ebraico in Palestina
ebbe un’eco profonda in tutto il mondo cristiano. La proclamazione dell’indipendenza
di Israele fu accolta in Vaticano con molto riserbo (85).
I rapporti tra Sionismo e nazionalsocialismo
Nel 1922 Vladimir Jabotinsky si ritirò dall’esecutivo dell’Organizzazione sionistica e fondò nel 1924 il Partito Revisionista. Il nuovo schieramento combatteva la politica dell’Esecutivo sionista troppo disponibile al compromesso con gli inglesi e con gli arabi (86).
A questo proposito Blondet è più esplicito e ricco di informazioni nel suo testo “I fanatici dell’Apocalisse” (87).
Conobbe poi un ex ufficiale zarista, mutilato, certo Joseph
Trumpeldor e con lui ideò l’organizzazione di una “legione ebrea” all’interno di non importa quale esercito alleato (88).
Proprio Trumpeldor ha dato il suo nome alla principale organizzazione di gioventù
sionista revisionista, il Bètar o B’rith Trumpeldor (Alleanza di Trumpeldor).
Bétar è anche il nome della fortezza dove Bar Kochba condusse la rivolta contro
le legioni di Roma nel secondo secolo.
Durante il dodicesimo Congresso sionista del settembre 1921
a Karlovy Vary, Jabotinsky, senza informare i dirigenti sionisti, firmò un
accordo con Maxime Slavinsky, rappresentante del leader del governo ucraino in
esilio, Simon Petlioura (accusato oggi di antisemitismo). Questo accordo con un
regime che favoriva i pogrom, fu giustificato da Jabotinsky con l’affermazione
che se l’Armata Rossa gli avesse fatto la stessa proposta, l’avrebbe egualmente
accettata (89). L’alleanza con l’Ucraina
costrinse Jabotinsky a dimettersi dall’Esecutivo sionista e dall’Organizzazione
sionista.
Nel 1923 pubblicò una serie di articoli in cui mirava ad intraprendere una
sorta di revisione del Sionismo, affermando che si trattava di un ritorno alle
tesi originarie di Herzl. Sostenne così posizioni di acceso nazionalismo, il
cui unico fine era di trasferire milioni di ebrei in Israele facendo della
Palestina uno Stato ebraico di fatto. Jabotinsky è convinto che lo Stato abbia
il primato sull’individuo, per cui non bisogna assolutamente rifarsi all’etica
biblica ma attingere le proprie forze alle teorie del nazionalismo integrale; (91 e 92). Jabotinsky è assolutamente contrario alla diaspora e per imperdire
l’assimilazione degli ebrei, sarà anche pronto ad accogliere favorevolmente le
idee antisemite, che avrebbero spinto gli ebrei a ritornare nella loro terra e
a riscoprire l’identità che stavano perdendo. “Per Jabotinsky ogni assimilazione ai goyim è non solo infausta ma impossibile; ‘La fonte del sentimento nazionale si trova
nel sangue dell’uomo nel suo tipo
fisico-razziale. E’ inconcepibile che
un ebreo possa adattarsi alla visione spirituale di un tedesco o di un francese’
” (93). Inoltre elimina l’idea di un
Dio trascendente e la sostituisce con quella di nazione, minando alla base le
fondamenta stesse del giudaismo ortodosso. A tutto ciò unisce un odio viscerale
per il socialcomunismo, mentre vede, di conseguenza, la forza principale del
Sionismo nel supercapitalismo.
a) Il Bétar (94)
Nel 1923 Jabotinsky fondò il braccio armato del revisionismo
sionista il Bétar B’rith Trumpeldor
(95). Dal 1934 al 1937 una scuola
navale del Bétar funzionerà in Italia, a Civitavecchia, con 153 cadetti
diplomati. Per Marius Schattner (96)
il Bétar è un’organizzazione rigida, con un rituale stretto e severo: ogni
betariano deve impegnarsi a consacrare i due primi anni del suo insediamento in
Palestina alla militanza a tempo pieno nel Bétar, il quale si fonda
sostanzialmente sul mito della forza, sulla potenza del cerimoniale, su una
struttura paramilitare.
Negli anni 1931-32 Jabotinsky visse a Parigi (97). Nel 1935 fondò a Vienna, durante un congresso, la Nuova Organizzazione Sionista (N.O.S.), che inaugurava una politica molto discussa con tutti i governi (anche antisemiti) purchè fossero intenzionati a regolare la questione ebraica in senso sionista, consentendo cioè l’emigrazione ebraica in Palestina. Ciò non impedirà per altro a Jabotinsky di pronunciarsi, negli anni della guerra, a favore della creazione di un esercito ebreo destinato a combattere la Germania hitleriana.
b) Menahem Begin
Fino alla vittoria di Begin nel 1977 a capo del Likud, formazione politica erede del Bétar di Jabotinsky, la maggior parte degli storici del Sionismo avevano relegato il Revisionismo nel ghetto spirituale dei fanatici o addirittura dei lunatici esaltati. Ma nel 1977 il “fascista” Begin sale al potere in Israele e, fin dal suo primo discorso, si rifà esplicitamente alle idee di Jabotinsky, anche se aveva fatto parte dell’ala più radicale del revisionismo, quella più vicina al fascismo e associata al B’ritj Ha Biryonim (il gruppo dei bruti), scavalcando a destra lo stesso Jabotinsky!
Dopo la seconda guerra mondiale Begin come leader del partito Hérout (Libertà) farà lavorare al quotidiano del partito il suo amico Abba Ahimert, ideologo estremista revisionista (98).
Quando Begin si recò per la prima volta negli USA, nel 1948,
alcuni intellettuali ebrei, tra cui Einstein, Hannah Arendt e Sydney Hook,
scrissero una lettera aperta al New York Times
(4 dicembre 1948) in cui affermavano che il partito di Begin era fascista.
Begin non rinnegherà in nulla le sua vecchie idee estremiste: dopo di lui
diverrà primo ministro di Israele il suo amico (e terrorista) Yitzhak Shamir (99).
c) Revisionismo e nazismo
Nella primavera del 1936 una coppia di ebrei, i Tuchler,
inviati dalla Federazione Sionista di Germania, ed una coppia di nazisti, i von
Mildenstein, inviati dal NSDAP e dalle SS, si ritrovarono alla stazione di
Berlino dove presero il treno per Trieste e s’imbarcarono sulla Martha
Washington per la Palestina. Lo scopo del viaggio era quello di fare un’indagine
il più possibile completa e documentata sulle possibilità di insediamento di
ebrei tedeschi in Palestina. “Malgrado le
dichiarazioni di principio e diverse misure specifiche (boicottaggio degli ebrei tedeschi a partire
dal 1 aprile 1933), tutti gli storici
sono d’accordo nell’ammettere che Hitler non aveva una politica
d’insieme precisa sulla questione
ebraica fino alla notte dei cristalli del 9-10 novembre 1938.
Ciò lasciò campo libero all’Ufficio
degli Affari ebraici delle SS, per
esplorare le diverse politiche attuabili. Il viaggio del barone von Mildenstein
fu una di esse. Ora Mildenstein era ufficiale superiore delle SS e s’era interessato da molto tempo alla
questione ebraica. Fervente sionista, entrò
nelle SS e fu reputato uno dei più qualificati specialisti del giudaismo. Fu
lui che vide per primo l’interesse
che si poteva trarre dalle organizzazioni sioniste, specialmente revisioniste. Scrisse una serie di dodici lunghi articoli,
molto documenteti, sul quotidiano
berlinese ‘Der Angrif’ di Goebbels, dal titolo ‘Un nazista
viaggia in Palestina’. Vi esprimeva
la sua ammirazione per il Sionismo e concludeva che ‘il focolare nazionale’ ebreo
in Palestina ‘indica un mezzo per
guarire una ferita vecchia di molti secoli: la questione ebraica’. Per
commemorare tale visita fu coniata una medaglia, su richiesta di Goebbels. Una faccia era ornata dalla svastica nazista
e l’altra dalla stella di David. Le
SS erano divenute la componente più filosionista del partito nazista” (100).
In seguito a questo viaggio il giornale delle SS “Das schwarze Korps” proclamò ufficialmente il suo appoggio al
Sionismo (101). Il 26 novembre lo
stesso quotidiano rinnovava il suo appoggio al Sionismo (102). Ancora, nel maggio 1935 Heyndrich in un articolo distingueva
gli ebrei in due categorie dimostrando una forte predilezione per i sionisti e
Alfred Rosemberg scriveva altrettanto (103).
Con l’avvento al potere di Hitler il Bétar fu la sola organizzazione a
continuare ad uscire in parata in uniforme nelle strade di Berlino. Il 13
aprile 1935 la polizia della Baviera (feudo di Himmler e di Heyndrich)
ammetteva eccezionalmente che gli aderenti al Bétar potessero indossare la loro
uniforme. Questi cercavano così di spingere gli ebrei di Germania a cessare di
identificarsi come tedeschi e a farli innamorare della loro nuova identità
nazionale israeliana (104). La
Gestapo fece tutto il possibile per favorire l’emigrazione verso la Palestina;
ancora nel settembre 1939 autorizzò una delegazione di sionisti tedeschi a
partecipare al 21° Congresso sionista di Ginevra.
Jabotinsky invece si era pronunciato per il boicottaggio della Germania, mentre
Kareski, membro del movimento revisionista, perseguiva una politica di
collaborazione con la Germania in vista di poter costituire lo Heretz Israel.
