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Sul sindacato
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La messa in discussione del Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro, grande conquista dello Stato sociale di mercato, lo Stato dirigista nato da «destra» (Linz, Bismarck, Mussolini, ma anche Pio XI con la «Quadragesimo Anno») è la posta in gioco in tempi di federalismo e di destrutturazione dello Stato nazionale, processo che contraddistingue il passaggio dalla modernità al post-moderno e che chiamiamo globalizzazione.

La globalizzazione sta distruggendo lo Stato nazionale, che nel XX secolo è diventato anche «Stato sociale»: infatti non vi è stata affatto soluzione di continuità, in Italia, tra fascismo (corporativismo e sindacalismo nazionale) e democrazia del dopoguerra. Quindi, da studiosi di storia e da cattolici tradizionalisti ma sociali, che non rifiutano ad occhi chiusi quanto di buono seppe esprimere l’anteguerra come il dopoguerra, non ci scandalizziamo affatto se i sindacati sono diventati enti parastatali. Ci meravigliamo invece che se ne possano scandalizzare sindacalisti o gente di «destra» giustamente non favorevole al liberismo ed invece favorevole al dirigismo: lo Stato sindacale corporativista del fascismo aveva fatto dei sindacati e dei padronati esattamente degli enti pubblici parastatali inseriti organicamente in organi statuali come le corporazioni, ovvero i settori dell’economia nazionale. Questo sistema, pur democratizzato (come era negli auspici del socialista antifascista Bruno Buozzi e del fascista cattolico di sinistra Giuseppe Bottai), è continuato nel dopoguerra (vedasi l’articolo 39 della costituzione) benché in via di fatto.

I sindacati sono parastatali? Ed allora? Lo diciamo a tutti gli utenti che, come il direttore Blondet, giustamente ammirano l’economia regolata e dirigista, che oggi sta tornando a reclamare la sua verità dopo la grande sbornia liberista degli anni ‘90: attenti, dietro certi ragionamenti antisindacali si nasconde proprio l’ideologia liberista, individualista, anti-organicista che è il nostro principale nemico. Se si permette al capitale di mantenere la sua organizzazione mentre si sgretola il lavoro sindacalmente organizzato, favorendo il processo, prodotto dalla globalizzazione antinazionale, di autonomizzazione del lavoro, ormai sempre più individualista ed autonomo, si porta acqua al potere già abbondantemente cresciuto del capitale, a scapito del lavoro, e di conseguenza al potere del capitale finanziario. Come infatti si è visto in questi ultimi venti anni.

Qualcuno si lamenta dello strapotere sindacale? Ebbene la lamentela deve saper cogliere l’obiettivo. Perché se essa è generica allora è solo propaganda confindustriale. Se invece essa vuole essere indirizzata soltanto a certe arretratezze culturali della CGIL e dell’intera sinistra, dovute ad una ignoranza voluta o ideologica della storia del XX secolo, anche della storia sindacale e della cultura sindacale del secolo passato, ignoranza generata da un antifascismo incapace di far sua la grande lezione di un De Felice e di tanti altri storici che hanno ricordato a tutti le origini di sinistra del fascismo stesso, arretratezze culturali che al rovescio ammorbano anche la destra che ancora si sente erede del fascismo, allora la lamentela deve essere concettualmente espressa con precisione e con cognizione di conoscenze storiche.

In altre parole: la sinistra deve imparare dai suoi fallimenti riconoscendo che la storia del mondo del lavoro è parte della più ampia storia nazionale e che in questo senso, se certamente ha avuto un grande ruolo il sindacalismo di sinistra, un ruolo altrettanto grande ed importante lo ha avuto il sindacalismo cattolico e quello fascista. Bisogna saper cogliere da tutte questa esperienze la linea conduttrice comune abbandonando, per quanto possibile, le reciproche scomuniche ideologiche. Solo così può tenersi in piedi una difesa del mondo del lavoro adeguata ai tempi nostri, che sono tempi che un po’ alla volta, grazie alla crisi globale del liberismo, si andranno a caratterizzare per nuove forme di interventismo statuale in economia. E’ necessario capire che la globalizzazione ha cercato di mettere in discussione anche quel modello di «economia renana», o di «capitalismo sociale», o ancora di «Stato sociale di mercato», che è stato il modello europeo del dopoguerra opposto a quello del capitalismo individualista anglo-americano. Un modello, quello europeo, che tra le due guerre un presidente americano come Rosevelt tentò di importare anche negli Stati Uniti ma con molte limitazioni dovute alla cultura individualista e non statualista degli americani.

