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Pulp fiction archeologica
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L’antica città di Ur è stata sepolta sotto una pista dell’US Air Force in Iraq. Il palazzo di Nabuccodonosor è scomparso sotto un vasto parcheggio costruito dagli americani. Il museo di Baghdad, che conservava le imponenti e raffinate testimonianze della più grandiosa e antica civilità semitica, l’assiro-babilonese, è stato come noto saccheggiato sotto gli occhi (e con il contributo) dei soldati americani; i suoi tesori sono solo in parte recuperati, e sono sparsi nel mondo, preda del mercato nero antiquario. Altri siti importanti sono stati sacrilegamente bombardati.

L’opera distruttiva dei bulldozer contro i siti di Ninive e Babilonia è così sistematica, da farla ormai ritenere una politica deliberata.

Come sappiamo, c’è una piccola nazione che fonda la sua pretesa su una terra grazie al suo glorioso passato, descritto nella Torah. L’impero di Salomone, figlio di David, che secondo il biblico Libro dei Re (4,21) e Genesi (15,18), si stendeva dal Sinai all’Eufrate, legittima la pretesa dei più fanatici ebrei su ben più ampi spazi: lo «Eretz Israel», il grande Israele. La Bibbia racconta di come Salomone costruì il Tempio e il palazzo, di come disponesse di 40 mila stalle per i suoi cavalli  e 1.400 carri da guerra.

Purtroppo, l’archeologia - mentre ha identificato e scavato in quell’area gli imponenti resti assiri, egizi e persiani - non trova tracce dell’impero salomonico durato, secondo la Bibbia, settant’anni. E non solo perchè il fantastico impero di Salomone coincide, nel racconto biblico, con una provincia effettivamente esistita, ma dagli assiri e poi dai persiani, la terra di Abarnhara («oltre il fiume»).

Gli antichi imperi lasciano piramidi, zigurrat, statue colossali, immensi palazzi, fortificazioni  potenti e iscrizioni monumentali a gloria dei loro imperatori; lasciano una quantità di oggetti preziosi che testimoniano un alto e raffinato livello di vita. Lasciano sigilli reali.

Lasciano, per la gioia degli archeologi, straordinari archivi di Stato, opera di burocrazie ben organizzate, altamente alfabetizzate e fonti inestimabili di notizie. Le oltre 400 tavolette di Tel El Amarna sono lettere diplomatiche inviate o ricevute dagli uffici del faraone Amenhotep III e di suo figlio Akhenaton: in caratteri cuneiformi (la lingua internazionale dell’epoca), ci informano dei rapporti dell’impero d’Egitto con quello babilonese e l’hittita durante il 14mo secolo avanti Cristo. Contengono anche  la corrispondenza con i governanti delle città di Canaan, e dimostrano - proprio nel periodo in cui gli ebrei, fuggiti dall’Egitto, avrebbero conquistato a fil di spada Canaan - che quella terra, l’attuale Palestina,  era di fatto una provincia egiziana. A sud del Mar di Galilea - ben addentro a Israele - è stato trovato un avamposto egizio con statue, monumenti e iscrizioni geroglifiche ordinate da Seti I (salito al trono nel 1294 avanti Cristo), dal grande Ramsete II (1279-1213), e dal terzo Ramsete, che governò fino al 1153. Almeno Ramsete II, il più forte faraone e il più espansionista della storia, avrebbe dovuto accorgersi che nella sua provincia di Canaan,  presidiata da sue guarnigioni, governata da notabili suoi vassalli (in parte fenici o filistei, ossia palestinesi), era in atto la conquista di un popolo estraneo, così potente e deciso da costituire, un secolo dopo, un regno unitario. Invece, nulla.

