La Germania dittatore involontario
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È difficile capire i tedeschi. Ma Ambrose Evans Pritchard ha scritto un articolo profondamente comprensivo del dramma che i tedeschi hanno in Europa. L’articolo si intitola È la Germania la vittima suprema della Moneta Unica (Germany is the ultimate victim of EMU) ed è un esemplare sforzo di comprensione, quasi miracoloso per un inglese, sullo spirito tedesco. (Germany is the ultimate victim of EMU)

Descrive questa Germania che ha tutte le virtù. Che è entrata nell’euro obtorto collo, ma «per onorevoli motivi, credendo di agire da veri europeisti». Che ha subito l’euro sopravvalutato, che ha dato ai tedeschi «una semi-recessione per mezzo decennio». Che ha laboriosamente, ordinatamente e con spirito di sacrificio nazionale, recuperato produttività e competitività accettando tagli salariali e più ore di lavoro, diventando il secondo esportatore mondiale, esportatore di eccellenza e di qualità. La Germania che con la proverbiale disciplina ha fatto i compiti a casa, e a cui sembra perciò naturale che «quelli del Club Med possano e debbano fare altrettanto», senza capire che proprio ora non possono, con i tassi d’interesse sul debito alle stelle e in piena recessione globale.

  
La Germania che ora non capisce perchè in Grecia i manifestanti esibiscano cartelli con la Merkel in divisa nazista, e la scritta «Arbeit Macht Frei», e che nel resto dell’Europa sia detestata per il suo rigore morale indubitabile. Perchè esclude gli eurobond, perchè vieta alla BCE di fare quantitative easing, com’è esattamente scritto nei trattati europei.

Patetica, la cancelliera Merkel, davanti al Bundestag, ha detto e ridetto: noi tedeschi non stiamo cercando di dominare nessuno, non stiamo facendo la guerra con altri mezzi, non stiamo instaurando – Dio ne scampi – il Quarto Reich. Senza accorgersi che sta dando poteri dittatoriali e illegittimi alla eurocrazia di Bruxelles, e dietro questi poteri la Germania esercita una dittatura ambigua ed oscura – oscura soprattutto a se stessa, la Germania che ha tutte le virtù.

Tutte, tranne una. Il guaio che è la sola virtù che le serve, quella che le manca.

La Germania si sente incompresa. Non è la prima volta, è un fatto ricorrente nella sua storia. Da qualche parte del suo Diario di un Impolitico (titolo rivelatore) Thomas Mann racconta il sentimento che il popolo tedesco nutriva sull’orlo abissale della Prima Guerra Mondiale, e che lui tedescamente condivideva: Perchè gli europei non ci amano? Perchè hanno paura di noi? Perchè ci dipingono come barbari? Li obbligheremo ad amarci – con la guerra.

Fu così che un popolo che prima era conosciuto per la sua bonomia, per il suo sentimentalismo, per l’occhio che facilmente si inumidiva davanti al povero e al malato (così Dostojevski descrive il tedesco medio di Pietroburgo) diventano i proverbiali guerrieri: senza volerlo. Come effetto collaterale della loro disciplina, della loro superiorità tecnica, gli operai della Krupp che vanno in trincea col loro ingegnere capo diventato colonnello, sono ovviamente schiaccianti verso l’esercito francese, italiano o russo, fatto di contadini viventi ancora nel 14° secolo. Ma loro non lo capiscono.

La cosa si ripete nella Seconda Guerra Mondiale. Ortega y Gasset deplora a questo proposito più o meno (cito a memoria) che i politici tedeschi non siano mai stati al livello dei chimici tedeschi.
Chimici inarrivabili, che inventano benzina e gomma sintetica partendo dalla sola materia prima tedesca, il carbone trattato con vapore acqueo e l’uso geniale dei catalizzatori; tecnologi-patrioti dall’inventiva inesauribile, che sfornano V2 come Obert e Von Braun, altri che s’ingegnano a inventare il sommergibile a motore unico ad acqua ossigenata, altri l’aliscafo, altri che arrivano a un capello dal realizzare la bomba atomica... uno sforzo intellettuale immenso, una potenza industriale formidabile, gli uomini giusti messi ai posti giusti (caso raro nelle altre nazioni) e tutti fusi in una unità di intenti mai vista, volti indefettibilmente alla vittoria finale. E invece perdono.

