berlusconi_casa.jpg
Piano casa: ignoranza più malafede
Stampa
  Text size
«Berlusconi si rimangia il piano casa», quello che prevedeva l’aumento delle cubature e l’abolizione delle autorizzazioni burocratiche, e la sinistra esulta. Ad opporsi è stato anche l’uomo del Colle, e sono state le Regioni, questi  modelli di buona amministrazione che il mondo ci invidia.

La campagna contro è stata massiccia e terroristica, con l’impegno di tutte le cannoniere anti-Salame: il dentuto di Ballarò, il lecchino Fazio, il salotto di Travaglio, Lilli Gruber la gallina vecchia in «haute couture» della 7, l’Unità e Repubblica, architetti vari spocchiosi come Fuksas, comici sparsi e a pacchetti, tutti lì a strillare sul «rilancio dell’abusivismo selvaggio», a lanciare l’allarme sulla «cementificazione» che il Salame voleva imporci, sul fatto che la proposta era «un condono anticipato» che avrebbe rovinato Italia e paesaggio. Naturalmente anche Bossi ha bofonchiato la sua, «bisogna sentire le regioni» (Bossi si occupa anche di urbanistica).

Il Salame essendo il Salame, ossia senza palle, s’è tirato indietro. La sua proposta non avrà la forma di decreto ma di disegno di legge, dunque se ne riparlerà fra due anni almeno, e addio effetto-rilancio anticiclico sulla crisi in corso. Poi Berlusconi ha detto – mentendo – che la bozza di piano che circolava «non era il mio», e che il suo progetto «si fermerà alle villette» e «non riguarderà gli immobili urbani».

Ora, io che ho abitato gran parte della vita in orribili periferie urbane milanesi (avete presente viale Monza-Sesto?), tendevo a pensare che non sono le «villette», ma proprio gli «immobili urbani» ad aver bisogno di essere tirati giù. Che la proposta di Berlusconi, se non fosse stata governata dalla superficialità e dal'ignoranza del personaggio, sarebbe un’occasione epocale per liberare questo Paese da concrezioni schifose di casamenti vetusti e senza qualità, che soffocano e bruttano paesaggi e vite umane, ormai anti-economiche e persino pericolanti.

Leggo su  Repubblica (ostilissima al progetto, manco a dirlo) che in Italia – su 11 milioni di case – abbiamo 1,4 milioni di edifici abitativi fabbricati tra il 1919-1945, ossia che hanno da 65 a 90 anni. Altri 1,7 milioni risalgono al 1946-61, ossia hanno almeno 50-60 anni, e sono stati tirati sù in fretta, nella miseria del dopoguerra, con materiali scadenti e nessuna altra ambizione che dare un tetto ai senza-casa per i bombardamenti.

Abbiamo anche 2,2 milioni di edifici costruiti prima del 1919, ossia di almeno cento anni: fra questi ci sono i palazzi storici intoccabili, ma senza dubbio anche almeno un milione di case fatiscenti di età umbertina (1911), quando per esempio a Milano ci fu una prima immigrazione industriale, e si facevano orribili casamenti coi cessi in comune sulla ringhiera, oggi sicuramente con le fondamenta marce. Ci sono ancora, e c’è gente che si abita.

Questo è uno scandalo tutto italiano. Non c’è Paese appena civile al mondo dove le case non vengano buttate giù e rifatte, secondo standard moderni e più civili, prima che raggiungano i 50 anni. Qui abbiamo almeno 4 o 5  milioni di edifici – anonimi e opprimenti nel migliore dei casi, per lo più degradati e degradanti – che si possono demolire senza rimpianti e ricostruire meglio.

«Meglio» vuol dire: con due piani sotterranei di parcheggi per togliere le infinite file di auto in sosta in terza fila che ammorbano, intasano e abbruttiscono le vie delle città italiote (anche questo, un unicum mondiale); con tecniche di risparmio energetico ed eco-compatibili (ecologisti, dove siete finiti?); anti-sismiche, dove occorre (le vecchie case di Napoli o di Messina non lo sono), con materiali innovativi e leggeri, imponendo la costruzione di portici – il che consentirebbe di recuperare spazio abitativo in aggetto sui marciapiedi e donare una certa eleganza (se lo hanno fatto nel Medio Evo a Bologna, perchè non la Milano della Moratti?); con passerelle pedonali sopra-elevate ossia separate dal traffico dei veicoli.