 Di fronte a questi vistosi segni del passato altrui, ai tori alati assiro-babilonesi pesanti centinaia di tonnellate, ai palazzi variopinti di Ciro e di Serse, alle iscrizioni geroglifiche che riempiono intere muraglie e statue colossali egizie, gli israeliani d’oggi cercano disperatamente di raggranellare qualche segno significativo del loro passato glorioso, che sia almeno sufficiente a riempire una scatola da scarpe. E non ci riescono.

pulp-fiction-archeologica_1.jpgNel 2001 lo Israel Museum acquistò (si dice per 10 milioni di dollari), una tavoletta di pietra che recava una preziosa iscrizione in ebraico antico, che diceva: «Santo denaro (ossia offerta) per comprare pietre squadrate, legno, rame e lavoro onde compiere il dovere della fede», e finiva con una benedizione: «il Signore  protegga il suo popolo benedicendolo». Il reperto fu immediatamente assunto come la conferma di due passi del Secondo Libro dei Re (12, 1-6 e 11-16) dove si narra come il pio re Johash (o Giosia), regnante dall’836 al 798 avanti Cristo, discendente di Davide, avesse ordinato importanti riparazioni al Tempio. La tavoletta, 30 per 60 centimetri, se non altro provava che il tempio costruito da Salomone un paio di secoli prima, esisteva. Una quantità di famosi archeologi israeliani e americani (fedeli protestanti, convinti della storicità dell’Antico Testamento) arrischiarono la lor reputazione dichiarando l’autenticità del reperto (1).

Non tutti però. Il professor Nadav Neeman, storico all’università di Tel Aviv, il suo collega Ed Greentein, esperto di lingue semitiche antiche, ed altri, espressero forti dubbi proprio sulle espressioni linguistiche dell’iscrizione. Qui basterà citare il reciso parere di un altro linguista biblico, professor Avigdor Horowitz: «Chi ha stilato questa iscrizione è una persona che pensa in ebraico moderno. Un ebreo antico, biblico, la troverebbe ridicola».

Seguì un ampio dibattito fra esperti sulle opposte sponde. A decidere il caso scientifico fu la Polizia israeliana, che il 22 luglio 2003 arrestò tale Oden Golan, il proprietario iniziale della tavoletta, nella cui abitazione (si legge nel rapporto) «sono stati trovati strumenti d’incisione, pietre e falsi parzialmente completati». Per inciso, Oded Golan era anche il proprietario, e tentato venditore, del famoso «sarcofago di Giacomo», che un’iscrizione incisa su un lato affermava contenere i resti del «fratello» di Gesù, il capo della prima Chiesa a Gerusalemme . Tutti i giornali hanno riportato con toni esaltati l’importante ritrovamento: non hanno riportato che la «tomba di Giacomo» risultò poi essere un sarcofago di epoca crociata, a cui era stata aggiunta l’iscrizione.

Anche la pietra della famosa tavoletta di re Giosia risultò essere di un tipo che non si trova in Palestina; ma che si trova in abbondanza a Cipro, tanto che macigni del genere erano usati come zavorra dalle navi crociate.

Anche più strana la storia del «melograno» scolpito in avorio, comprato dal museo di Israele col versamento di 550 mila dollari in un conto cifrato svizzero: un piccolo oggetto, certamente il pomo che ornava  un bastone sacerdotale, di per sè alquanto comune (il melograno era il simbolo di Asherah, una Astarte semita molto venerata in Palestina e attestata nella Bibbia), ma che un’iscrizione rendeva prezioso testimone  dell’epoca di Salomone.

pulp-fiction-archeologica_2.jpgIl prezioso reperto era stato scoperto in una bottega antiquaria di Gerusalemme nel lontano 1979, da un esperto di fama internazionale, l’epigrafista francese Andrè Lemaire. Che non aveva potuto comprarlo (il bottegaio chiedeva 3 mila dollari) ma ne aveva fatto delle foto in bianco e nero, e ne aveva fatto oggetto di un dotto articolo sulla Biblical Archaeological Review nel 1984. Anche qui, la scritta si riferiva a riparazioni del Tempio: ordinate, stavolta, da Salomone. Dunque era esistito!