Perchè? Perchè i politici tedeschi non sono mai all’altezza dei loro chimici, tecnici, scienziati. Non c’è spazio per ricordare gli errori politici tedeschi nella Grande Guerra. Ma al di là delle demonizzazioni e criminalizzazioni, anche Hitler – che ha successi epocali in politica interna e in economia – è un disastro in politica estera. Come suo unico strumento, usa la guerra. Trascura la diplomazia e gli accordi internazionali come arma di egemonia: in breve, si fa più nemici di quanti la fortissima Germania possa debellare. Sottovaluta la capacità di resistenza degli inglesi; ignora la potenza americana. Ricade nella guerra sui due fronti, che tutta la dottrina militare tedesca aveva già valutato (per triste esperienza diretta) esiziale. Quando le truppe tedesche dilagano ad Est, non si presentano come liberatori dei popoli oppressi, ma come padroni, non come fratelli ma come Razza Superiore: è, diciamo, mancanza di ipocrisia, una virtù anch’essa, fra le tante tedesche. Ma che diventa una falla, in mancanza della sola virtù che la Germania non possiede.

Ed anche oggi, per la terza volta – per fortuna senza cannoneggiamenti – la Germania è convocata al comando d’Europa, un comando per cui è fornita delle più alte qualità, e perde nuovamente l’appuntamento con la storia.

Il lato tragicomico è che lEuropa, lo sappia o no, chiede un comando – senza saperlo, invoca una energica capacità unificante che la sottragga al totalitarismo dell’eurocrazia, della speculazione americana e della BCE, totalitarismo molle come la stretta della piovra – e Berlino rifiuta la corona, come Cesare per tre volte rifiutò la corona che Antonio gli tese.

Stavolta è perchè, ammaestrata dalla criminalizzazione che gli hanno appioppato i vecchi nemici e che ha introiettato nella coscienza nazionale, ammaestrata fin troppo a diffidare di sè e della sua potenza, la Germania positivamente «non vuol dominare nessuno», come appunto protesta la Merkel: la quale tuttavia (e con lei i tedeschi) dovrebbe chiedersi come mai – per la terza volta in un secolo – si sente accusare dagli altri d’insensibilità inumana verso le sofferenze che infligge ai popoli in difficoltà.

Il fatto è che si scambia per cuore di pietra quello che è, essenzialmente, l’isolazionismo mentale tedesco, la convinzione ritornante che gli altri «non ci amano», o in forma attenuata quella che in altri tempi più virulenti fu la dichiarata estraneità del popolo della Kultur verso i popoli della Zivilisation, della profondità intuitiva con la superficialità razionalistica (1). Opposizione assolutamente impolitica, perdonabile in poeti romantici in quanto irresponsabili, mentre doveva incitare un’alta ambizione politica a proclamare «complementari» queste due anime d’Europa, e a volerle fondere in una: alto compito, essenzialmente politico, in quanto configura la definizione stessa che Ortega y Gasset diede del comando di Roma: la «chiamata di genti diverse ed originariamente ostili a fare qualcosa di grande insieme».

Risulta così che il difetto peggiore della Germania d’oggi è che manca di ambizione. E non mi additate tutte le apparenze contrarie, l’eccellenza industriale, la produzione eccellente, l’esemplare amministrazione pubblica, l’eccellenza esportatrice che parlano di grandi ambizioni: quelle sono opere dei «chimici geniali» che alla Germania non mancano mai, e sono ambizioni da «chimici»; ma mancano le grandi ambizioni politiche. Oggi, i tedeschi si vietano di coltivarle; ma temo che, nonostante le guerre e le invasioni del secolo ventesimo che paiono suggerire il contrario, non le abbiano mai avute. È un difetto gravissimo d’ambizione.

Il perchè ce lo siamo detti più volte: il tedesco è per essenza un Impolitico. Apparentemente, lo è in modo radicale e connaturato: gli manca il senso della politica, come al daltonico manca la capacità di distinguere il rosso dal verde.