E sì, anche con un aumento di cubatura del 20-30%. E’ semplicemente idiota – o un riflesso condizionato immobilista e retrogrado, tipico della sinistra italiota – strillare alla «cementificazione». La cementificazione c’è già, grazie anche alle amministrazioni di sinistra, ed è spaventosa.

Ho presente ancora viale Monza a Milano, o viale Padova-Palmanova, per non parlare di Quarto Oggiaro; o una qualunque delle periferie assassine di Roma, o i casermoni da geometra affacciati sui tempi di Agrigento. In che cosa gli attuali casermoni senza nome da sette piani che opprimono quelle strade, sono «migliori» di edifici di nove piani con i parcheggi sotto, i pannelli solari sopra, bei portici, e i muri e le vetrate a risparmio energetico? E magari tunnel per il traffico veicolare, così che resti fuori vista?

Nelle città, la densità abitativa, se ben concepita, è un vantaggio: consente di accorciare le distanze e le spese dei trasporti e delle altre infrastrutture: in USA, la crisi sta spopolando i «suburbia» pretenziosi «immersi nel verde», e la gente torna ad abitare in città, dove ci sono i mezzi pubblici e non si devono fare 70 miglia in auto fra casa e lavoro.

Un piano ben pensato, con volumi in verticale, consentirebbe persino di recuperare spazi-giardino o terreni agricoli su cui l’italiota senza qualità ha costruito dissennatamente, abusivamente e da cretino ignorante, nonostante tutti gli ostacoli burocratici di Comuni e Regioni.

Naturalmente ci vuole un piano nazionale, che Berlusconi – troppo ignorante – non è in grado di dare.

Ma soprattutto bisogna tenere a freno gli architetti di regime, come quel Fuksas che vuol conservare l’orrore urbano periferico, ma intanto lui vive a Parigi, alla Citè, ossia nel quartiere aggrappato a Notre Dame, costruito in tempi in cui architetti come Fuksas sarebbero stati bruciati in piazza per mercimonio con Satana (o con Mammona).

Bisogna, prima, mettere sotto accusa gli architetti «venerati maestri» che hanno costruito il quartiere Zen a Palermo, il Corviale a Roma, la nuova Fiera a Milano: esercizi di «modernismi» retrogradi che sono diventati covi di delinquenza, vecchiumi appena nati, esercizi di odio anti-umano molto ben pagati.

Naturalmente, gli architetti italioti non hanno commesso questi delitti da soli. Hanno goduto la complicità del «committente pubblico», ossia delle burocrazie locali malavitose e inadempienti, che hanno ordinato quelle opere ed hanno pagato (miliardi) i genii alla moda o con tessera del PCI, detratta ovviamente la loro tangente.

Questo è il problema: del Papa che commissionò la cappella Sistina, ricordiamo il nome; ma chi furono i burocrati che commissionarono lo Zen o il Corviale? I loro nomi ci sono ignoti, e proprio per questo essi sono impuniti, irresponsabili (e si godono le mazzette percepite).

Il Committente Collettivo, ecco il nemico. E il committente collettivo è, essenzialmente, «la sinistra». Quella che adesso strilla.

L’occasione di un grande rilancio dell’economia viene così sprecata e dissipata sotto i nostri occhi, per la convergenza di due patologie italiote.  Da una parte c’è la vacuità di Berlusconi, che «lancia un’idea-annuncio» senza prima pensarla, e nel proporre l’aumento delle cubature al 20% dà la sensazione di non andare più in là del secondo bagno da costruire sul balcone, o della «villetta» da rialzare. Dall’altra, c’è la «sinistra» con il suo congenito riflesso immobilista ed oscurantista: non si tocca niente, le case di rinchiera sono opere d’arte…

Ma quella della «sinistra» non è solo una colpa, è un dolo. C’è malafede. La prova? Siccome non m’intendo di urbanistica, sono andato a cercare su internet. Provate anche voi, digitate su Google le parole «rottamazione edilizia». Scoprirete che da anni, molto prima dell’annuncio del Salame, si dibatte di demolire le immani schifezze abitative dell’Italia e di riqualificare il patrimonio edilizio vetusto, di qualità vergognosa, che grava sul bel Paese. E che spesso, questo tema è sollevato proprio da «sinistra».