Nel 1942 restava ancora in attività nella Germania un Kibbutz a Nevendorf per
esercitare dei potenziali emigranti verso la Palestina (105).
d) Un patto segreto tra la banda Stern e il Terzo Reich
I dirigenti ebrei della gang Stern - incredibile ma vero - fecero ai nazisti una proposta di alleanza nel 1941 per lottare contro gli inglesi: la cosa che più colpisce è che uno di essi era Yitzhak Shamir, futuro primo ministro di Israele. “Lo scarso equipaggiamento militare dell’Italia, sia in Libia che in Grecia, convinse Stern che l’Italia non aveva i mezzi per condurre a termine la sua politica, mentre la Germania, nel 1940, riportava vittoria su vittoria. Tali successi impressionarono Stern, che si lanciò in un’avventura folle e senza uscita: formare un’alleanza con la Germania hitleriana. Stern lavora fino al febbraio 1941 (quando fu ucciso dagli inglesi) a concretizzare questo obiettivo, fondandosi su un’analisi insolita della situazione del giudaismo. Per lui l’Inghilterra è il vero nemico, mentre la Germania è solo un opressore che appartiene alla linea dei persecutori che il popolo ebreo ha incontrato durante la sua storia. Questo è l’errore più grande di Stern: vede nel Nazismo un movimento animato da un antisemitismo ragionevole” (106). All’inizio del 1941 Lubentchik, agente segreto della banda Stern, propone un patto militare tra l’Organizzazione militare sionista Irgun (una scissione della stessa banda) e la Germania, proposta nota col nome di “Testo di Ankara” (107), trasmesso a Berlino l’11 gennaio 1941 e ritrovato tempo fa negli archivi dell’ambasciata tedesca in Turchia. In esso si legge: “I principali uomini di Stato della Germania nazionalsocialista hanno spesso insistito sul fatto che un Ordine Nuovo in Europa richiede come condizione previa una soluzione radicale della questione ebraica, mediante l’emigrazione. L’evacuazione di masse ebree d’Europa è la prima tappa della soluzione della questione ebraica. Tuttavia, il solo mezzo per cogliere tale fine è l’installazione di queste masse nella patria del popolo ebraico, la Palestina, mediante lo stabilimento di uno Stato ebraico nelle sue frontiere storiche” (108). Lo Stato Maggiore tedesco tuttavia, decise di appoggiarsi, nella lotta alla Gran Bretagna, agli arabi che erano milioni, piuttosto che agli ebrei, che non erano che un pugno di uomini (109). La veridicità di questo documento è stata messa in dubbio, ma Israël Eldadsnab, uno dei capi storici del gruppo Stern, ha confermato la verità dei fatti (110) e il settimanale Hotam affermò che tale documento era stato consegnato personalmente da Shamir e Stern. Quando il 10 ottobre Shamir divenne primo ministro dello Stato di Israele dopo il dicastero Begin, l’Associazione Israeliana dei combattenti antifascisti e delle vittime del Nazismo manifestò la sua indignazione in un telegramma al presidente Herzog nel vedere il posto di primo ministro occupato da Shamir (111). Se la banda Stern fu l’unico gruppo sionista revisionista a negoziare col Terzo Reich in piena guerra, le organizzazioni sioniste moderate non avevano esitato a farlo prima della guerra, in gran segreto. “I circoli nazionalisti ebrei sono molto soddisfatti della politica della Germania, poiché la popolazione ebrea in Palestina sarà da tale linea politica talmente accresciuta che in un futuro prossimo gli ebrei potranno contare su una superiorità numerica di fronte agli arabi” (112).
I rapporti tra
Sionismo e Fascismo
a) La scuola navale del Bétar nell’Italia fascista
Già negli anni precedenti la prima guerra mondiale
Jabotinsky aveva sviluppato una teoria sui fondamenti razziali dele nazioni
(Razza e nazionalità), i cui postulati coincideranno con la Dottrina dello
Stato di Mussolini (113). “Sprovvisto di animosità nei confronti degli
ebrei, Benito Mussolini considerava
le organizzazioni sioniste revisioniste come movimenti fascisti. Fu così che
fece allenare, a partire dal novembre
1934, dietro domanda di Jabotinsky,
uno squadrone completo del Bétar a
Civitavecchia, presso la scuola
marittima, diretta dalle camicie
nere. Durante l’inaugurazione del
quartier generale degli squadroni italiani del Bétar, nel marzo 1936, un triplice
canto ordinato dal comandante dello squadrone risuonò; ‘Viva l’Italia, il Re, il Duce!’. Esso fu seguito dalla ‘benedizione’ che il rabbino Aldo Lattes invocò, in italiano e in ebraico, per Dio, il Re, il Duce; ‘Giovinezza’ (l’inno del partito fascista)
fu intonata dai betariani con molto entusiasmo. Mussolini ricevette inoltre la
promozione di betariano nel 1936” (114).
Mussolini fu anche il primo capo di Stato a proporre la divisione della
Palestina e la creazione di uno Stato ebraico (115). Jabotinsky tuttavia, al contrario dei suoi luogotenenti, non
si proclamò mai fascista o nazista, anche se prese le difese di Mussolini in
una serie di articoli scritti negli USA nel 1935 (116), mentre tale era considerato da molti capi israeliani, al
punto che Ben Gurion lo chiamava Vladimir Hitler. Nel 1935 Mussolini confidò a
David Prato, futuro gran rabbino di Roma il suo favore nei confronti del Sionismo
(117). I dirigenti sionisti non
revisionisti fin dal 1922 avevano preso contatti con Mussolini, che ricevette i
primi sionisti poco dopo la marcia su Roma, il 20 dicembre 1922, assicurando il
gran rabbino di Roma che non avrebbe tollerato alcuna manovra antisemita (118). Ahimeir, principale leader del
movimento revisionista palestinese negli anni trenta, riaffermò questo favore
del duce nei confronti del Sionismo nel marzo 1962 (119).
b) Mussolini e il Sionismo
De Felice approfondì questa problematica (120).
D’altronde “Dopo le sanzioni votate dalla Società delle Nazioni contro l’Italia, Mussolini tagliò i rapporti che fino ad allora aveva intrattenuto con i dirigenti sionisti e si avvicinò agli arabi, nel tentativo di scalzare le posizioni britanniche e francesi nel Medio Oriente” (121).
Per comprendere meglio l’attitudine di Mussolini verso il Sionismo giova leggere l’interessante “Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo” del De Felice, nella quale si vede come l’atteggiamento di Mussolini sia stato ondivago, a seconda se si trattava del Sionismo in Palestina o della partecipazione di cittadini italiani al movimento sionista (122).
“Verso il Sionismo italiano Mussolini nutriva tutti i pregiudizi e le diffidenze così diffusi tra nazionalisti e fascisti. La convinzione che i sionisti avessero due ‘patrie’ e neppure sullo stesso piano tra loro, per cui la prevalente sarebbe stata quella palestinese, urtava profondante il suo concetto monolitico ed esclusivistico della patria e gli rendeva automaticamente antipatici e sospetti i sionisti. Verso il Sionismo internazionale Mussolini nutriva invece, se non simpatia una certa benevolenza; egli vedeva nel Sionismo (specie nei suoi gruppi di destra più accesi e antiinglesi) un prezioso mezzo per inserire l’Italia negli avvenimenti mediterraneo-orientali e soprattutto un mezzo per creare difficoltà in quel settore all’Inghilterra. La carta ‘Sionismo’, così come da un certo momento in poi quella degli ‘arabi’, era per Mussolini soprattutto un elemento del suo gioco mediterraneo... Che i sionisti, da parte loro, non rifiutassero il ‘rapporto’ con l’Italia fascista è ovvio. Prima che Mussolini ‘cadesse sotto l’influsso di Hitler’, l’Italia era uno dei Paesi europei più liberali verso gli ebrei” (123).
Antisemitismo pagano e Sionismo
Hannah Arendt, filosofa ebrea tedesca (1906-1975) ha scritto
considerazioni di grande interesse sulla natura del Sionismo (124). E ancora (125) la Arendt critica la definizione stessa del Sionismo data da
Herzl e afferma che “la conclusione cui
giunsero questi sionisti fu che senza l’antisemitismo
il popolo ebraico non sarebbe sopravvissuto per cui si opposero a qualunque
tentativo di liquidare l’antisemitismo
su larga scala”. Al contrario, dichiararono che “i nostri nemici, gli antisemiti,
sarebbero stati i nostri amici più fidati
e i Paesi antisemiti i nostri alleati. L’antisemitismo era una forza irresistibile e gli ebrei avrebbero dovuto
utilizzarla o ne sarebbero stati
divorati.
(L’antisemitismo) era la forza
motrice responsabile di tutte le sofferenze degli ebrei, e avrebbe continuato a causare sofferenze finchè
gli ebrei non avessero imparato ad utilizzarla a loro vantaggio. In mani
esperte questa forza motrice si sarebbe dimostrata il fattore più salutare nella
vita ebraica . Tutto ciò che occorreva fare era usare la forza motrice dell’antisemitismo che come l’onda del futuro avrebbe portato gli ebrei
nella terra promessa” (126).
I rapporti tra Sionismo, USA e URSS
“Il periodo della guerra [1939-1945] trasformò la comunità ebraica di Palestina in un organismo più forte, cosciente, proteso verso l’affermazione concreta dei propri ideali Gli anni della guerra avevano reso l’opinione pubblica americana estremamente sensibile al dramma dell’ebraismo europeo ed avevano trasformato notevolmente la comunità ebraica che si era fatta più omogenea, influente ed aperta al Sionismo. In pochi anni l’interesse per questo movimento da sentimento prettamente filantropico si trasformò in una forma di partecipazione concreta” (127).
Paul Johnson ha affermato che (128) dopo la guerra il gioco decisivo era nelle mani delle grandi
superpotenze (USA e URSS). L’America presentava lo Stato d’Israele come
baluardo del mondo occidentale nel Medio Oriente. La politica miope dei
liberalconservatori vedeva come unico pericolo quello comunista (che era
certamente enorme e non andava sottovalutato), ma non riusciva a scorgere la
portata apocalittica e teologica della fondazione dello Stato di Israele, e
forse ignorava che: “Nell’immediato dopoguerra Stalin si presentò più
volte come il paladino dei popoli colpiti dalla dominazione nazista, mostrandosi propenso a considerare le
istanze degli ebrei che con sei milioni di vittime rivendicavano i propri
diritti. Il rappresentante sovietico alle Nazioni Unite, Andrey Gromiko, sostenne che non si potava negare al popolo
ebraico il diritto di avere uno Stato.
Approvò quindi il piano UNSCOP tra la sorpresa generale” (129). Secondo il Johnson
“se complotto vi fu per fondare Israele, fu l’Unione Sovietica ad esserne membro influente. Durante la guerra, per ragioni tattiche, Stalin aveva sospeso la sua politica
antisemita, creando perfino un
Comitato ebraico antifascista. Dal 1944,
per un breve momento, aveva adottato
un atteggiamento filosionista in politica estera nel maggio 1947, Andrey Gromiko sorprese tutti annunciando
che il suo governo era favorevole alla creazione di uno Stato ebraico” (130).
