La grande serenità plutocratica
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D’accordo, Berlusconi resta il primo degli sfondati, 48 milioni di euro di reddito annuo. Ma anche il sobrio premier che ci è stato dato, il professor Mario Monti, si segnala con il suo milione e mezzo di euro. Non credo che negli stessi Stati Uniti il presidente di un’università sia pur privata, abbia mai potuto godere un simile emolumento. E che dire di tutti quei parlamentari-avvocati da un milione e passa? Giulia Bongiorno (FLI) dichiara 1.720.936; l’avvocato Maurizio Paniz (Pdl) 1.482.270. Donato Bruno, altro avvocato Pdl, 1.751.830. Il famosissimo avvocato Ghedini, che non raggiunge il milione (per l’esattezza, 993.901), pare quasi povero. Poi c’è la massa dei deputati e senatori: da 260 mila a 160 mila euro l’anno, più case, terreni, azioni, Porsche, BMW e barche. Modesti stipendi, al confronto: ma è molto istruttivo constatare – ancora una volta – che sono i rappresentanti del popolo che, quando ha 20 mila lordi l’anno, ossia dieci volte meno di quel che prende Fini, ritiene di avere un buon salario; e dove i giovani son fortunati se toccano 9 mila. E dove sono 7 milioni i pensionati sotto i mille euro mensili.

Questa differenza, questo «spread» del reddito ci dice il nome della forma di governo che ha assunto l’Italia: plutocrazia. I ricchi sono tutti là, al potere, e noi tutti qua. Loro tutti al riparo sotto i loro ombrelli d’oro; noi, tutti fuori sotto la grandine della concorrenza globale e sotto la morsa fiscale dettata dai tedeschi. Loro, garantiti col posto fisso miliardario; noi, esposti alla recessione globale che diventa la più grave depressione della storia.

Loro al sicuro, noi no. È la plutocrazia dei parassiti pubblici.

I ricchi sono tutti in parlamento o al governo – e chi non c’è ci vuole entrare, come il Montezemolo. E se non nel governo, nelle sue vicinanze – pensate al capo della Polizia che si accaparra 3 volte più del capo dell’FBI, al direttore dei Monopoli di Stato che prende 469 mila euro ancorchè i Monopoli non esistano più (chissà come s’annoia, il poveretto). Pensate ai partiti defunti come la Margherita, dove il tesoriere s’è potuto fregare 23 milioni di rimborsi elettorali sovrabbondanti senza che i capi del partito se ne accorgessero, tanto era superflua quella sovrabbondanza. Qualcosa di simile c’è attorno alla defunta AN, dove i separati si sono spartiti 117 milioni di eredità elettorale, e pare che 43 milioni manchino all’appello. Craxi si giustificò dicendo che «far politica costa»; ma i nostri non fanno più nemmeno politica, tanto che non sanno cosa farsene dei soldi, li investono in Tanzania, li rubano in vacanze e cene, ci comprano villoni, ci mantengono amanti, se li tengono nel materasso.

Non hanno bisogno di far politica, del resto. Non più. Hanno vinto, spero ve ne siate accorti.
Schivato sine die il pericolo di tagli agli emolumenti parlamentari, azzerato il vago proposito di ridurre il numero dei deputati, o almeno delle provincie o dei Comuni o delle partecipate; uccisa prima di nascere ogni velleità di riforma dei rimborsi elettorali; mai nemmeno toccato lo scandaloso costo delle Regioni, con relative malversazioni; scongiurato ogni serio discorso contro la corruzione politica, sull’intreccio politica-affari e politica-criminalità; rimandata ad un nebuloso futuro la revisione della spesa pubblica (spending review); schivata di comune accordo una riforma elettorale che mettesse fine a votazioni di nominati dai partiti; rimosso insomma ogni serio pericolo – per loro – di cambiamento delle cose, la plutocrazia tiene il potere con saldissimi artigli.

C’è stato un piccolo golpe, il presidente ci dato un governo non eletto che godesse la fiducia delle banche internazionali; è inutile ripeterlo. Il fatto istruttivo è che questo governo non eletto è sostenuto dal parlamento. Non c’è più né destra né sinistra. Finito il conflitto politico, fino a ieri (in apparenza) acerrimo. C’è una maggioranza bulgara che,comunque, dice sì a tutto quel che il governo fa: e ci credo, conviene a tutti risucchiare i 260 mila annui il più a lungo possibile; mica vorrete fare la crisi di governo.