Già l’opposizione così importante per la cultura tedesca, perfino popolare, tra Kultur (tedesca) e Zivilisation (francese) rivela questa mancanza, perchè la Politica è sicuramente nel campo della Zivilisation (2). Intuiamo anche il motivo di questo vuoto: il tedesco è anti-romano. Da qui la singolare aspirazione appassionata alla classicità, nutrita di studi classici profondissimi, che tuttavia restano professorali e non trasformano la barbarie nativa. I tedeschi hanno dato eccezionali filologi classici – e basta pensare a Nietzsche, professore di greco – che tuttavia sono indifferenti a Roma, e alle arti che furono proprie e originali di Roma: il diritto e l’architettura, arti per eccellenza politiche, il che vuol dire: volte cordialmente alla società, a farla fiorire, a rappresentarla. Roma fu il contrario dell’isolazionismo mentale e della introiezione, del difetto di comunicazione così evidente nei tedeschi. Non è un caso se i loro filosofi abbiano trasformato la filosofia da dialogo socratico e platonico, discorsivo strumento essenziale alle domande ultime sulla vita umana, in una materia da professori, dotata di un suo gergo specialistico, che la rende inavvicinabile all’uomo comune. Anche questa è estrema impoliticità.

Ma, come buttò là Napoleone a Goethe, «la politica, è il destino» (3). Accade dunque che la Germania d’oggi, che dichiara convinta di non voler dominare nessuno, lo faccia comunque.
Eserciti sull’Europa, senza volerlo, una sorta di dittatura.

E la dittatura involontaria è la peggiore, perchè Berlino la esercita di fatto, ma operando per mezzo degli eurocrati non-eletti di Bruxelles, attraverso il braccio delle «direttive» e delle «normative» della Commissione Europea, nascondendosi dietro «il regolamento della Banca Centrale».

Così, vuole che noi tutti cattivi, che non abbiamo fatto i compiti a casa, scriviamo l’obbligo di bilancio nella Costituzione: ma sarà Bruxelles ad imporcelo. Dovremo mostrare i bilanci prima che li possa vedere il nostro parlamento, ma non è ai tedeschi che li mostreremo perchè ci diano il voto, ma a Barroso e a Van Rompuy. Lo Stato-nazione forte, l’unico rimasto in Europa, il solo che ratifica i trattati europei solo se la sua Corte suprema li ritiene omogenei alla sua Costituzione – ossia il solo Stato ancora sovrano – obbliga gli altri alla cessione degli ultimi brandelli di sovranità all’ambigua artificiale costruzione europeista.

Il tutto s’intende in perfetta buona fede, ancorchè con inumana fermezza, e persino con spirito di sacrificio europeista: perchè, come nota Evans-Pritchard, la Germania stessa su questa strada si avvia alla «castrazione della esemplare democrazia tedesca del dopoguerra», e lascia che «le funzioni del suo parlamento scivolino ai mandarini della UE».

Da britannico, dunque da ben dotato di senso politico, il giornalista del Telegraph pone con chiarezza il dilemma in cui si trova oggi la Cancelliera e con lei il popolo germanico:

«O deve immolarsi e smantellare lo Stato bismarckiano per la causa della moneta unica, o prepararsi a finanziare un ritiro ordinato dallUnione Monetaria (coi finlandesi, olandesi ed austriaci) in modo che il Sud possa respirare di nuovo (...). È una scelta terribile. (Ma) tutto il resto è rimandare, denegazione, offuscamento e auto-illusione. La Germania alla fine deve decidere».

Ma saprà mai decidere, la Germania? Un dubbio fondamentale sorge, quando si guardi a fondo la figura della sua personalità storica più rappresentativa, del suo poeta nazionale – che appunto incarna in sè tutte le virtù della nazione. Parlo di Goethe.

Ortega y Gasset, che filosoficamente si formò in Germania, a Goethe ha dedicato una analisi rispettosa e severissima.

Goethe
  Goethe
Goethe dotato di tutte le virtù: un carattere energico, netto e generoso; Goethe fornito di doni poliedrici, di poeta e di pittore, di naturalista, di drammaturgo e di scienziato. Goethe privilegiato da Dio con due doni che è quasi impossibile trovare uniti: «Limpetuosità e la misura. Lo Sturm del sentimento e dellimmaginazione, cose che non hanno le altre letterature europee, e daltra parte la misura, che possiedono senza misura (ciascuna a suo modo) Francia e Italia», scrive Ortega. Altri grandi tedeschi hanno lo Sturm, non sono che Sturm; solo Goethe ha questo, ed anche il «buon senso»: poteva dare una figura di tedesco e di europeo completo, mai vista prima. Un uomo eccezionale, la cui missione è «evidente: è apparso sul pianeta con la missione di essere uno scrittore tedesco col compito di rivoluzionare la letteratura del suo Paese e, attraverso il suo Paese, quella del mondo».