Chi invece comprese molto bene la portata della fondazione
dello Stato d’Israele furono proprio gli ebrei: “In quella circostanza [la risoluzione del 1948, ndr] gli ebrei di Roma, che tradizionalmente si erano
imposti di non passare più sotto l’Arco di Tito, testimone del loro asservimento, in una solenne cerimonia
ruppero questo simbolico divieto, attraversando
l’Arco di Tito in senso opposto a
quello del trionfo dell’imperatore romano” (131 e 132).
Tuttavia con il 1949 i rapporti tra URSS e Israele cominciano ad incrinarsi.
Andrew e Leslie Cockburn, in un recente e ben documentato
libro, gettano nuova luce sui rapporti tra USA, URSS e Sionismo: “Dopo molti decenni ed una guerra fredda, Andrei Gromyko, alzando una mano avrebbe dichiarato: ‘Con questa mano ho creato lo Stato di Israele’ L’eloquenza di Gromyko si
manifestò su ordine di Stalin, che,
rispetto alla fondazione dello Stato d’Israele, non si era certo fatto influenzare dai sentimenti. I russi avevano
ottime ragioni per sostenere sia la resistenza armata ebraica contro il dominio
britannico in Palestina, che la
creazione dello Stato sionista, dal momento che lo Stato arabo era allora
decisamente nella sfera di influenza dell’Occidente. Il sostegno diplomatico non fu l’unica forma d’incoraggiamento
che Stalin diede alla lotta d’Israele
per costruirsi e sopravvivere come Stato” (133). Lo Stato di Israele inoltre, ricevette aiuti bellici “dal regime comunista che prese il potere in
Cecoslovacchia nel febbraio del 1948,
un governo sotto l’occhio attento e vigile di Stalin. Nei mesi
che precedettero la dichiarazione di indipendenza di Israele (maggio 1948), i servizi segreti militari statunitensi scoprirono l’esistenza di un
regolare ponte aereo per il trasporto di armi tra Praga e il Medio Oriente
(134). Entro l’autunno del 1948 furono addestrati nelle varie basi
cecoslovacche non meno di cinquantamila militari israeliani e quando questi
partirono alla volta di Israele, il
loro reparto prese il nome di Klement Gottwald, il dirigente comunista ceco” (135).
Israele rese inoltre il favore alla Cecoslovacchia, fornendole preziose
informazioni sulle più moderne armi americane, veri gioielli di un settore di
tecnologia bellica altamente avanzata, nel quale i sovietici erano ancora assai
arretrati. “Nel 1948, in almeno due occasioni, gli israeliani consegnarono ai cecoslovacchi
esemplari di moderne armi americane
Quando e come gli israeliani avessero ottenuto questi prodotti della tecnologia
occidentale, poi consegnati ai
sovietici, non si è mai saputo, ma evidentemente per lo Stato ebraico si
trattava di un’operazione che valeva
la pena di compiere” (136).
Tuttavia il rapporto privilegiato con l’Est sovietico non doveva essere
esclusivo poiché non era da solo sufficiente a fornire al Sionismo, al cui
vertice vi era il presidente Trumann che inizialmente non si mostrò entusiasta
ad appoggiare la creazione di uno Stato ebraico in Palestina (137). Fu solo nel corso del suo secondo
mandato che Trumann riconobbe formalmente lo Stato ebraico: “Spingere il presidente americano nel campo
filo-israeliano era stata una mossa importante, ma ciò non comportò affatto per Israele la rottura dei suoi legami con
i Paesi dell’Est ed il suo passaggio
nel blocco occidentale [in quanto]
Israele voleva sia i capitali americani sia i due milioni di ebrei dell’Unione sovietica, ma non sembrava possibile ottenerli entrambi allo stesso tempo. E d’altra parte il denaro serviva subito. La
comunità ebraica americana aveva contribuito di tasca propria, e con ingenti somme, ad operazioni come l’acquisto di armi cecoslovacche” (138).
Se l’Unione Sovietica si accontentava della neutralità di Israele, nel corso
della guerra fredda gli Stati Uniti non erano per nulla soddisfatti di tale
posizione. Tuttavia gli israeliani “nel
timore di alienarsi del tutto i
sovietici, tentarono di mantenere
comunque un profilo basso e una certa neutralità; Israele si trovava in un vicolo cieco: da una parte non osava impegnarsi troppo
apertamente con gli americani per timore
di tagliare tutti i legami con l’Est
dall’altra, si trovava di fronte al problema di come continuare a
mungere la ‘mucca’ americana senza essere disposta né capace di dare qualcosa in cambio (139). In realtà c’era qualcosa che
Israele poteva dare alla ‘mucca’ americana, ma ciò doveva rimanere segreto” (140). Se era molto difficile per gli USA e la CIA contattare
direttamente gli abitanti dell’Est ed averne preziose informazioni, “non rimaneva altro che trovare un posto dove vi fosse molta gente che avesse vissuto
di recente in un territorio controllato dai sovietici. Tanto meglio poi se quel
Paese (Israele) aveva anche una consolidata esperienza di lavoro clandestino in quella parte
del mondo ed un’organizzazione di
servizi segreti altamente efficiente e ansiosa di collaborare con gli USA”
(141). Questa tesi trova conferma
anche nel libro di Ostrovsky, il quale asserisce che il Mossad dipende
totalmente dagli ebrei che vivono fuori da Israele, i cosiddetti Sayanim, e non
potrebbe funzionare senza di loro (142).
Il Sionismo e l’Antico Testamento
Ma qual è il piano di Dio? Gerusalemme è destinata dal Signore a ridiventare capitale di uno Stato ebraico? Il modo in cui si è realizzata la formazione dello Stato d’Israele corrisponde a ciò che deve essere il regno di Giuda secondo le profezie? Questa è la chiave della questione sionista: è una chimera o è una realtà? Lo studio teologico del piano di Dio darà una risposta.
La risposta si trova nelle profezie bibliche, che vanno però bene interpretate, in senso spirituale (e non temporale); infatti esse non predicono il ristabilimento del regno temporale d’Israele, ma preannunciano la fondazione della Chiesa romana, regno anzitutto e principalmente spirituale e celeste.
Già ai tempi della venuta di Cristo i dottori gli scribi e i farisei, interpretando alla lettera le profezie, si facevano un’idea del tutto terrestre e materiale del regno del Messia, ed è per questo che condannarono a morte Gesù, che predicava un regno principalmente spirituale (la Chiesa in terra e il Cielo nell’al di là) per tutti gli uomini. I sionisti di allora non furono contenti ed eliminarono il vero Messia. Ed è ancora con tale falsa interpretazione delle profezie messianiche che gli ebrei, sin dalla distruzione di Gerusalemme (70 dopo Cristo) e fino ai giorni nostri, continuarono a sperare nella ricostituzione del regno d’Israele.
La causa di tali false interpretazioni è, per la teologia cattolica, il disconoscimento del duplice oggetto di tali profezie: uno temporale, riguardante la restaurazione di Gerusalemme e dello Stato ebraico dopo la cattività babilonese (586 avanti Cristo) e non dopo la morte del Messia e la distruzione di Tito (70); l’altro spirituale e riguardante la fondazione della Chiesa, l’Israele spirituale che deve condurre gli uomini di tutti i popoli in Cielo (la Gerusalemme celeste).
L’insigne teologo ed esegeta monsignor Lémann scrive a
questo riguardo: “E’ dopo aver misconosciuto il duplice oggetto
delle profezie messianiche, l’uno temporale, relativo all’antica
Gerusalemme terrestre, e l’altro spirituale, relativo alla Gerusalemme delle anime, opera del Messia, che il
popolo ebraico s’è ingannato e s’inganna ancora. Purtroppo il popolo ebraico
si è attaccato e si attacca ancora alle immagini che rivestono la verità delle
profezie. Ed è una seconda e nuova riedificazione di Gerusalemme e del Regno di
Giuda che molti di loro persistono a volere. Chimera! Il duplice oggetto delle
profezie essendosi avverato, uno
venticinque secoli fa, grazie alla
riedificazione materiale di Gerusalemme dopo l’esilio babilonese, sotto
Esdra e Nehemia; l’altro, diciannove secoli fa, grazie
alla fondazione della Chiesa:
Gerusalemme spirituale. Cercare di ricostruire una Gerusalemme terrestre è lo
stesso che voler edificare l’ombra
della realtà. Ora da diciannove secoli e per sempre la realtà, che è la Chiesa, ha dissipato l’ombra. ‘Umbram fugat veritas!’ ” (143).
Già Sant’Alfonso Maria de’ Liguori aveva individuato questi errori: “Due furono gl’inganni de’ giudei circa il Redentore che aspettavano: il primo fu che quanto predissero i profeti de’ beni spirituali ed eterni, de’ quali dovea il Messia arricchire il suo popolo, essi vollero intenderlo de’ beni terreni e temporali: ‘Et erit fides in temporibus tuis, divitiae salutis, sapientia et scientia, timor Domini, ipse est thesaurus eius (Isaia XXXIII, 6). Ecco i beni promessi dal Redentore, la fede, la scienza delle virtù, il santo timore: queste furon le ricchezze della salute promesse. Inoltre Egli promise che avrebbe recata la medicina a’ penitenti, il perdono a’ peccatori e la libertà a’ cattivi del demonio: ‘Ad annuntiandum mansuetis misit me, ut mederer contritis corde et praedicarem captivis indulgentiam et clausis apertiorem’ (Isaia LXI, 1). L’altro inganno de’ Giudei fu che quello ch’era stato predetto da’ profeti della seconda venuta del Salvatore, quando Egli verrà a giudicare il mondo nella fine de’ secoli, vollero intenderlo della prima venuta. Scrisse bensì Davide del futuro Messia ch’egli dovea vincere i principi della terra ed abbattere la superbia di molti e, colla forza della spada, distruggere tutta la terra: ‘Dominus a dextris tuis: confregit in die irae suae reges. Iudicabit in nationibus conquassabit capita in terra multorum’ (PS. CIX, 5 et 6). Ed il profeta (Gioele II, 11) (leggi Geremia XII, 12) scrisse: ‘Gladius Domini devorabit ab extremo terrae usque ad extremum eius’. Ma ciò s’intende già della seconda venuta, quando verrà da giudice a condannare i malvagi; ma parlando della prima venuta, nella quale dovea venire a consumare l’opera della Redenzione, troppo chiaramente predissero i profeti che il Redentore dovea fare in questa terra una vita povera e disprezzata. Ecco quel che scrisse il profeta Zaccaria parlando della vita abbietta di Gesù Cristo: ‘Ecce rex tuus venit tibi iustus et salvator: ipse pauper et ascendens super asinam et super pullum filium asinae’ (Zacharia IX, 9)” (144).