Ecco qualche esempio alla rinfusa:

«... Come Radicali - che nel 2000 abbiamo redatto il Manifesto per la rottamazione edilizia post-bellica priva di qualità e non antisismica, pubblicato sulla Rivista di Bruno Zevi - siamo pronti a sostenere una forte politica edilizia purchè ponga al centro la riqualificazione del patrimonio edilizio (pubblico e privato) esistente e ponga fine alla crescita illimitata delle città e del consumo del territorio per il quale serve un vero e proprio piano di restauro dallo scempio inflitto da 60 di regime partitocratrico che ha fatto del nostro Paese, quello più (e peggio) urbanizzato dEuropa rispetto alla popolazione, con gli attuali 120 milioni di vani per circa 60 milioni di abitanti (nel 1945, quando gli abitanti erano 46 milioni, i vani erano 35 milioni.

Dunque già nel 2000 i radicali di Pannella proponevano la rottamazione, che oggi il Salame confusamente propone. Per una volta, hanno ragione i pannelliani. Perchè Franceschini, D’Alema, Visco e Prodi non fanno la loro controproposta?

Ancora una fonte radicale, tale Elisabetta Zamparutti:

«La giunta regionale del Veneto ha approvato una legge a sostegno del settore edilizio e per promuovere le tecniche di bioedilizia e l'utilizzo di fonti di energia alternative e rinnovabili che dovrebbe essere la traccia di quella nazionale. (...) Berlusconi deve avere maggior ambizione: compiere una rivoluzione copernicana con l'abbandono della politica della crescita delle città e l'adozione invece di una politica di riqualificazione dell'esistente. La legge del Veneto prevede infatti all'articolo 2 l'ampliamento degli edifici esistenti nei limiti del 20% e all'articolo 3 la demolizione e ricostruzione di quelli anteriori al 1989 (perché?) che necessitano di essere adeguati agli attuali standard qualitativi, energetici, architettonici e di sicurezza» per incentivare i quali sono previsti aumenti volumetrici fino al 30% o fino al 35% in caso di utilizzo di tecniche di bioedilizia o che prevedono ïutilizzo di fonti di energia rinnovabile. Se si considera che l'Italia, negli ultimi 60 anni ha visto quadruplicare i vani passati dai 35 milioni del 1945 ai 120 milioni attuali, divenendo secondo Eurostat, il primo Paese in Europa per disponibilità abitativa con ben  26 milioni di abitazioni (il 20% delle quali non occupate) è evidente che autorizzarne un'ulteriore dilatazione poco si spiega per una popolazione che non cresce, se non per il contributo dell'immigrazione, e molto preoccupa per un territorio a cui nei soli anni Novanta sono già stati sottratti quasi 3 milioni di ettari di suolo agricolo (secondo i dati forniti da Maria Cristina Treu, presidente del CeDat).

Altro sarebbe se, anche in un momento di crisi, si cogliesse l'occasione storica di mandare la macero, con un piano straordinario, solo quell'edilizia  post bellica, priva di qualità e non antisismica costruita negli anni '40, '50 e '60 tenuto conto del fatto che le norme antisismìche sono state varate a partire dagli inizi degli anni '70. Come Radicali, nel Manifesto per la rottamazione edilizia pubblicato sulla rivista di Bruno Zevi nel 2000, abbiamo documentato come siano circa 40 milioni i vani virtualmente rottamabili rispetto ai quali, nonostante la sovraurbanizzazione esista una forte domanda di residenza di qualità,  di alloggi per nuovi nuclei familiari, di attrezzature, servizi, parcheggi e aree verdi (...). Il piano straordinario per l'edilizia  dovrebbe quindi avere l'obiettivo prioritario di riconvertire questa spazzatura edilizia in architettura di qualità e a forte efficienza energetica, con norme e obiettivi su questo vincolanti. Un  obiettivo per il quale gli incentivi possono prevedere oltre a cambi di destinazione d'uso anche defiscalizzazioni e incrementi volumetrici tecnici o da destinare ad attrezzature, servizi o attività produttive.

Un piano straordinario di edilizia dovrebbe quindi prevedere una mappatura delle aree urbane e degli edifìci da rottamare, l'elaborazione di piani di riqualificazione urbana peraltro già previsti dalla legislazione vigente garantendo la salvaguardia dei centri storici e il restauro del paesaggio attraverso il ripristino degli equilibri naturali violati dall'edilizia post bellica con la demolizione di tale edilizia, il disinquinamento, il risanamento idrogeologico e la creazione di oasi ed aree protette».