Era quello europeo il modello tedesco della co-determinazione o co-gestione e quello francese, gollista, dirigista o ancora quello italiano dell’economia mista pubblico-privato. Un modello che ha garantito sviluppo in nome di un patto sociale che alla lunga si è rivelato favorevole proprio per le classi meno abbienti. Se a differenza dei suoi genitori e dei suoi nonni, lo scrivente, e tanti come lui, ha potuto studiare e laurearsi tutto ciò si deve a quel modello. Un modello che fu solidamente impostato, per quanto riguarda l’Italia, dal fascismo già prima della guerra e che fu continuato dai governi democratici del dopoguerra. Questi ultimi, mentre facevano dell'odiosa, e ignorante, retorica antifascista (dialettacamente complementare alla vuota retorica del reducismo neofascista), portavano a perfezione tutti gli strumenti dirigisti ed interclassisti inventati ed impiantati dal fascismo. Compreso il CCNL, con valore giuridico erga omnes, che fu una delle più notevoli realizzazioni sociali del sistema sindacale e corporativista del fascismo. Quindi prima di straparlare a sproposito di queste materie sindacali ed economiche sarebbe il caso di approfondire almeno un po’ la storia che abbiamo alle spalle. Una storia che ha visto anche i suoi errori (e quale storia, quale sistema politico, quale cultura non ha prodotto anche errori?) ma che non è possibile censurare totalmente in preda a convulsioni «rivoluzionarie» come è stato fatto in Italia da tangentopoli in poi, con il risultato di portare acqua al mulino dei poteri forti globali come si è visto accadere a decorrere dall’indomani del 1989.

Diceva Spengler che le rivoluzioni lavorano sempre per il capitale. Forse non ci siamo resi conto di aver gettato il bambino insieme all'acqua sporca e che continuiamo a farlo accecati dalla nostra incapacità, di destra e di sinistra, di fare i conti, tutti e senza censure ideologiche, con la nostra storia, riconoscendoci reciprocamente torti e meriti, ragioni ed errori. E’ il settarismo anti-religioso o pseudo-religioso della sinistra che ci rende immune da ogni utopia «giacobina». Tuttavia, da cattolici, non lasciamo il campo sociale alla sinistra cedendo alle sirene del liberismo come fanno tanti altri cattolici oggi troppo affascinati dal modello americano. Rivendichiamo l’esistenza di una «cultura sociale» che affonda le sue radici nella Tradizione metafisica del Cattolicesimo e che, a certe condizioni, può convivere anche con regimi della modernità come fu quello fascista o come quelli democratici di stampo sociale e non meramente liberale.

Il lettore P.T. nel suo articolo «Sul sindacato, parla un lettore sindacalista» a proposito dell’accordo separato sembra credere che l’accordo preveda l’abolizione del contratto nazionale e l’introduzione della contrattazione individuale con il lavoratore; se invece si prende il testo dell’accordo, all’articolo 2 si trova scritto: «Il contratto nazionale di lavoro di categoria (…) avrà la funzione di garantire la certezza dei trattamenti economici e normativi comuni per tutti i lavoratori del settore ovunque impiegati nel territorio nazionale»; con sorpresa, credo, invece non si troverà traccia della contrattazione individuale. Quel che però il lettore P.T. non ha messo in debito rilievo è che, garantito sul piano nazionale il trattamento base per tutti, poi viene devoluto al contratto aziendale e/o individuale il trattamento accessorio legato alla produttività. La cosa non sarebbe male, anzi essa è sempre stata negli auspici di quel modello di economia renana, co-determinata, al quale ci riferivamo in precedenza, nonché negli auspici della cultura sindacale cattolica o nazionale, se non fosse per il fatto, un piccolo ma rilevante particolare!, che il trattamento accessorio anziché essere concepito come una effettiva partecipazione agli utili è in realtà concepito come la classica carota posta sul bastone per far correre l’asino. Se si dà una spulciata al nostro articolo, «Dicotomie ingannevoli: Bush/Obamo, Confindustra/CGIL», del 27 gennaio 2009, ed anche ai commenti postati sotto di esso, si capirà il senso di questa nostra critica.

La «partecipazione agli utili», un istituto proprio del sindacalismo cattolico e di quello fascista, ripreso persino dalla costituzione antifascista, per essere vera «partecipazione» deve essere intesa, ferma rimanendo in via principale la priorità del salario e della contrattazione nazionale ed integrativa, come «prelievo a favore del lavoro di una quota dell’utile netto aziendale con contestuale sottrazione di quella quota al capitale». Il tutto in un’ottica di «socialità» -o se si vuole di «socializzazione» – interclassista, ispirata alla leale collaborazione e cooperazione co-gestionaria tra capitale e lavoro, pur nel rispetto dei relativi ruoli. Invece, nel nuovo accordo sulle relazioni industriali tra confidustria, governo e sindacati, si lega il salario, o gli aumenti di salario, alla produttività senza meglio specificare cosa si intende per produttività e come essa si calcoli. Ossia se per produttività si intenda l’utile netto aziendale, da redistribuire in parte ai lavoratori, o, invece, come sembra più probabile, il mero aumento di prodotto che farebbe scattare aumenti salariali già prestabiliti nell’accordo contrattuale aziendale; sicché se non si registrano aumenti di produttività non scatterebbero gli aumenti salariali. Si dice che in tal modo si aiuta l’economia a concorrere ed a riprendersi. Sarà pure vero, ma lo è in un’ottica liberista ossia di sfruttamento del lavoro da parte del capitale, per cui il lavoratore per conseguire gli aumenti salariali, che nel sistema del contratto nazionale sono invece conseguiti dalla contrattazione stessa, deve subordinarsi ad un maggior onere di lavoro.