Il Sionismo e il Nuovo Testamento
Gesù, per ben quattro volte, ha profetizzato riguardo al
futuro del Tempio di Gerusalemme; una prima volta ha annunciato il suo
abbandono da parte di Dio (Luca XII, 34,35): “Ecco che la vostra casa sarà abbandonata”
(l’aggettivo deserta riportato nella Vulgata non si trova nel testo greco).
Tale sentenza annuncia l’abbandono del Tempio da parte di Dio: Gesù non chiama
più il Tempio la mia casa o la casa del Padre mio, ma la vostra casa.
Una seconda volta Gesù predice la distruzione da cima a fondo del Tempio: “Non lasceranno (i tuoi nemici) di te pietra su pietra” (Luca XIX, 41-44).
Una terza volta Gesù predice che il Tempio sarà reso come deserto: “Ed ecco che la vostra casa vi sarà lasciata deserta” (Matteo XXIII, 37-38). Questo è un nuovo annuncio, più solenne, che Dio avrebbe abbandonato il Tempio dove abitava. Gesù ripete due volte tale abbandono del Tempio, poiché gli ebrei avevano la folle confidenza che il Tempio, essendo la casa di Dio, li avrebbe risparmiati da qualsiasi calamità. Gesù perciò vuole togliere loro una tale fiducia, ripetendo l’annuncio dell’abbandono ed anzi per far meglio capire la gravità di tale abbandono aggiunge qui la terribile parola deserta, a significare che il Tempio è destinato a cadere in rovina.
Gesù infine si è pronunciato una quarta volta, giurando addirittura che il Tempio sarebbe stato distrutto insieme con le sue stesse rovine: “In verità vi dico non resterà pietra su pietra che non sia distrutta” (Matteo XXIV, 2). Ebbene Dio abbandonò il Tempio quando Gesù fu messo a morte ed il velo del Tempio si strappò in due (Marco 15, 38; Luca, 23, 45). Il Tempio fu distrutto da Tito, che fece demolire dai soldati le mura del Tempio incendiato. Restavano le fonfdamenta, che, al tempo di Giuliano l’Apostata, furono divelte proprio dagli ebrei stessi i quali le avevano dissotterrate nella speranza di scavarne delle nuove e di ricostruire il Tempio, cosa che non fu possibile a causa di un fuoco sprigionatosi dalla terra e di numerosi terremoti, “che inghiottirono ciò che restava delle fondamenta del Tempio” (145). Ecco compiuta la quarta promessa, le rovine stesse del Tempio sono state distrutte: “Lapis super lapidem qui non destruatur” (Matteo XXIV, 2). Tale distruzione, secondo la Tradizione, non è soltanto totale, ma definitiva! San Giovanni Crisostomo asserisce: “Nessuno può distruggere ciò che Gesù Cristo ha edificato, così nessuno può riedificare ciò che ha distrutto. Egli ha fondato la Chiesa e nessuno potrà mai distruggerla; Egli ha distrutto il Tempio e nessuno potrà mai riedificarlo” (146).
Ciò che Gesù ha profetizzato
riguardo a Gerusalemme
Due cose ha profetizzato Gesù: la distruzione di Gerusalemme e la sua sorte dopo la distruzione, quando essa dovrà essere “calpestata dai pagani, sino a che i tempi delle nazioni siano compiuti” (Luca XXI, 24).
Dopo la distruzione, operata da Tito nel 70, Gerusalemme fu
effettivamente ancora occupata, saccheggiata, calpestata e dominata da diversi
popoli pagani. Venti volte conobbe l’invasione e il saccheggio! Cominciarono le
legioni di Adriano nel 130; nel 613 fu la volta dei persiani, ai quali seguì
nel 627 Eraclio e nel 636 il califfo Omar. Una quinta ed una sesta volta fu
occupata tra il 643 e l’868, quando la dinastia degli Omniadi cadde e fu
sostituita dagli Abassidi. Nell’arco di circa duecento anni subì nove invasioni:
nel 868 dal sovrano egiziano Ahmed, nel 905 dai califfi di Baghdad, nel 936 da
Maometto-Ikhschid, nel 968 dai Fatimiti, nel 984 dal turco Ortok, e in seguito
dal califfo d’Egitto, nel 1076 dal turco Meleschah, poi dagli Orokidi e ancora
nel 1076 dai Fatimiti.
La sedicesima volta furono i crociati che entrarono a Gerusalemme alle quindici
del venerdì 15 luglio del 1099, alla stessa ora della morte di Gesù Cristo. Nel
1188 fu Saladino che tolse ai cristiani i luoghi santi, nel 1242 il sovrano d’Egitto
Nedjmeddin, nel 1382 i Mammalucchi e infine nel 1516 i Turchi con Séhim I.
Sul versetto evangelico che segue la predizione della soggezione di Gerusalemme ai pagani “fino a che i tempi delle nazioni non siano compiuti” si danno due interpretazioni: per la prima, sostenuta da San Giovanni Crisostomo (II oratio contra Judeos) le parole di Cristo significano “fino a che non vi siano più nazioni”, cioè fino alla fine del mondo, e quindi esclude la possibilità che Gerusalemme possa diventare mai la capitale di uno Stato ebraico. Per la seconda, invece, Gerusalemme sarà calpestata fino a che la pienezza delle nazioni non sia entrata nella Chiesa con la conversione di Israele, in base alle parole di San Paolo (Romani XI, 25-26): “L’accecamento ha colpito in parte Israele, fino a che la pienezza dei gentili sia entrata, e così tutto Israele sia salvato”. Questa tesi esclude anche, con l’entrata progressiva delle nazioni nella Chiesa e la salvezza finale di Israele, la ricostruzione del regno d’Israele, come dimostrano anche l’abbé Lémann e monsignor Spadafora (147).
Gesù e il regno di Israele
Il giorno dell’Ascensione gli Apostoli, non ancora ripieni
di Spirito Santo, erano imbevuti di sogni di gloria e felicità temporale, come
tutti gli ebrei di quell’epoca che aspettavano un Regno terrestre del Messia
guerriero e conquistatore. E siccome Gesù aveva parlato loro in quel giorno del
Regno di Dio e della discesa dello Spirito Santo, ecco che le loro speranze di
regalità temporale si risvegliarono e chiesero a Gesù: “Maestro, è ora che
realizzerai il Regno di Israele?” (148).
Nella risposta di Gesù (“Non spetta a voi
conoscere i tempi e i momenti che il Padre ha riservato al suo potere. Ma voi
riceverete la virtù dello Spirito Santo che scenderà su di voi e sarete miei
testimoni a Gerusalemme, in tutta la
Giudea e la Samaria fino alle estremità della terra”) (149) vi è un insegnamento indiretto riguardo al ristabilimento del
regno di Israele, in quanto nell’eleggere i discepoli come suoi testimoni fino
alle estremità del mondo, Nostro Signor Gesù Cristo faceva loro capire che non
si trattava per Lui di rendere alla nazione ebrea l suo regno temporale, ma di
fondare, tramite il loro ministero apostolico, il Regno di Israele spirituale,
la Chiesa (Verus Israël) che da Gerusalemme avrebbe dovuto diffondersi in tutto
il mondo.
Questo è il Regno di Israele che Gesù Cristo è venuto a fondare, Regno delle anime, Regno dei Cieli: la Chiesa qui in via, e il Paradiso in Patria! Nessun accenno ad uno Stato di Israele che riapparirà a Gerusalemme.
Alla obiezione spontanea che attualmente Gerusalemme è nuovamente la capitale di uno Stato ebraico, che la Palestina è il Regno d’Israele occorre dare una risposta ampia e articolata.
Il fatto che Dio abbia permesso il ritorno di una gran massa di ebrei in Terra Santa non solo non contraddice le profezie di Gesù Cristo ma le compie, in quanto le Scritture ci parlano, anche della conversione di Israele al Cristianesimo. E monsignor Lémann stesso vedeva in tale movimento verso la Palestina una preparazione al raggruppamento imponente di ebrei che sarà necessario perché la loro conversione in massa appaia evidente al mondo intero.
E il ritorno in massa del popolo ebraico nella Terra Santa
implica veramente la realizzazione stretta e formale del Sionismo? Prima della
sua conversione al Cristianesimo il popolo ebraico ritroverà il possesso completo
e indipendente del Paese dei suoi avi? La storia fino ad ora ha risposto.
Il possesso non è pieno, completo ed esclusivo Inoltre lo Stato di Israele per
essere vero e legittimo Regno d’Israele dovrebbe essere teocratico ed avere
perciò il terzo Tempio. Ora, come affermano tutti gli ebrei ortodossi, il
Sionismo attuale non è riuscito a far rivivere tale stato di cose, anzi non ha
voluto neppure provarci per principio; pertanto lo Stato di Israele è soltanto materialmente,
ma non formalmente, il Regno sognato dai talmudisti. Inoltre gli ebrei non
hanno ancora il pieno possesso della Terra Santa, che devono spartire, in stato
di guerra continua, con lo Stato palestinese (150).
Secondo monsignor Lémann, anche dopo la conversione al cristianesimo, gli ebrei non potranno ristabilire il Regno d’Israele, non saranno cioè rimessi da Dio nel Paese dei loro avi in cui godranno la pace più profonda, perché il ritorno di Israele nella terra promessa deve essere interpretato in senso spirituale e metastorico, cioè come la conversione e il rientro d’Israele nella Chiesa di Cristo, il Verus Israël.
Altri esegeti affermano invece che Israele sarà ristabilito in Palestina e che vi formerà uno Stato (cristiano, dal momento che si parla di Israele convertito) (151).