Da allora, il melograno d’avorio dev’essere passato per molte mani; dopo anni, è comparso in una mostra a Parigi, e infine qualcuno l’ha offerto allo Israel Museum per 600 mila dollari. La donazione di un anonimo miliardario ebreo consentì l’acquisto (con lo sconto di 50 mila dollari). Il Museo lo espose in una sala dedicata esclusivamente al piccolo oggetto (quattro centimetri), illuminandolo con un raggio diretto. Il primo giorno d’esposizione, una folla immensa si mise in coda per vederlo, tanto che il museo dovette restare aperto a notte inoltrata.

Nel 2004, una commissione scientifica nominata dalla Israel Antiquities Authority esaminò meglio l’oggetto e sanci: è un falso. Il melograno d’avorio era databile al 1400 avanti Cristo, ossia era di 500 anni più antico dell’impero di Salomone, presuntamente fiorito nel decimo secolo avanti Cristo  Ma i veri credenti non si sono scoraggiati: se l’oggetto era più antico, l’iscrizione poteva pur sempre essere stata incisa sotto Salomone.

La disputa  fra esperti continua, e si allarga, tanto da aver preso il nome di «Re-Examination Dispute». Nel gennaio 2007 la Biblical Archeology Society ha  riunito una nuova commissione, chiedendo a numerosi docenti di riesaminare non solo il melograno, ma una quantità di iscrizioni diverse. C’è anche una cosiddetta «stele di Tel Dan», in cui si legge la parola «bytdwd», che parecchi studiosi vogliono tradurre come «casa di David»: se fosse autentica, sarebbe l’unica iscrizione trovata in Palestina a menzionare re Davide, padre di Salomone. Più precisamente, sarebbe la sola allusione a Davide trovata al difuori della Bibbia, quindi la sola conferma  archeologica del monarca biblico. Ma è autentica?

pulp-fiction-archeologica.jpgCome ha notato Israel Finkelstein, il primo e più celebre archeologo israeliano, «troviamo rarissimamente oggetti con iscrizioni nei nostri scavi in Palestina, eppure il mercato delle antichità ne produce a carrettate». Il professor Yuval Goren, geo-archeologo della Tel Aviv University, ha rilevato che i musei del mondo sono traboccanti di oggetti «biblici», specie sigilli di creta facilissimi da fabbricare, comprati per migliaia di dollari, la cui provenieneza è ignota (non si sa da quali scavi, nè da quali strati), sicchè tutti vanno ritenuti falsi fino a prova contraria; oggetti creati per confermare nella fede i credenti.

La Biblical Archaeology Society ha persino pubblicato il dibattito fra gli esperti che ha radunato, con il titolo significativo: «Jerusalem Forgery Conference», ossia «conferenza sulla falsificazione». Il già citato Yuval Goren ha rifutato di partecipare alla conferenza, ed ha scritto nella lettera di rifiuto: «Ciò di cui non abbiamo bisogno è un’altra dose di ‘pulp fiction’ archeologica» (3).

Sì, perchè, come sanno gli archeologi serii, settant’anni di scavi alla ricerca di conferme tangibili del racconto biblico hanno dato risultati esattamente contrari. Anzi, ogni nuova scoperta smentisce il mito fondatore di Israele, la sua pretesa sulla terra palestinese come retaggio biblico. L’esodo accadde davvero, ma i fuggiaschi furono non gli ebrei ma gli hyksos, dei semiti che avevano occupato parte del delta del Nilo, e furono cacciati dall’armata faraonica nel 1600 avanti Cristo, ossia secoli prima dell’esodo biblico (che sarebbe avvenuto verso il 1200avanti Cristo); gli hyksos adoravano il dio Seth, non YHWH.