Allora: il piano del Veneto che prevede aumenti di cubature del 35% è buono ed anzi progressista, quello di Berlusconi è cattivo. Perché?

Altra citazione di un addetto ai lavori:

«... Da un lato, siamo sopraffatti da una massa di oltre 80 milioni di vani costruiti negli ultimi 60 anni che hanno assediato le città storiche e travolto il paesaggio formando fasce di periferie invertebrate, prive di attrezzature e servizi adeguati, senza qualità; dall’altro, le città sono ancora regolate da una legge urbanistica antiquata o da leggine velleitarie quanto ineffettuali, per cui i piani urbanistici nascono vecchi, asfittici ed impotenti a contrastare le patologie in atto e a progettare il futuro post-industriale.

Una strategia alternativa dovrà avere come obiettivi: - il rilancio dell’economia delle città attraverso la rottamazione dell’edilizia post-bellica priva di qualità;

- l’adozione della perequazione urbanistica come strumento indispensabile per il riequilibrio territoriale; - il diritto alla «qualità» geo-architettonica e paesaggistica con la difesa dei centri storici;

- la mutazione genetica della città tardo-industriale in post-industriale; - la pacificazione tra ecosfera e tecnosfera nella prospettiva di una nuova frontiera ecopolitana; - l’elaborazione di un modello di città post-industriale come sistema di nodi e reti, a sviluppo controllato e ad autosufficienza funzionale ed energetica; - la progettazione di urbatetture come «protesi della natura»;

- la revisione e riunificazione della legislazione urbanistica; la individuazione e rimozione degli ostacoli al decollo dei «programmi di riqualificazione urbana»;

- il rilancio dell’industria delle costruzioni come motore della innovazione urbatettonica.

Da ciò si deduce che: «la soluzione ai problemi metropolitani richiede politiche di intervento che investono il quadro legislativo, istituzionale, finanziario, nonché quegli strumenti normativi organizzativi a meno dei quali è difficile pensare ad un successo delle politiche metropolitane» (I. Cipoletta, ’91).


Dello stesso autore:

«Le città italiane sono oggi in una condizione di ristagno. Questo non ha riscontro negli altri Paesi industrializzati dove il rinnovo urbano è una prassi corrente. Aumentano progressivamente gli squilibri indotti dalla città tardo-industriale nella quale le funzioni abitative convivono in una congestione insostenibile con le attività secondarie e terziarie, mentre spesso mancano centri di servizi di livello superiore. Questo determina una vischiosità funzionale complessiva che provoca “diseconomie” e una paralisi progressiva dello sviluppo».

«...L’inerzia del sistema urbano rispetto alla rivoluzione post-industriale, che rinnova profondamente i paesi a tecnologia avanzata, è clamorosamente testimoniata dal ritardo o dalla lentezza con cui viene attuato quell’indispensabile “divorzio tra città e produzione industriale” che trasforma la città tardo-industriale in una moderna città quaternaria, dove: “uffici, laboratori, biblioteche, musei, università, e istituti di ricerca, stadi, hanno sostituito nei centri urbani le fabbriche, gli alloggi operai, i magazzini per le merci”. La moltiplicazione irrazionale delle infrastrutture e la sconnessione tra le reti dei trasporti rappresentano la sesta patologia che affligge le città italiane le quali, non riuscendo a pianificare per tempo il loro sviluppo, sono costrette ad adattare la nuova viabilità all’espansione edilizia che la precede».
 
«Questo è dovuto alla incomunicabilità tra gli enti che decidono la mobilità e le amministrazioni responsabili della pianificazione urbanistica Il deficit abnorme di verde urbano e il consumo scandaloso di energie non rinnovabili concorrono alla formazione delle cappe di inquinamento che stazionano sulle città trasformandole in isole di calore sempre più invivibili nei mesi estivi. In tale contesto aumenta l’ingovernabilità dell’espansione e della forma urbana, peraltro, ancora ferma al modello della città scatolare, indifferente alla natura, al genius loci e al «diritto alla qualità» degli abitanti e degli stessi architetti ridotti al ruolo degli esecutori di standards commerciali, lontani dallo spirito della modernità ghettizzato dalla prevalente cultura della conservazione».
 