La conversione futura degli ebrei è ammessa comunemente dai teologi cattolici, tra i quali alcuni affermano che gli ebrei, ritornati a Cristo e incorporati alla Chiesa, saranno ricondotti provvidenzialmente in Palestina dove restaureranno Gerusalemme ed anche il Tempio, ma in onore di Gesù Cristo. San Beda afferma, ad esempio: “Quando Israele si convertirà non è temerario sperare che ritornerà sul suolo dei suoi padri, che riprenderà il possesso di Gerusalemme per abitarvi” (152). Questa opinione tuttavia, anche se riprende quelle profezie che annunciano il ristabilimento del Regno d’Israele ed è seguita da alcuni esegeti, sembra rinnovare nel fondo l’errore del giudaismo talmudico, che si ferma al significato letterale delle profezie senza coglierne quello spirituale. Anche l’opinione che gli ebrei convertiti ricostruiranno il Tempio in onore di Gesù Cristo è respinta da monsignor Lémann in quanto contraria a tutta l’economia del Nuovo Testamento: infatti il Tempio aveva, oltre la destinazione immediata al culto divino dell’Antica Alleanza, - ormai revocata - un significato simbolico (153), era figura del Tempio futuro fondato da Dio stesso, la Chiesa romana. Il Santo rappresentava la Chiesa militante e il Santo dei Santi quella trionfante. Ora che la realtà ha sostituito la figura non vi è più motivo di ricostruire un Tempio che era eminentemente figurativo.
La sorte di Gerusalemme
fino alla fine del mondo
Su questo argomento esistono due tesi; la prima afferma che quando i tempi delle nazioni saranno compiuti Gerusalemme non conoscerà la convivenza con l’Islàm e diverrà una capitale cristiana, mentre l’altra, più sicura, asserisce che Gerusalemme sarà calpestata fino alla fine del mondo a causa del deicidio.
Anche le parole di Gesù “Gerusalemme
sarà calpestata dai pagani, fino a
che i tempi delle nazioni siano
compiuti” (154), vengono
spiegate in modo diverso: per alcuni significano che Gerusalemme cesserà di
essere calpestata quando il Vangelo sarà predicato ovunque nel mondo intero e
Israele si convertirà divenendo uno Stato cristiano; la maggior parte degli
esegeti, però, sostiene che Gerusalemme sarà calpestata fino alla fine del
mondo, secondo la tesi di San Giovanni Crisostomo: “Mai Gerusalemme gioirà di un pieno e tranquillo splendore. Essa
presenterà sempre i segni della desolazione
decretata. Se arrivasse l’Anticristo, nell’avvenire, e riuscisse a darle
uno splendore anticristiano, esso
sarà soltanto fittizio e passeggero. Credere il contrario significa illudersi.
Se ‘l’uomo del peccato, il figlio
della perdizione’ (II Tess. 2,3), per
cercare di far mentire le profezie,
tenterà di rendere a Gerusalemme il suo splendore passato, immediatamente essa cadrà sotto il colpo di
una maledizione simile a quella che pronunciò Giosuè contro chiunque tentasse
di ricostruire le mura di Gerico: ‘maledetto
sia davanti al Signore’ Lo stesso
avverrà per il tentativo dell’Anticristo.
Per far sparire lo splendore che Gerusalemme non deve più conoscere [e qui
si vede la gravità del piano di Giovanni Paolo II in ‘Tertio Millennio Adveniente’]
(155) un miracolo di vendetta divina colpirà l’Anticristo e bloccherà il suo braccio” (156).
Roma contro
Gerusalemme
“Vi sono due città quaggiù riguardo alle quali le macchinazioni degli uomini resteranno impotenti: Roma e Gerusalemme; Roma sede del Vicario di Cristo, non cesserà mai di esserlo. Leone XIII lo ha proclamato una volta di più nella sua Enciclica relativa al Giubileo del 1900: ‘Il segno divino, che è stato impresso a questa città, non può essere alterato né dalle macchinazioni umane né da alcuna violenza. Gesù Cristo Salvatore del mondo, ha scelto, sola tra tutte, la città di Roma per una missione più alta ed elevata che le cose umane, e se l’è consacrata. Ha deciso che il trono del suo Vicario vi restasse in perpetuo’. Ma se Roma deve restare fino alla fine del mondo la sede indistruttibile del regno di Cristo e del Papato, Gerusalemme, al contrario, non ridiverrà mai la capitale né il seggio di un nuovo regno d’Israele. Un marchio divino è stato ugualmente impresso su di essa, quello del castigo. Né le combinazioni umane, né alcuna violenza non saprebbe farlo scomparire” (157).
Il Sionismo e l’Anticristo
E’ sentenza comune dei Padri della Chiesa (158) che gli ebrei devono ricevere e
acclamare l’Anticristo come loro Messia e che Gerusalemme non ridiverrà la
capitale di uno Stato ebraico (perfettamente e completamente) neanche sotto il
Regno dell’Anticristo e grazie al suo aiuto.
Per ben capire la portata di tale asserzione occorre prima risolvere la
questione di quale sarà la sede dell’Anticristo, per la quale esistono due
opinioni.
Secondo la prima l’Anticristo avrà come sede del suo regno Gerusalemme; molti sono i sostenitori di questa tesi e tra questi Sant’ Ireneo (159), Lattanzio (160), Sulpizio Severo (161), San Roberto Bellarmino (162), Cornelio a Lapide (163), Francisco Suarez (164). Essa si fonda sull’Apocalisse in cui San Giovanni afferma che Enoch ed Elia, avversari dell’Anticristo, saranno uccisi (165), cioè a Gerusalemme dove quindi l’Anticristo, avrà prima posto la sede del suo regno.
La seconda opinione afferma invece che la capitale del regno dell’Anticristo sarà Roma, perché, per i sostenitori di questa tesi, il testo dell’Apocalisse non si riferisce necessariamente a Gerusalemme come sede dell’Anticristo, il quale potrebbe ordinare la soppressione dei due testimoni in quella città, avendo però altrove la sua sede; anzi per opporsi meglio a Cristo (166). Coloro che preparano il suo regno (gli anticlericali di ogni sorta), sembrano averlo compreso molto bene; infatti “è contro Roma che si sono coalizzati, da svariati anni gli sforzi dei massoni e degli ebrei, questi formidabili preparatori della potenza dell’Anticristo. Una volta stabilitosi a Roma, ‘terra di gloria’ nulla sarà più facile all’Anticristo che rendersi a Gerusalemme. E’ là, in effetti che l’attende, secondo la profezia di Daniele, la vendetta di Dio” (167).
Ma anche nel caso in cui l’Anticristo si stabilisse a Gerusalemme, non per questo si realizzerà il sogno del Sionismo, perché questi non avrà come fine quello di ristabilire il Regno di Israele e di realizzare così le profezie, ma solo di farsi adorare come Dio, per cui, aperti gli occhi, si convertirà a Gesù Cristo guardando Colui che hanno trafitto (168).
Per quanto riguarda il Tempio, poi, ci si può chiedere se l’Anticristo
arriverà a ricostruirlo in odio alle profezie di Gesù Cristo e per cercare di
smentirle o screditarle; alcuni Padri ed esegeti, tra cui Sant’ Ireneo, San
Cirillo di Gerusalemme, Suarez, lo affermano, interpretando alla lettera le
parole di San Paolo (169). Molti
altri Padri invece intendono metaforicamente la parola Tempio, che non è quello
di Gerusalemme. Per San Girolamo siederà nel Tempio di Dio: vale a dire o in
Gerusalemme, o nella Chiesa e ciò mi sembra più vero (“vel in Ecclesia, ut verius
arbitramur”) (170). Della stessa
opinione sono anche San Giovanni Crisostomo (171) e Teodoreto che spiega anche il modo in cui avverrà (172).
Ma pur ammesso che l’Anticristo cerchi di ricostruire il
terzo Tempio, non per questo si avvereranno le speranze del Sionismo, perché lo
scopo non sarà la gloria di Jahwé, ma il suo culto personale in sostituzione di
quello di Dio. Inoltre “tale tentativo
sarà talmente imperfetto che il Tempio non sarà ricostruito nel senso stretto o
‘proprie loquendo’. Il Tempio non potrà essere ricostruito formaliter, poiché l’impresa avrà per oggetto non il culto del vero Dio, ma quello dell’Anticristo. Poiché benché all’inizio
l’Anticristo, per ingannare gli ebrei,
simulerà di voler ricostruire il Tempio per il culto di Dio, in realtà e nel segreto del suo cuore, agirà solo per la sua gloria e per farsi
adorare” (173).
Conclusione: l’attuale
Stato di Israele è il regno messianico?
Il Sionismo attualmente realizzatosi è l’avverarsi di un bel sogno o è una chimera?
Dopo aver visto la risposta dell’ebreo convertito Augustin Lémann nel 1901
esaminiamo quanto affermano oggi storici e politologi di diversa estrazione di
pensiero. Secondo Paul Johnson la nuova Sion era stata concepita come risposta
all’antisemitismo del XIX secolo e pertanto non aveva alcun fondamento né fine
religioso, ma era solo “uno strumento
politico e militare per la sopravvivenza del popolo ebraico. L’essenza del giudaismo era che l’esilio sarebbe finito per un evento
metafisico, in un momento stabilito
da Dio, non per una soluzione
politica escogitata dall’uomo. Lo
Stato sionista era semplicemente un nuovo Saul, suggerire che fosse una forma moderna del Messia era non soltanto
sbagliato, ma blasfemo. Poteva
soltanto generare un altro falso messia” (174). Gershom Scholem, grande studioso di mistica ebraica,
ammoniva: “Il Sionismo non aveva posta -
secondo il Johnson - per Dio come tale ecco perché fin dal principio la maggior
parte degli ebrei osservanti considerarono il Sionismo con sospetto o con
decisa ostilità e alcuni ritennero che fosse opera di Satana. La creazione
dello Stato sionista non era un reingresso ebraico nella storia, un Terzo Stato, ma l’inizio di un esilio
nuovo e molto più pericoloso Il Sionismo era ‘ribellione’ contro il Re dei
re e lo Stato ebraico sarebbe finito in una catastrofe peggiore dell’olocausto” (175 e 176).
Le stragi di qualche anno fa avevano fatto scrivere a Fiamma Nirestein: “Smarrimento. Israele, che ha per pietra angolare il concetto della sicurezza dello Stato ebraico, che è nato deciso a riscattare per sempre la storia giudaica dal sentimento di inevitabile e continuo pericolo, si trova forse per la prima volta dal 1948, anno della sua fondazione, a non sapere che fare, a percepire, a causa degli attacchi omicidi-suicidi che si susseguono implacabilmente, un senso di vuoto, di perdita, di smarrimento appunto” (177).