In sostanza si scarica sui lavoratori parte del rischio aziendale, immoralmente sollevandone il capitale. Bella cosa! Detta poi da un sindacalista...! Ripetiamo: la vera partecipazione agli utili, quella che era negli auspici della cultura sindacale cattolica e fascista, ma anche del sistema svedese o tedesco al quale si riferisce anche il lettore, è altra cosa. Essa è concepita non come un sostitutivo del salario e della contrattazione nazionale, che devono rimanere il perno fondamentale del sistema di relazioni industriali, ma come un «di più», un’aggiunta di tipo associativo, tra capitale e lavoro, al sistema della contrattazione nazionale (Pio XI nella «Quadragesimo Anno» indicava questa «aggiunta» con il concetto della necessità di «temperare il contratto di lavoro con quello di società»: temperare non sostituire o minimizzare il contratto nazionale!). In tale ottica, quella della vera partecipazione agli utili e della vera cooperazione, il gioco sarebbe favorevole principalmente al lavoro che si vedrebbe attribuire, oltre e dopo il salario debitamente e nazionalmente contrattato anche nei suoi aumenti, ossia in aggiunta al salario, una quota dell’utile aziendale netto. Questo allo scopo di stemperare la conflittualità sociale in un quadro di socialità nazionale e di economia regolata dirigisticamente.

Il capitale, che perderebbe parte dell’utile aziendale, ne ricaverebbe, come contraccambio, quella pace sociale di cui il mercato stesso ha sempre bisogno per funzionare. Invece nel sistema ora proposto dal governo di Berlusconi, in accordo con Confindustria e con la passiva accettazione di parte del sindacato, non si otterrà né la pace sociale né la conservazione del patto sociale, che fin qui ha garantito la stessa vita nazionale, perché questo nuovo sistema, ispirato come è all'individualismo e ad un’idea iperconcorrenzialista di mercato, da un lato renderà ancora più evanescenti i legami di corpo, comunitari, tra i lavoratori stessi, e dall’altro lato aumentando l’individualismo nella società aumenterà ancor di più la conflittualità sociale che anzi diventerà addirittura feroce e microconflittuale ossia tra gli stessi singoli individui.

E’ il trionfo della concezione liberale, ossia «contrattualista», della società, per la quale non esiste la società come Comunità Politica e Sociale, che precede gli individui, e gli esseri umani starebbero insieme sostenuti soltanto dal reciproco interesse, sicché quando gli interessi contrastano la convivenza stessa deve sciogliersi per essere ricostituita altrove, ossia dove l’interesse egoistico di ciascuno richiama ognuno. E’ una visione dell’essere umano nomade, solipsista e senza alcuna fede e radicamento comunitario. Si tratta nient’altro che dell’utopia, quella che ci ha portato alla crisi globale, della «mano invisibile» del mercato che tutto spontaneamente dovrebbe aggiustare mediante la feroce competitività di tutti contro tutti (l’hobbesiano «homo homini lupus»).

E’ la stirneriana «unione degli egoisti». No! Non è affatto una bella prospettiva. E’ una prospettiva, alla lunga, suicida. E’ il relativismo, il soggettivismo, il permissivismo, applicati non solo al piano etico ma anche a quello sociale. Come cattolici tradizionali rifiutiamo, senza dubbi, una tale prospettiva e per quel che è nelle nostre possibilità la combatteremo. E non importa se al nostro fianco dovessi ritrovarmi anche gente che viene da sinistra. Non è questo che ci fa perdere la nostra identità, che dipende da scelte metafisiche.

Piuttosto invitiamo tutti gli altri cattolici a riflettere sulla conseguenzialità alle proprie scelte metafisiche delle scelte sul piano sociale e ricordiamo a tutti loro, sulla scia di un «reazionario», ma attento al «sociale», come Donoso Cortés, che il nemico principale del Cattolicesimo è il liberalismo, cui consegue il liberismo, mentre le ideologie di sinistra sono soltanto una risposta sbagliata al liberal/liberismo. Una risposta che nasce senza dubbio dall’innato, per legge di natura, senso di giustizia, ma che è destinata, come si è visto, al fallimento storico proprio perché fondata sugli stessi presupposti immanentisti ed antimetafisici del liberalismo.

Luigi Copertino



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