«Al ristagno della città e dell’innovazione urbana corrisponde quello dell’architettura, con la complicità dell’arretratezza della legislatura urbanistica, ferma da 62 anni, cioè precedente al manifestarsi di quella rivoluzione post-industriale che ha trasformato radicalmente la città contemporanea nei paesi industriali avanzati, con straordinari vantaggi in termini di efficienza produttiva, qualità della vita, creatività architettonica».


Ed ora – sorpresa sorpresa – un articolo di Repubblica. Guardate la data: 2001. Si parla di «rottamare gli immobili vecchi», senza gridare allo scandalo.

E' ora di rottamare gli immobili più vecchi

ROMA - «Tiriamo giù tutto ciò che non è più recuperabile e ricostruiamo gli immobili sulla base di nuovi e più accettabili criteri urbanistici. Rendiamo vivibili le degradate periferie della città italiane...». A lanciare la proposta di una colossale rottamazione edilizia del Bel Paese è il presidente dei costruttori Claudio De Albertis. L' idea di un «ridisegno complessivo» degli interventi in tema di edilizia abitativa piace al numero uno dell'Ance ma solletica anche il governo e la stessa opposizione. Ora ci riprovano i costruttori. «Questo argomento ha molti sostenitori in Parlamento e lo stesso ministro per le Infrastrutture Lunardi lo vede con grande favore. Adesso si tratta di capire se e come può essere sostenuta una simile strategia soprattutto da un punto di vista fiscale.

La conferma degli sgravi sulle ristrutturazioni - sottolinea De Albertis - la dice lunga sulla bontà della scelta. La gente oggi mira a vivere in contesti urbanistici più civili
, più accettabili, meno penalizzanti. Ed i Comuni dovranno essere i primi ad impegnarsi in questa battaglia per la riqualificazione. Il 40% degli edifici italiani - ricorda il presidente dei costruttori - è stato costruito prima del 1945. Un altro 40% è stato costruito nei 25 anni successivi ala guerra. Come dire che l' 80% delle case italiane ha più di trent' anni». E a conferma della voglia degli italiani di trovare una casa più comoda, De Albertis ricorda i dati di una indagine dell'ISTAt secondo la quale proprietari e inquilini cercano alloggi più confortevoli, serviti da mezzi pubblici e dotati di parcheggi. Insomma una casa di qualità. Un desiderio, però, che per molti rischia di rimanere tale. Secondo l' ISTAT, infatti, un italiano su tre non è contento dell'alloggio nel quale vive mentre raggiunge il 65% la domanda inevasa di mobilità abitativa. Tre milioni di famiglie, il 14% del totale, abitano case di dimensioni giudicate insufficienti mentre un milione e duecentomila famiglie (pari al 5,7%) risiede in abitazioni considerate «in cattive condizioni».

Nel 2000 il 4,5% della famiglie ha cambiato abitazione. Un obiettivo raggiunto in molti casi pagando mutui gravosi ai quali non hanno potuto far ricorso 1.783.000 nuclei familiari, l' 8,1% del totale. Su questo stato di «sofferenza abitativa» incide anche una bassa qualità dei servizi. Otto milioni e mezzo di famiglie (il 39% del totale) lamentano, sempre secondo l' ISTAT, «gravi difficoltà di parcheggio» nella zona in cui vivono. Sei milioni e quattrocentomila nuclei dichiarano invece di «avere difficoltà di collegamento con i mezzi pubblici». Insomma una scarsa qualità della vita, vissuta per di più in quartieri brutti e degradati. «E' da questo contesto - spiega De Albertis - che nasce la nostra richiesta di demolizione e riqualificazione ambientale del patrimonio irrecuperabile. Solo così - aggiunge il presidente dei costruttori - riusciremo a bloccare la lenta ma inesorabile fuga dalle grandi città, iniziata a partire dagli anni novanta».