Ebbene: che cosa fa questo genio, questo titano equipaggiato di tutte le armi per lottare e vincere una battaglia epocale?

«A 25 anni accetta linvito del granduca e si chiude sotto la campana di vetro di Weimar», diventando poeta ufficiale di corte, consigliere intimo e quasi-ministro di «una ridicola corte lillipuziana».

Si tengano presente gli anni: sono gli anni di fuoco in cui Napoleone attraversa l’Europa e le sue armate giacobine la incendiano e devastano, in cui la Germania è svegliata, ed è tutta un fermento; in cui a Jena, a soli venti chilometri, Fichte, Schelling, Hegel appiccavano il grande incendio della filosofia tedesca, e in cui bruciava della sua propria fiamma Schiller.

Immaginate, sogna Ortega, cosa sarebbe stato Goethe se si fosse gettato nel mondo di allora, senza sicurezze economiche e sociali, errante e bohèmien, esposto alle asprezze, alle durezze, ed anche alle ostilità che incontra sempre un artista novatore.

«Che felicità per lumanità sarebbe stato un Goethe nellinsicurezza, pressato dalle circostanze, costretto ad esprimere le sue favolose possibilità intime!».

Invece no. Già a 25 anni, preferisce essere poeta di corte di un principato anacronistico da operetta. Alla vita, all’aspra aria della libertà e del rischio, preferisce la sicurezza. Quella vita che consiste nell’inesorabile necessità di determinarsi, di aderire al proprio destino esclusivo, in una parola: a rispondere alla propria vocazione. L’unica, irrevocabile missione che chiama ciascuno di noi a giustificare la propria esistenza.

È un errore credere che la «vocazione» sia indicata dalle proprie qualità naturali, dai propri «doni» innati. Al contrario, forse proprio Goethe dimostra che l’eccesso molteplice di doni può perturbare la vocazione. Vocazione è destino, esattamente come per Napoleone «la politica è il destino». Un destino che l’uomo resta però libero di tradire, a propria rovina.

I segni non mancano. Il «classicismo» di Goethe lascia, fra l’ammirazione, un senso di disagio strano. Basti ricordare la trama di Hermann un Dorothea: Hermann, figlio di ricchi mercanti di Mainz, va a portare vestiario ai profughi che hanno abbandonato i villaggi per fuggire alle armate napoleoniche. Qui si innamora di Dorothea, una servetta che assiste con coraggio e compassione una puerpera. Il padre di Hermann si oppone al matrimonio del figlio con una donna di classe inferiore... insomma, un dramma borghese sullo sfondo della tragedia storica (che Tolstoi, ad esempio, canterà con ben altro respiro) in ogni caso un fatto d’attualità, prosaico e prosastico. Ebbene: Goethe lo racconta in esametri, modellandolo sulla prima ecogla di Virgilio!

Commenta Ortega: «Lapparato ortopedico dellesametro interpone la sua attrezzatura estranea tra lispirazione originaria e lopera, costringendola ad una distanza, a una solennità e ad una monotonia che la indeboliscono, ma per contro le conferiscono la sub species aeternitatis».

Goethe vuol ergersi al disopra del tempo, costruisce la propria statua sub species aeternitatis; ma «pare che non riesca a fare nulla partendo da se stesso, ed abbia bisogno di immaginarsi un greco, un persiano: è la più sottile delle sue fughe: fuga in Olimpo».

Di qui la prima impressione che di Goethe ebbe Schiller: «Er ist an nichts zu fassen», «non cè niente per agganciarlo». O la descrizione di un francese, Frédérique Brion, che lo incontra nel 1795: «Unapatia amara posa sulla sua fronte come una nube». O l’autoritratto e amara confessione che Goethe rivolge a se stesso: «Così calmo e pensoso! / Qualche cosa ti manca, confessalo. / Sono contento / ma... non sono felice».