Sicchè i nostri cosiddetti rappresentanti, ogni giorno legittimano il governo del golpe. I media, poi, lo applaudono. Non c’è ormai talk show dove non si esprima sollievo e gratitudine per «quel che ha fatto Monti per il Paese».

Ha fatto quel che da sempre fa la plutocrazia: tartassare i poveri e stroncare i ceti medi, perché siano garantiti gli emolumenti miliardari dei ricchi di Stato. La sola «riforma» del governo Monti è quella delle pensioni: con l’effetto di stroncarle e ritardarle, calpestando i diritti acquisiti. Inoltre, lui stesso si vanta di aver introdotto, con l’IMU sugli immobili, «una piccola patrimoniale»: e «patrimoniale» significa confisca sulla prima casa, su un bene che non dà reddito, e dove la tassa viene calcolata su un «valore» rivalutato d’autorità, proprio mentre i valori immobiliari cadono del 20-30%, perché siccome le banche non concedono mutui, il mercato del mattone è diventato illiquido.

Ora, tassare un cespite illiquido, che non può essere venduto per pagare l’imposta, e per giunta su un valore enormemente superiore a quello reale di mercato, è una di quelle oppressioni fiscali che gridano vendetta al cospetto di Dio. Colpisce specificamente i piccoli proprietari poveri, quelli che hanno la casetta in cui abitano, ma non hanno abbastanza denaro per far fronte alla supertassa. Seguiranno pignoramenti e sequestri? Il genio aguzzino di Befera ci penserà.

Invece della necessaria massiccia riduzione della spesa pubblica (che avrebbe limato le loro ricchezze), un aumento mai visto dell’esazione tributaria. È tutta lì l’azione del governo. Il resto, fumo negli occhi, propaganda: le «liberalizzazioni» non liberalizzano niente, su «l’articolo 18» si combatte una battaglia finta, non si possono urtare i sindacati e i loro prelievi da un miliardino annuo dalle nostre tasche.

La stangata di novembre ha devastato l’economia reale. «Potete chiamarlo decreto Salva Italia», ha concesso magnanimo Monti. E tutti i gionalisti di corte, devoti a salmodiare «Salva Italia! Salvitalia!». Ma i conti pubblici sono peggio di prima. Il deficit statale era di –10,3 miliardi il gennaio-febbraio 2011. Nel gennaio-febbraio 2012, è stato di –10,7. Le spese pubbliche, da gennaio 2011 a gennaio 2012, sono cresciute del 2%. E nonostante la torchia fiscale aggravata, il gettito diminuisce perché l’asino dell’economia reale ha la schiena sfondata: avviene così nelle plutocrazie, in quelle più retrive che tirano il collo all’oca delle uova d’oro. Le richieste di mutui e fidi sono crollate a –44%, la produzione industriale a –2%, gli ordinativi sono a –5,6, le ore di cassa integrazione sono salite a +16,8 %.

Ma – ci ripetono i giornalisti di corte – «Monti ha fatto calare lo spread», adesso il debito pubblico costa meno. «I mercati premiano il governo!». Piccolo particolare: i «mercati» dei titoli non esistono più. Sono stati sostituiti dalla Banca Centrale Europea, che ha creato dal nulla un miliardo e l’ha prestato alle banche: no, non per rilanciare la crescita, ma perché possano rifiorire con la più semplice operazione di carry trade mai vista, ossia acquistando coi fondi ottenuti all’1% di interessi i titoli di Stato di Italia e Spagna, che rendono il 5%.

Tutto ciò, ovviamente, non risana l’economia. Le centinaia di miliardi «investiti» nei debiti pubblici fanno mancare le decine di miliardi di cui abbisognano le aziende per funzionare, e per pagare i salari.

È una partita di giro fra plutocrazie. E non è stato Monti, è stato Draghi a mettere a segno il colpo. Quel Draghi che ha annunciato al Wall Street Journal: «il modello sociale europeo è morto», e il posto fisso a vita è «superato» in Europa una volta per tutte.

Con quelle frasi, è la Plutocrazia che annuncia la sua vittoria. Nel momento stesso in cui crea mille miliardi per le banche, il plutocrate esige ed impone l’austerità ai lavoratori – che pagheranno quei mille miliardi, sotto una forma o l’altra. Quella plutocrazia che fulmina chiunque proponga una monetizzazione del debito fatta dagli Stati per i popoli, monetizza senza batter ciglio, astronomicamente, per gonfiare la finanza-zombi e tenerla in vita.