Ha senso oggi pensare a periferie «deluxe»? Un sogno del genere ha qualche possibilità di diventare realtà? «Per risanare i centri storici e le periferie italiane - risponde De Albertis - servirebbero decine di migliaia di miliardi e venti, trenta anni di interventi. Ma un segnale va dato guardando a quello che si fa all'estero, soprattutto in Francia dove il premier Jospin, a fine ottobre, ha varato un piano che grazie a diecimila miliardi di stanziamenti cambierà volto alle case popolari intorno a Parigi e alle maggiori città
d' Oltralpe»
. – (ENZO CIRILLO Repubblica — 2 dicembre 2001 pagina 36 sezione: ECONOMIA )
 
Ecco qui un altro pezzo, del 2007:

Edilizia popolare, Staderini: puntare su rottamazione edilizia

23 luglio 2007

Dichiarazione di Mario Staderini, membro della Direzione nazionale della Rosa nel Pugno e capogruppo al Municipio I di Roma

In materia urbanistica l’opinione pubblica continua a non essere coinvolta, ed è un danno per tutti.
Negli ultimi 15 anni a Roma si è costruito troppo e male: in assenza di una visione, praticamente raddoppiata la superficie occupata dal mattone.

Anziché proseguire nel consumo del territorio che congestiona tutte le zone a cavallo del GRA, occorreva ed occorre puntare su di un piano coraggioso di «rottamazione edilizia».

Abbattere gli edifici orridi ed antisociali della speculazione, vecchia e nuova, per ricostruire agglomerati vivibili e funzionali ad una città moderna.

All’assenza di adeguate reti di trasporto, infatti, si aggiunge la mancanza di qualità urbana ed architettonica.

Spero si comprenda ora la gravità di avere avuto per un anno la vacatio del Comitato per la qualità urbana ed edilizia di Roma Capitale. I piani di edilizia popolare sono stati esaminati dal Comitato?

Mi sorprende la levata di scudi del centro destra, lo stesso che ha consentito alla fine della scorsa sindacatura di approvare il nuovo PRG ritirando le migliaia di emendamenti che ne impedivano l’approvazione in tempo utile».


Dunque, come si vede, l’idea è seria, circola da anni, e non suscitava allarmi di abusivismo selvaggio; si dava per scontato l’aumento delle cubature degli immobili ricostruiti, come incentivazione e copertura dei costi, senza che nessuno ne facesse scandalo. Repubblica, anzi, sembrava favorevole - nel 2001. Soltanto quando l’idea è ventilata da Berlusconi, allora diventa scandalosa e sospettabile delle peggiori intenzioni. Ma soprattutto, quando si tratta di passare dal parlare al «fare», allora la «sinistra» scatta nel suo riflesso pavloviano: non si può! Non si deve! Bloccare tutto, lasciare tutto così!

Il riflesso dell’immobilismo retrogrado, oscurantista, che è proprio solo dei «progressisti» italioti. Già molti anni fa, Ugo La Malfa «progressista» capo del partito repubblicano-mazziniano (massonico), pretese di vietare l’introduzione della TV a colori: spesa inutile, costo assurdo per il Paese... Oggi è lo stesso. No alla TAV (i socialisti spagnoli hanno fatto l’alta velocità trent’anni orsono), no agli incineritori, o alla variante di valico, no al risanamento urbano!

No a tutto. Perchè anzitutto «bisogna controllare» che non avvengano abusi, e dunque mettere il potere di blocco in mano ai Comuni, alle regioni, alle Belle Arti; perchè le volontà private sono in sè delittuose, o almeno sospette…

Ovviamente, se l’idea fosse stata partorita a «sinistra», allora sarebbe stata buona e giusta: perchè solo la «sinistra» è morale, non prende mazzette, non consente cubature abusive; solo la «sinistra» eutanasica è disinteressata, animata dai più puri intenti e interprete della Volontà Generale.

E poi, «non si può». Perchè da noi, «la roprietà edilizia è molto frazionata». E mentre si abbattono le case urbane fatiscenti, dove vanno ad abitare i residenti, in attesa della ricostruzione?

E’ questa l’obiezione più stupida, infinitamente ripetuta dalle Lilli Gruber e dal Floris Denti Bianchi di «Ballarò». Chissà come, il problema è stato risolto a Berlino, a Barcellona, a Londra, in tutte le metropoli del mondo – di cui Lilli Gruber non s’è mai occupata, non ne sa niente, perchè non ci ha mai pensato un minuto – prima che Berlusconi parlasse. E il bello è che i Fuksas confermano, con la loro autorità di mascalzoni in malafede: non si può, è impossibile.