Ciò porta Ortega a porre la domanda: «Goethe fu al servizio della sua vocazione, o fu piuttosto un perpetuo disertore dal suo destino intimo?».

Domanda impertinente, indiscreta ad orecchie germaniche. Domanda che è impensabile fare, poniamo, a proposito di Dante, di Shakespeare, di Tolstoj o Dostojevski, persino di Herman Melville, tanto meno dotato di Goethe: sì, gli scrittori nazionali hanno, dolorosamente, o con spregio del pericolo e con sete d’avventura, conoscendo chi «come è duro calle lo scendere e 'l salir per l’altrui scale», chi la vita del mozzo su baleniere a vela, chi la deportazione in Siberia, hanno adempiuto alla loro vocazione: per questo appunto sono poeti nazionali, incarnano pienamente e profondamente il carattere e destino della loro comunità.

È un caso assolutamente unico, ed altamente anomalo, che sul poeta nazionale tedesco invece aleggi il dubbio. Come si può essere poeta della nazione, se si diserta la propria vocazione? Si può solo in un caso: che la nazione stessa sfugga alla propria vocazione più profonda.

Se Goethe avesse «vinto»la sua battaglia intima, oggi noi tutti parleremmo tedesco; invece studiamo l’inglese. Lo stesso si dica per la Germania: attrezzata di tutte le qualità e virtù per vincere e comandare, non fa che perdere: la vittoria e l’occasione storica.

Qualcosa continua a mancarle. La virtus di Roma.





1
) Dalla Treccani: «La coppia opposizionale trainante è, in Spengler e in una diffusa letteratura che ebbe un impatto perfino popolare, quella che vede la Kultur contrapporsi alla Zivilisation: la prima è la somma dei valori e dell’identità spirituale, in particolare di un popolo, la seconda è indice solo del progresso materiale di avanzamento scientifico e di padroneggiamento tecnico del mondo. Il pensiero di Spengler è stato a lungo considerato un momento di incubazione del conservatorismo europeo, schieratosi a difesa della Kultur (...). Non mancarono, comunque, estremizzazioni ideologiche, spesso di segno bellicistico, quando la Kultur fu fatta coincidere con lo spirito degli eroi e la Zivilisation con quello dei mercanti: da un lato si delineò l’interiorità tedesca, dall’altro l’utilitarismo britannico». E francese.
2) Si pensi per contrasto all’uomo politico per essenza, il conte Mirabeau. Arrivato all’Assemblea con una pessima fama di immoralista, seduttore di donne e corrotto bancarottiere (tutto vero) inventa sui due piedi, sia la concezione di una monarchia costituzionale, sia le forme e le istituzioni della democrazia parlamentare – una novità assoluta – e, fatto ancora più stupefacente, riesce a farle approvare dall’Assemblea che gli è ostile. Tutto con la forza della sua eloquenza e personalità vulcanica. Morto anzitempo lui, ebbero mano libera i moralisti, ossia Robespierre e Saint-Just. Di cui Mirabeau diceva: «Non ho mai adottato il loro romanzesco, nè la loro metafisica, nè i loro crimini inutili».
3) Non che Bonaparte facesse tesoro della sua massima; tant’è vero che per trascurare la politica ed usare esclusivamente la forza ha perso, e rovinosamente, con tutte le armate europee coalizzate contro di lui. Ma almeno aveva un barlume di coscienza di questo suo difetto, se si tenne a lungo a fianco, come ministro degli Esteri, il suo opposto caratteriale: la vecchia volpe zoppa, la faina incipriata, la «merde dans un bas de soie», ossia il principe Charles-Maurice de Talleyrand. Il quale gli ricordava spesso: «Maestà, con le baionette si può fare tutto, salvo una cosa; sedercisi sopra». E il «comando» politico consiste appunto nel sedere. Sul trono, sulla poltrona ministeriale, sul seggio della tranquilla legittimità riconosciuta. Ha a che fare con il persuadere, anzichè con il debellare, sconfiggere, schiacciare. Va da sè che «comandare» non è nemmeno fare la maestrina con la matita rossa e blu, e che bacchetta le mani degli scolari, come fa la Merkel a nome del popolo tedesco.