Lo stesso disagio evidenziava, sempre su La Stampa, Avraham Ben Yehoshua: “Negli ultimi tempi la stampa israeliana dedica molto spazio all’eventualità di una guerra civile. Il trauma di una guerra fratricida si accompagna al ricordo della perdita della sovranità. Nell’anno 70 Gerusalemme fu conquistata ma alla disfatta militare; a ciò contribuì una guerra fratricida combattuta tra coloro che si erano scelti per nome ‘zeloti’ e i cosiddetti ‘sadducei’. Questa guerra interna indebolì lo Stato ebraico e preparò il terreno alla sconfitta militare definitiva, ed è per questo che ogni sintomo di possibile lotta di questo genere risveglia un ricordo doppiamente traumatico. In fondo i motivi di divisione erano gli stessi che si riscontrano oggi nella società israeliana. Si tratta della lotta tra due diversi codici, il codice religioso e quello nazionale. Si è tornati (oggi) in un certo senso all’antico conflitto tra i due codici e non ci si deve stupire perciò se tra i più violenti oppositori al governo attuale ci sono numerose persone che esibiscono la propria religiosità. Sono loro gli esponenti di punta di un’opposizione che rischia di diventare violenta. Perché il codice religioso, che si esprime nella sacralizzazione della terra di Israele, ha la meglio su quello nazionale. Come per gli ‘zeloti’ non era assurdo ribellarsi contro l’Impero romano, così per i religiosi contemporanei non c’è niente di male nel continuare l’assurda dominazione su un popolo che rappresenta una buona percentuale della sua stessa popolazione senza concedere i diritti civili. C’è quindi la possibilità che questi fattori [USA e Europa, ndr] contribuiscano ad impedire che i sostenitori del codice religioso scatenino una guerra civile dagli esiti difficilmente pronosticabili” (178).
Dopo la morte di Rabin, la grande paura degli israeliani ebbe
un nome blasfemo: guerra civile.
(179).
Sembra quasi di cogliere il dubbio o il timore che il Sionismo, lungi dal rappresentare un magnifico successo, possa trasformarsi in un terribile scacco.
Al termine dell’analisi del Sionismo si ritorna al punto iniziale: tutto ciò che riguarda il problema ebraico è problema esclusivamente religioso: lo affermava già San Gregorio Magno (180). Il motivo risiede nel fatto che Israele ha rigettato la vera pietra d’angolo Nostro Signor Gesù Cristo (che avrebbe dovuto riunire gli ebrei ai pagani nell’unica chiesa di Dio, come la pietra d’angolo fa da base a due muri della casa) e ve ne ha sostituita un’altra, il concetto della sicurezza dello Stato ebraico; ma mai l’uomo sarà sicuro se non fonda ogni sua speranza in Dio e nel suo Unigenito Gesù Cristo (181). Allora la sostituzione di un Messia personale con un’idea astratta è alla base dello scacco del Sionismo, è la ragione profonda della situazione di smarrimento nonostante l’opulenza e la potenza attuale dello Stato d’Israele, perché il cuore dell’uomo non troverà pace finché non riposerà in Colui che l’ha redento e che nel Vangelo aveva predetto: “La pietra (Cristo) che riprovarono gli edificanti (i giudei) è diventata pietra angolare (che unisce in una sola Chiesa i due popoli, il pagano e l’israelita). Chiunque cadrà su questa si sfracellerà ed essa stritolerà colui sul quale cade (cioè colui che per disprezzo l’avrà voluta rimuovere)” (182).
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Don Curzio Nitoglia
1) “Negli ultimi venticinque anni del XIX secolo, un nuovo tipo di movimento prese forma nell’Europa orientale con l’obiettivo di
promuovere il ritorno degli ebrei nella terra d’Israele. Molte autorità ortodosse si opposero a quanto secondo loro era
un’arrogante appropriazione del ruolo
del Messia. Nel 1890 un giornalista viennese, Theodor Herzl, fu inviato a
Parigi per riferire dell’affare Dreyfus. Herzl, un ebreo non religioso, fu indignato dall’antisemitismo di molti oppositori
di Dreyfus. Divenne profondamente convinto che non poteva esservi libertà e
uguaglianza per gli ebrei se non nella loro terra. Così Herzl fondò il Movimento sionista, un’organizzazione dedicata a
promuovere la causa di uno Stato ebraico in terra d’Israele allora dominato dalla Turchia. Durante la prima guerra mondiale
(1917) la Gran Bretagna emanò un documento in cui appoggiava il concetto di
Palestina come sede di un focolare nazionale ebraico. Così dopo aver
conquistato quella terra ai turchi,
la Gran Bretagna ricevette un mandato sui territori della Società delle Nazioni.
Nel 1947 la Gran Bretagna informò le Nazioni Unite di voler abbandonare il suo
mandato sulla Palestina. l’ONU votò
la spartizione della Palestina in due Stati separati: uno ebraico e l’altro arabo
e mise Gerusalemme sotto una giurisdizione internazionale.
I Paesi arabi si rifiutarono di accettare questa soluzione e cinque di essi
mandarono i loro eserciti in Palestina appena se ne andarono via gli inglesi.
La dirigenza ebraica proclamò la nascita dello Stato d’Israele al termine della sovranità britannica, il 14 maggio 1948. Le forze militari israeliane riuscirono a
sconfiggere sul campo gli eserciti arabi, e Israele si appropriò di un territorio più vasto di quello previsto
dal piano di spartizione dell’ONU. Lo
Stato ebraico riuscì ad occupare anche una parte di Gerusalemme a eccezione della
Città Vecchia. (Essa) ed alcuni territori abitati dalla
maggioranza di arabi rimasero occupati dalle forze militari giordane e furono
chiamati la Riva occidentale (West
bank). Nel 1967 Israele lanciò una
azione preventiva contro l’Egitto.
Le forze militari israeliane riuscirono ad occupare la penisola del Sinai, la Riva occidentale e la città vecchia di
Gerusalemme, il conflitto durò sei
giorni. Nel 1973 l’Egitto attaccò le
forze militari israeliane nel Sinai:
in quell’occasione l’esito non fu conclusivo come per il passato; l’Egitto
era riuscito a respingere un’avanzata
israeliana sui suoi territori”. Confronta R. A. Rosemberg, “L’Ebraismo, storia, pratica, fede”, Mondadori, Milano, 1995, pagine
170-174.
2) A. Lémann, “L’avenir de Jerusalem”, Paris, 1901, pagina
3.
3) “Che cos’è il Sionismo”, a cura del Centro d’informazione di Israele, Gerusalemme. 1990.
4) A. Lémann, opera citata, pagina 11.
5) A. Lémann, opera citata, pagina 353.
6) Sodalitium, numero 39, pagine 58-61; numero 40, pagine 54-56.
7) A. Lémann, opera citata, pagina 26.
8) Confronta M. Blondet, “I fanatici dell’Apocalisse”, Il Cerchio, Rimini, 1992.
9) A. Lémann, opera citata , pagina 26.
10) Ibidem, pagina 41.
11) Ibidem, pagina 43. Si veda anche, a questo proposito, L. Poliakov, “I banchieri ebrei e la Santa Sede”, Newton Compton, Roma, 1974.
12) “Archives isräelites”, anno 1862, pagina 309.
13) A. Lemann, opera citata, pagina 65.
14) P. Sella, “Prima d’Israele”, L’uomo libero, Milano, 1990, pagine 19-21.
15) P. Sella, opera citata, pagina 25.
16) P. Sella, opera citata, pagina 26.
17) P. Sella, opera citata, pagina 36.
18) P. Sella, opera citata, pagina 162.
19) P. Sella, opera citata, pagina 169.
20) P. Sella, opera citata, pagina 224.
21) P. Sella, opera citata, pagina 234.
22) P. Sella, opera citata, pagina 240.
23) Non può non
sorprendere a questo proposito, l’intervista che l’onorevole Fini concesse al
Jerusalem Post, poi riportata dal Secolo d’Italia col titolo “Abbiamo un amico a Roma”, a cura di
Dennis Eisemberg e Uri Dan, ex agente del Mossad e autore di “Mossad, 50 ans de guerre secrète”,
Presse de la cité, Paris, 1995.
24) P. Guzzanti, “Tel Aviv, anima ribelle d’Israele”, in La Stampa, 15 luglio 1995, pagina 9.
25) A. Lemann, opera citata, pagina 70.
26) A. Lemann, opera citata, pagina 71. Si veda anche “Le Réveil d’Israël”, luglio 1898.
27) A. Lemann, opera citata, pagina 71.
28) “Archives israëlites”, 23 settembre 1897.
29) A. Lemann, opera citata, pagina 77.
30) “Archives israëlites”, 20 settembre 1897.
31) M. Dreyfuss, gran rabbino di Parigi, in “Archives israëlites”, 23 settembre 1897.
32) “Archives israëlites”, 15 settembre 1898.
33) Confronta “Le Réveil d’Israël”, ottobre 1899.
34) A. Lemann, opera citata, pagina 122.
35) “La croix”, 10 marzo 1895.
36) E. Ratier, “Mystères et secrets
du B’naï B’rith”, Facta, Paris, 1993.
37) A. Lemann, opera citata, pagina 180.
38) “B’naï B’rith, The first Lodge of England, 1910- 35”,
Paul Goodman, stampato dalla Loggia, Londra, 1936.
39) M. Honigbaum, “B’naï B’rith journal”, giugno 1988.
40) “B’naï B’rith Magazine”,
supplement, febbraio 1925.
41) E. Ratier, opera citata, pagina 183.
42) E. Ratier, opera citata, pagina 188.
43) E. Ratier, opera citata, pagina 190.
44) Samuel Happerin, “The Polittical
World of American Zionism”, Informations Dynamics Inc.,
1985.
45) E. Ratier, opera citata, pagina 202.
46) F. Tagliacozzo-B. Migliau, “Gli ebrei nella storia e nella società contemporanea”, La Nuova Italia, Firenze, 1993, pagina 114.
47) Teodoro Herzl, “Lo Stato Ebraico”, Roma, 1955, pagina 77.
48) F. Tagliacozzo- B. Migliau, opera citata, pagina 115.
49) Tom Segev, “Le septiem million”,
Liana Levi, Jerusalem, 1991 (1993).
50) Barbara Spinelli, in La Stampa, 27 aprile 1995, pagine 1-6.