Allora ecco qui un articolo che spiega come fanno a New York:

Rottamare le case
Lezione dagli USA: ricostruire i palazzi dopo 70 anni
di Mauro Suttora
Libero, martedì 10 marzo 2009

Negli Stati Uniti a settant’anni sono già vecchi. Quindi si buttano giù,  si rottamano, e al loro posto se ne costruiscono altri nuovi di zecca in pochi mesi. I palazzi di New York sono affascinanti. Basta stare via da Manhattan per qualche anno, e al ritorno la città è irriconoscibile. Lo skyline della capitale del mondo è in perpetuo cambiamento.

Speriamo che la scossa edilizia annunciata da Berlusconi tolga dal torpore le città italiane, dove invece si conserva maniacalmente tutto, anche le topaie di cent’anni fa senza alcun valore storico: quelle che meriterebbero solo di essere rase al suolo per il benessere dei loro stessi inquilini.

A New York il programma misto pubblico/privato Equity fund, nato vent’anni fa e molto utilizzato dall’ex sindaco Rudy Giuliani per riqualificare zone invivibili del Bronx, ha permesso di rinnovare più di 20mila appartamenti di case popolari degradate. I costruttori ci hanno messo soldi (due miliardi di dollari) e cantieri, in cambio di cospicui tagli di tasse cittadine e statali (qui il federalismo fiscale è una realtà). «Gli inquilini sono stati trasferiti in «case-polmone» per 24 mesi, e al loro ritorno hanno ritrovato un appartamento di eguale metratura completamente nuovo», spiega Kathryn Wylde, presidente della società Housing Partnership.

Ovviamente questo meccanismo funziona dove la proprietà dei singoli appartamenti non è frazionata, e gli inquilini sono in affitto. Ma anche nel caso di molti proprietari in un unico stabile, con un’offerta allettante di può procedere alla rottamazione in tempi rapidi.

Gli americani non hanno pietà. Gli architetti Diller e Scofidio hanno appena finito di ricostruire la Alice Tully Hall, famosa sala concerti del Lincoln Center, nonostante avesse solo cinquant’anni. E sempre in questa zona di New York, che fino agli anni '50 ospitava i fatiscenti tuguri portoricani in cui Leonard Bernstein ambientò la sua West Side Story, Donald Trump e altri «developers» hanno innalzato negli ultimi anni grattacieli di 60 piani con appartamenti dotati di vista sul fiume Hudson.

Di fronte a casa mia, all’angolo di Broadway con la 93esima Strada, ho visto incredulo sorgere a tempo record un «condo»(minio) di 16 piani dopo la distruzione di un vecchio palazzo di 4 piani. Hanno costruito al ritmo di un piano a settimana.

Mentre a Milano si conservano religiosamente obbrobri urbani come via Padova o viale Monza, e a Roma il Tiburtino o il Prenestino offrono squallore metropolitano, a New York procede senza soste la «gentrification». Che significa rinnovamento e miglioramento di interi isolati, con l’afflusso di inquilini di livello migliore, negozi più belli, ristoranti alla moda, servizi. Così si sono rinnovate l’Upper West Side, Tribeca, Soho, l’East Village e perfino Harlem. L’esatto contrario di quel che avviene in Italia, dove i quartieri lasciati andare poco a poco decadono. I prezzi crollano, arrivano gli immigrati, e così addio Esquilino a Roma, o Sarpi a Milano. (...)

Comunque gli statunitensi non sono dei barbari: se un edificio ha un valore architettonico viene risparmiato. Quindi nessuno ha toccato la Grand Central Station. Il Madison Square Garden, invece, inaugurato nel '68 con l’incontro di boxe Benvenuti-Griffith, è il quarto della serie. E presto verrà abbattuto, per costruirne un quinto».


Ecco come si fa, Fuksas. Così, Gruber. Cerca di imparare qualcosa, l’anti-berlusconismo non dà la scienza infusa.



Home  >  Politica interna                                                                                 Back to top


La casa editrice EFFEDIEFFE ed il direttore Maurizio Blondet, proprietari
dei contenuti del giornale on-line, diffidano dal riportare su altri siti, blog,
forum, o in qualsiasi altra forma (cartacea, audio, etc.) e attraverso attività di spamming e mailing i suddetti contenuti, in ciò affidandosi alle leggi che tutelano il copyright ed i diritti d’autore. Con l’accesso al giornale on-line riservato ai soli abbonati ogni abuso in questo senso, prima tollerato, sarà perseguito legalmente anche a nome dei nostri abbonati. Invitiamo inoltre i detentori,a togliere dai rispettivi archivi i nostri articoli.