Hanno vinto, e sono olimpicamente sereni. Christine Lagarde del Fondo Monetario ha annunciato che l’economia globale ha fatto un passo indietro dall’abisso. Il titanico intervento della Banca Centrale ha «calmato i mercati». «Le paure estreme sono alle nostre spalle», s’è rallegrato Frédéric Oudéa, capintesta della Socièté Generale nonché capo della Federazione Bancaria, ossia l’ABI francese. Naturalmente, nulla è stato davvero risolto con il gran trucco di Draghi. Quella partito di giro fra plutocrati fatta coi soldi nostri, col lavoro delle generazioni future da cui estrarranno i mille miliardi oggi creati, non corregge i gravissimi squilibri provocati dalla zona euro, e che la moneta unica non farà che amplificare. La politica di austerità imposta nella prigione dei popoli non farà che aggravare il male.

Ma, dice Oudéa, «se restano nel tempo problemi strutturali, ci siamo ottenuti un po’ di tempo per lavorare». Notate quel «noi»: banchieri e governi sono oggi dalla stessa parte, e i finanziari sono certi che i governanti non faranno mai riforme che mettano in forse i super-profitti finanziari. Sono i due bracci della plutocrazia. Fraternamente, definitivamente uniti.

Dovevamo fare la rivoluzione. Non ne siamo stati capaci, e lorsignori ci hanno anticipato: l’hanno fatta loro, dalle loro stanze felpate, dalle loro poltrone dorate di ricchi sfondati. Sono al Parlamento, al governo, al sottogoverno. Nessuno li sloggerà. Ricevono doni principeschi, persino a loro insaputa. Si fanno derubare a loro insaputa dai loro capi-bastone, perché i soldi sono tanti che è impossibile controllarli. Sono sereni, tranquilli. Nulla li minaccia. Nessuno li critica.

I giornalisti cantano le loro lodi. Il popolino che loro hanno rovinato li adora, se è vero che una «lista Monti» alle elezioni – secondo un sondaggio di Repubblica – otterrebbe il 25% dei voti, sarebbe il primo partito. È sempre stato così nelle plutocrazie: le folle di straccioni miserabili, i servi della gleba, si sono sempre tolte il cappello, sorridenti e felici, quando passava la carrozza del Signore e del Re.

Hanno avuto paura, ora non più.

«Salvitalia! », grida il popolo quando passano lorsignori, «Salvitalia! », salmodiano i giornalisti di corte mentre l’asino legato al mulino ha la schiena stroncata.

Godiamoci almeno la ritrovata grande serenità del dibattito politicheggiante, l’olimpica armonia e lieta distensione che sempre accompagna le vittorie della Plutocrazia. È tornato il disteso ‘700, quello dove la dottrina economica dominante era quella dei «fisiocrati», per i quali esisteva un ordine naturale nella società che voleva i poveri poverissimi, e i ricchi ricchissimi. I fisiocrati volevano, moderati e sereni, che si lasciasse libero campo alle «forze naturali» del mercato e delle grandi fortune. Nelle società fisiocratiche, si guadagnava più speculando che producendo. Si era liberisti e anti-protezionisti.

Era quella serenità per cui, quando in Irlanda il raccolto delle patate andava a male e cominciavano a morire di fame milioni di irlandesi, i fisiocrati a Londra decidevano – equanimi ed imparziali – di non mandare là aiuti alimentari, perché «avrebbero turbato il naturale corso dei prezzi». La carestia faceva rincarare le patate alle stelle, e ciò era giusto, perché i produttori di patate – se sopravvivevano – avrebbero coltivato di più, attratti dal maggior profitto l’anno seguente. Erano epoche belle e serene, senza le irrequietezze della politica democratica. Piene di buona educazione e di buoni sentimenti.

Durante la carestia irlandese del 1844 (un milione di morti), si commosse un selvaggio, il sultano ottomano Abdul, che si disse intenzionato a inviare 10 mila sterline agli affamati irlandesi; educatamente, la regina Vittoria gli fece dire di mandare solo mille sterline, dal momento che lei stessa – lei, tanto umana – ne aveva mandato solo 2 mila. Nonostante ciò, i sultano mandò in segreto tre navi cariche di derrate, che il governo britannico cercò di bloccare. Era la civiltà, quella.



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