51) F. Tagliacozzo-B. Migliau, opera citata, pagina 120.
52) A. Lemann, opera citata, pagina 136.
53) S. Ferrari, “Vaticano e Israele”, Sansoni, Firenze,
1991, pagina 9. Confronta H.
F. Köck, “Der Vatikan und Palëstina”, Wien-München, Herold, 1973, pagina 40.
54) Pasquale Baldi, “La Questione dei Luoghi Santi in generale”, Bona, Torino, 1919, pagine 85-87; A. Baudrillart, “Jérusalem délivrée”, Beauchesne, Paris, 1918; E. Julien, “La délivrance de Jérusalem”, Imprimerimeries reunies, Boulogne-sur-Mer 1917.
55) S. Sayegh, “Le Statu quo des Lieux Saints”, Pontificia Università Lateranense, Roma, 1971.
56) S. Ferrari, opera citata, pagina 11.
57) S. Ferrari, opera citata, pagina 12; S. I. Minerbi, “Il Vaticano, la Terra Santa e il Sionismo”, Bompiani, Milano, 1988, pagina 39.
58) G. Verrucci, “La Chiesa nella società contemporanea”, Laterza, Bari, 1988, pagina 10-11.
59) S. Ferrari, opera citata, pagina 13; G. Alberigo-A. Riccardi, “Chiesa e Papato nel mondo contemporaneo”, Laterza, Bari, 1990.
60) S. Ferrari, opera citata, pagine 13-14.
61) S. I.
Minerbi, “Il Vaticano, la Terra Santa e il Sionismo”,
Bompiani, Milano, 1988, pagina 189.
Dello stesso autore vedasi anche “Il
Vaticano e la Palestina durante la prima guerra mondiale”, in Clio, 1967,
pagine 433-435, e E. Farhat, “Gerusalemme
nei documenti pontifici”, Città del Vaticano, 1987, Libreria editrice
Vaticana.
62) Allocuzione “Causa nobis”, 13 giugno 1921, AAS, XII, 1921, pagine 281-285.
63) Ibidem.
64) Su questo argomento vedasi G. Castelli Cavazzana, “L’opera per la preservazione della fede in Palestina”, Cavalieri del Santo Sepolcro, Milano, 1933; C. Crivelli, “Protestanti e cristiani orientali”, La Civiltà Cattolica, Roma, 1944, pagine 397-429; Osservatore Romano, 20 novembre 1924.
65) Confronta Osservatore Romano, 30 giugno 1922.
66) S. Ferrari, opera citata, pagina 16.
67) L’Osservatore Romano, 14 novembre 1924, “Dalla Palestina. Le avanguardie dei missionari”.
68) Confronta L’Osservatore
Romano, 15 novembre 1924, “Come divenni
cattolico. Hans Herzl, figlio del
fondatore del Sionismo, racconta la
sua conversione dal giudaismo”; confronta anche
La Civiltà Cattolica, 1937, III, pagina 37, “La questione giudaica e l’apostolato
cattolico”.
69) La Civiltà Cattolica, 1938, VI, pagina 78, “Intorno alla questione del Sionismo”.
70) La Civiltà Cattolica, 1922, III, pagina 117, “Il Sionismo dinanzi all’opinione dei non ebrei”.
71) La Civiltà Cattolica, 1937, II, pagina 431, “La questione giudaica e il Sionismo”.
72) La Civiltà Cattolica, 1934, IV, pagina 136, “La questione giudaica e l’antisemitismo nazista”.
73) La Civiltà Cattolica, 1938, II, pagina 81, “Intorno alla questione del Sionismo”; La Civiltà Cattolica, 1924, IV, pagina 487, “Un episodio del Sionismo in Palestina”; E. Caviglia, “Il Sionismo e la Palestina negli articoli dell’Osservatore Romano e della Civiltà Cattolica”, Clio, 1981, pagine 79-90; R. De Felice, “Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo”, Einaudi, Milano, 1961, pagine 60-61.
74) “Acta Diurna Sancta Sedis”, IX, pagina 184, 13 marzo 1943.
75) S. Ferrari, opera citata, pagina 20.
76) La Civiltà Cattolica, 1938, II, pagina 76, “Intorno alla questione del Sionismo”.
77) M.J. Dubois, “The Catholic Viecu”,
in Encyclopedia Judaica Yearbook, 1974, Jerusalem, pagina 168.
78) S. Ferrari, opera citata, pagina 21.
79) L’Osservatore Romano, 20 settembre 1921.
80) S. Ferrari, opera citata, pagina 22.
81) Lettera del cardinal Maglione al cardinal Cicognani, 18 maggio 1944, in “Acta Diurna Sanctae Sedis”, IX, pagina 302.
82) “Acta Diurna Sanctae Sedis”, XI, pagina 509.
83) S. Ferrari, opera citata, pagina 42.
84) Si possono
consultare al riguardo G. Vanzini, “Il
Sionismo e la divinità di Gesù Cristo”,
Artigianelli, Pavia, 1933; A. Grassi, “Contributo
alla soluzione della questione dei Luoghi Santi”, Tipografia dei Padri
francescani, Gerusalemme, 1935; La Civiltà Cattolica “La rivoluzione mondiale e gli
ebrei”, 1922, IV, pagina 111 e seguenti; “Il pericolo giudaico e gli Amici d’Israele”,
1928, II, pagina 342 e seguenti; “La
questione giudaica”, 1936, IV, pagine 37-88; “La questione giudaica e il
Sionismo”, 1937, II, pagine 418-99; G. De Vries, “Cattolicesimo e problemi religiosi nel prossimo Oriente”, Roma, 1944, La Civiltà Cattlica.
85) L’Osservatore
Romano, 28 maggio 1948; J. Parkers, “Il
problema ebraico nel mondo moderno”, Nuova Italia, Firenze, 1953 e G.
LoGiudice, “L’essenza dell’Ebraismo
liberale”,
La Civiltà Cattolica, 1952, III, pagine 411-15.
86) F. Tagliacozzo, opera citata, pagina 192.
87) M. Blondet, “I fanatici dell’Apocalisse”, Il Cerchio, Rimini, 1992, pagina 26.
88) E. Ratier, “Les guerriers d’Israël”, Facta, Paris, 1995, pagina 29.
89) J. Schechtman, “The
Jabotinsky-Slavinsky agreement”, Jewis Social Studies, ottobre 1955.
90) P. Giniewski, in Cactus, maggio 1991.
91) E. Ratier, opera citata, pagina 39.
92) E. Ratier, opera citata, pagina 41.
93) E. Ratier, opera citata, pagine 41-42.
94) Il Bétar,
presentato ufficialmente a Parigi (dove il 25 aprile 1925 era stata fondata
anche l’Alleanza dei Sionisti revisionisti) il 5 dicembre 1929 col nome di
Berich Trumpledor-Jeunesse sioniste révisioniste, è nato dal Movimento sionista
revisionista fondato nel 1923 da Jabotinsky a Riga. (“L’événement du jeudi”, 26
settembre 1991). Tagar in ebraico significa sfida; in Francia rappresenta l’organizzazione
più militante del Bétar e riunisce esclusivamente studenti dai diciotto ai
ventitre anni. La sua sede parigina è nello stesso edificio del Bétar, 59
Boulevard de Strasbourg, Xeme arrondissement, e sulla sua carta intestata
figura un’altra organizzazione, il Movimento degli studenti sionisti (che è in
realtà il Tagar stesso). Secondo Emanuel Ratier è un’organizzazione
paramilitare i cui membri hanno il diritto di indossare l’uniforme; possiede
inoltre un suo giornale, il Cactus, che esce solo sporadicamnete e a cui
collabora il giornalista ultrasionista Paul Giniewski, autore del libro “La croix des Juifs” (ed. MJR, Genève
1994 di cui ha trattato don F. Ricossa in Sodalitium numero 41, pagine 42-57).
A partire dal settembre 1992 il Tagar pubblica anche L’Étudiant juif; inoltre
intrattiene rapporti abbastanza buoni con lo Tsahal, l’esercito israeliano.
Gli argomenti del Bètar sono simmetrici a quelli degli antisemiti: gli ebrei
non potrebbero mai essere francesi (o tedeschi o italiani) come gli altri. Questo
punto è molto importante per gli ultrasionisti, perché distrugge completamente ogni
idea di integrazione o di assimilazione e sembra confermare come il Sionismo e
l’antisemitismo biologico collimino ideologicamente. L’Hèrut francese è il
rappresentante in Francia del partito di Begin e Shamir e riunisce i sionisti
revisionisti seguaci di Jabotinsky. Fu eretto in associazione legale nel 1905
ed è la casa-madre del Bétar-Tagar. Il Likud (alleanza di diversi partiti di
estrema destra) ha come elemento motore proprio l’Hérut. Chi controlla ad
altissimo livello l’autodifesa ebraica è il Mossad, il cui fondatore Isser
Harel dichiarò nel 1992, in seguito ad alcune manifestazioni dei naziskin
tedeschi, che se le autorità germaniche erano incapaci di fermare l’ascesa del
neonazismo ci avrebbero pensato loro (Le Monde,
26 novembre 1992). Harel spiega anche come abbia organizzato dei gruppi di
autodifesa in tutta Europa: “Abbiamo
deciso di soccorrere tutte le comunità ebraiche nei Paesi in cui i governi non
potevano o non volevano frenare l’ondata
antisemita. L’abbiamo fatto in Europa
e nel mondo intero creando delle organizzazioni ebraiche di difesa. Ciò non è
stato fatto in coordinazione con le autorità locali, abbiamo preso questa iniziativa unilateralmente” (Tribune Juive,
26 gennnaio 1993).
95) E. Ratier, opera citata, pagina 46.
96) Citato in E. Ratier, opera citata, pagine 41-42.
97) E. Ratier, opera citata, pagina 50.
98) Citato in Ratier, opera citata, pagina 58; confronta Y. Shavit, “Jabotinsky and the Revisionist movement”, FrancK Cass, 1988; A. Dielhoff, “L’invention d’une nation”, Gallimard, Paris, 1993.
99) Citato in Ratier, opera citata, pagina 60.
100) E. Ratier, opera citata, pagine 75-77; confronta L. Brenner, “Zionism in The age of dictators”, Corcum Hell, 1983; E. Ben Elissar, “La diplomatie du Troisième reich et les juifs”, Julliard, 1969.
101) 15 marzo 1935, pagina 1.
102) Citato in E. Ratier, opera citata, pagina 77.
103) Citazioni da E. Ratier, opera citata, pagina 78.
104) Confronta F. Nicosia, “The Third Reich and the Palestine Question”, Tauris, London, 1985.
105) E. Ratier, opera citata, pagina 93.
106) A. Dieck Hoff, “L’invention d’une natoin, Israël et la modernité politique”, Gallimard, 1993 citato in E. Ratier, opera citata, pagine 97-98.
107) Il testo originale è stao pubblicato da D. Yisraëli, “Le problème palestinien dans la politique allemande”, Bar Ilan University, 1974.
108) Citato in E. Ratier, opera citata, pagina 98.
109) Confronta N. Yahim-Mor, “Israël, La rainessance”,
1978.
110) Confronta Yediot Aharonot, 4 febbraio 1983.
111) Confronta Jerusalem Post, 18 novembre 1983.
112) L. Brenner, “Zionism in the Age of the Dictators”, Corcun Hell, 1983.
113) Confronta M. Cohen, “Du rêve sioniste à la réalité israélienne”, La Découverte, 1990.
114) Ratier, opera citata, pagina 66. Confronta la rivista “L’idea sionista”, in L. Brenner, “Zionism in the Age of the Dictators”.
115) Confronta B. Mussolini in Il Popolo d’Italia, 8 novembre 1933 e 17 febbraio 1934.
116) Confronta Jewish Daily Bulletin, 1935.
117) M. Bar Zohar, “Ben Gurion, le prophète armé”, Fayard, 1966.
118) Confronta E. Ratier, opera citata, pagina 68.
119) Citato in E. Ratier, opera citata, pagina 70.
120) R. De Felice, opera citata, pagina 174.
121) F. Tagliacozzo, opera citata, pagina 198.
122) “Mussolini non era mai stato antisemita, almeno fino al 1936. Aveva trattato col Sionismo con grande apertura e spregiudicatezza, ogni volta che gli era stato utile nella sua prospettiva di penetrazione nel Medio Oriente e di contrapposizione alla prevalenza anglo-francese. Aveva esaltato il contributo degli ebrei al Risorgimento”, da G. Spadolini, “Gli anni della svolta mondiale”, Longanesi, Milano, 1990, pagina 250.
123) R. De Felice, opera citata, pagine 159-161.
124) Hannah Arendt, “Ripensare Sionismo, ebraismo e modernità”, Feltrinelli, Milano, 1993, pagina 26.
125) Hannah Arendt, opera citata, pagina 87.
126) Hannah Arendt, opera citata, pagine 98-134.
127) F. Tagliacozzo, opera citata, pagine 405-413.
128) Paul Johnson, “Storia degli ebrei”, Longanesi, Milano, 1987, pagina 580.
129) F. Tagliacozzo, opera citata, pagina 419.
130) Paul Johnson, opera citata, pagine 587-588.
131) F. Tagliacozzo, opera citata, pagina 421.
132) F. Tagliacozzo, opera citata, pagina 438.
133) Andrew e Leslie Cockburn, “Amicizie pericolose”, Gamberetti editrice, Roma, 1993, pagine 45-46.
134) Confronta S. Green, “Taking Sides, William Mozzow”,
New York, 1984.
135) A. e L. Cockburn, opera citata, pagine 46-47.
136) A. e L. Cockburn, opera citata, pagina 47; confronta
S. Green, “Living by the sword”,
Brattleboro, VT, Amana Books, 1988, pagine 217-219.
137) Confronta M. J. Stone, “Truman and Israel”, University of California press, Berkeley, 1990.
138) A. e L. Cockburn, opera citata, pagine 49-55, passim.
139) Confronta U. Bialer, “Between East and West”, Cambridge University Press, New York, 1990.
140) A. e L. Cockburn, opera citata, pagina 59.
141) A. e L. Cockburn, opera citata, pagina 67.
142) V. Ostrovsky, “Mossad. Un agent des services secrets israeliens parle”, Presse de la Cité, 1990. Il libro dell’Ostrovsky, nonostante sia di un agente dei servizi segreti, sembra essere attendibile, in quanto - come scrive Actualité Juive, numero 417, febbraio 1995, pagina 13 - “Un ex agente del Mossad, Vistor Ostrovsky, condannato a trent’anni di prigione per contumacia, persegue legalmente una catena di televisione candese ‘per incitamento all’omicidio’ Vistor Ostrovsky è l’autore di due libri di successo sul Mossad, basati su cinque anni passati nei servizi israeliani La suddetta catena televisiva denunciata dall’Ostrovsky riceveva il 5 ottobre 1994 il giornalista israeliano Yosef Lapid che, qualche giorno prima, aveva scritto sul quotidiano israeliano Ma aziv che Ostrovsky non dovrebbe avere il diritto di vivere. Durante l’intervista televisiva Lapid ha dichiarato che il Mossad non assassinerebbe Ostrovsky per non compromettere le relazioni israeliano-candesi”.
143) Ibidem, pagine 165-169.
144) Sant’Alfonso Maria de’ Liguori, “Passione di Nostro Signor Gesù Cristo”, Alfonsianum, Roma, 1934, pagine 188-189.
145) A. Lemann, opera citata, pagine 177-8.
146) San Giovanni Crisostomo, “Homiliae contra Judeos”; V. Messori, “Patì sotto Ponzio Pilato”, Sei, Torino, 1992 e M. Blondet, “I fanatici dell’Apocalisse”, Il Cerchio, Rimini, 1992.
147) F. Spadafora, “Gesù e la fine di Gerusalemme”, Istituto Padano di Arti Grafiche, Rovigo, 1950.
148) Atti, I, 6.
149) Atti, I, 7-8.
150) Confronta J. Pignal, “Le Sionisme palestinien et son attitude religieuse”, in Christus, Lyon, 1935, pagine 482-507.
151) Confronta T. De Saint Just, “Les frères Lémann juifs convertis”,
Duculot, Gembloux, 1937, pagina 442.
152) Beda, In Luc. XXI, 24 In Rom. XI, 25-26.
153) San Tommaso d’Aquino, “Summa Theologica”, 1a 2æ q 102 a 2.
154) Luca XXI, 24.
155) Giovanni
Paolo II nella Lettera Apostolica spiega che stiamo per entrare nel terzo
millennio della Nuova Era e che il Concilio Vaticano II è stato l’avvenimento
che ha dato inizio alla preparazione del Giubileo del secondo millennio. (“Tertio Millennio Adveniente”, numero
20).
Il Concilio è una specie di “Avvento”
che ci prepara alla venuta del Messia (come se il Messia non fosse già venuto
nella persona di Gesù Cristo!). La preparazione fatta per l’anno duemila è una
chiave ermeneutica per capire le encicliche di Giovanni Paolo II, confronta N.
Lohfink, “L’alleanza mai revocata”, Queriniana, Brescia, 1991). Il Duemila è
stato accuratamente preparato con una fase preparatoria (dopo quella immediata
del Concilio Vaticano II) articolata in due fasi: a) dal 1994 al 1996 con
carattere antepreparatorio (numero 31). In questo periodo non solo era stato
creato un apposito Comitato di studio, ma si affermò che “è giusto che la Chiesa si faccia carico del peccato dei suoi figli in
tutte quelle circostanze in cui si sono allontanati dallo spirito di Cristo Tra
i peccati che esigono conversione devono essere annoverati quelli che hanno
pregiudicato l’unità voluta da Dio per il suo Popolo” (come se la Chiesa
non fosse più una, come recita il Credo!). Tale periodo sarebbe servito a
superare le divisioni del secondo millennio della storia della Chiesa. La
Chiesa anteconciliare quindi non era pienamente la Chiesa di Cristo e ciò per
almeno un millennio!
La seconda fase propriamente preparatoria andava dal 1997 al 1999. Nel primo anno (1997) si sarebbe riflettuto su Gesù Cristo, nel secondo sullo Spirito Santo e nel terzo sul Padre, il tutto alla luce del dialogo specialmente con ebrei e musulmani (che negano il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo!). Erano poi previsti incontri comuni a Gerusalemme. Il 1999 (e basta capovolgere le cifre per avere il numero della Bestia ‘666) sarebbe stato il trampolino di lancio per il Giubileo del Duemila “che avverrà contemporaneamente in Terra Santa e a Roma”. Se si legge “Tertio Millennio Adveniente” alla luce di quanto la Tradizione ha insegnato sulla conversione di Israele, preceduta dall’avvento dell’Anticristo, non si può non restare terrificati.
156) A. Lémann, opera citata, pagina 333.
157) Ibidem, pagine 333-334
158) Confronta Sodalitium, numero 21, pagine 3-14.
159) Sant’Ireneo, “Adversus Haereses”, lib. V, capitolo 25.
160) Lattanzio, “Institutiones”, lib. VI, capitolo 15.
161) Sulpizio Severo, “Vita Sancti Martini”, dial. II.
162) San Roberto Bellarmino, “De romano Pontifice”, lib. III, capitolo 13.
163) Cornelio a Lapide, “In II ad Thessalonicenses”, Ii in Dom., IX, 27.
164) Francisco Suarez, “Disputationes LIV, De Antichristo”, sectio V, obj. VI.
165) Apocalisse, XI, 7,8.
166) A. Lémann, opera citata, pagina 220.
167) A. Lémann, opera citata, pagine 220-221.
168) A. Lémann, opera citata, pagina 222.
169) San Paolo, “II Tessalonicesi”, II, 4.
170) San Girolamo, “Ad Algasiam”, q. II.
171) “II ad
Thessalonicenses”, II.
172) Teodoreto, “In II ad Thessalonicenses”, II.
173) A. Lémann, opera citata, pagine 229-230.
174) P. Johnson, opera citata, pagina 611.
175) “With
Gershon Scholem: An Interview” in
W.J. Dannhauser, “G. S.: Jesus and Judaism in crisis”, New York, 1976.
176) P. Johnson, opera citata, pagine 612-615.
177) Da La Stampa, 10 aprile 1995, pagina 7.
178) La Stampa, 22 agosto 1995, pagine 2-3.
179) Igor Man, “Contro la grande paura”, in La Stampa, 6 novembre 1995, pagina 1.
180) Comm. In I Reg., II.
181) Recita il salmo.
182) Luca 20,17-18.
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