La conquista di Canaan non avvenne. Del regno di David non c’è un solo segno archeologico sicuro; dell’impero di Salomone non una iscrizione o un monumento. Il Muro del Pianto è ormai sospettato di non essere nemmeno il contrafforte del tempio ricostruito da Erode, ma parte di Aelia Capitolina, costruita dall’imperatore Adriano dopo aver raso al suolo quel che restava del Tempio in seguito alla rivolta di Bar Kochbah del 132 avamnti Cristo: parecchie pietre sono decorate a cornice, come usavano i romani; i pii ebrei dunque piangono davanti a un segno dell’odiata Roma.

Persino gli eroici difensori di Masada, i cui resti sono onorati dagli israeliani come eroici guerrieri,  stanno subendo un cambio d’identità: quei resti umani sono sepolti fra ossa di maiale, il che è poco kosher e molto romano; forse quelli che gli ebrei piangono sono, in realtà, i legionari caduti nell’assedio.

Abbiamo detto che il melograno fu un simbolo di Ashera, la dea della fertilità, venerata nella palestina pre-ebraica. Di recente, a Kuntiljet Ajrud (sulle colline del Negev) e a Kirbet el-Kom (nella striscia pedemontana della antica Giudea) si sono scoperte iscrizioni votive in ebraico che onorano «Jehovah Shomrom e la sua Ashera», e «Jehova Teman e la sua Ashera». Sono iscrizioni dell’ottavo secolo, quando la Bibbia ci dice che vigeva il più rigido monoteismo ebraico di Stato: evidentemente, invece, allora gli ebrei attribuivano a YHWH una moglie dea. Un po’ come gli indù associano a Shiva la dea Kali. L’inventore del monoteismo fu il faraone Amenofis IV, nel 1353 avanti Cristo, che cambiò il nome in Akhenaton e impose - per breve tempo - l’adorazione dell’unico dio, rappresentato dal disco solare. Il monoteismo ebraico cominciò a stabilirsi in tempo molto più tardo, quasi certamente opera dei sacerdoti di re Giosia che lo imposero con una riforma religiosa attorno al 600 avanti Cristo.

Anzi, la forma più rigorosa di monoteismo esclusivistico, con l’endogamia obbligatoria e le complesse regole della purità, risalgono ad un’epoca ancora più recente: quando un gruppo di «esiliati» in Babilonia fece ritorno alla terrasanta e ricostruì il tempio, per graziosa concessione di Ciro il Grande, che aveva conquistato l’impero babilonese. «Una politica ben calcolata», scrive Finkelstein, «con cui i persiani si garantivano i loro interessi». Sia Ciro che suo figlio Cambise «favorirono la ricostruzione di templi in qualunque altro luogo del loro vasto impero», perchè i templi, in quanto destinatari di offerte, erano importanti centri di esazione dei tributi.

Ciò spiega perchè il gruppo ebraico dei ritornati, guidato da Ezra e Neemia (definito «coppiere», ossia alto funzionario persiano alla corte di Ciro), si accampò nel territorio come in terra nemica - come gli israeliani d’oggi - mantenendo un rapporto ostile con la popolazione locale, apparentemente loro fratelli ebrei «rimasti», ma secondo loro impuri perchè avevano preso «donne straniere». Questa elite continuò a chiamare se stessa  «comunità dell’esilio», obbligò i suoi aderenti a una netta separazione fra loro, «i veri» ebrei, e i vicini; tenere a distanza i samaritani che li avevano accolti cordialmente, e a distruggere tutti gli altri luoghi di culto: «Solo noi costruiremo un tempio», come dissero ai samaritani. Un solo tempio, ossia un solo, unificato ufficio esattoriale. I gestori del Tempio inviavano regolari tributi in Persia, naturalmente dopo aver prelevato la loro quota.

E’ il colmo se gli israeliani dovessero riconoscere che devono la forma «pura» della loro religione, del loro monoteismo, anzi la loro stessa «identità», all’impero di Ciro e di Dario, ossia ai nobili antenati degli attuali, detestati, iraniani (4).

Gli iraniani possono mostrare i resti grandiosi del loro retaggio millenario; così gli egiziani, così gli iracheni. Da anni, gli archeologi israeliani compiono una rivoluzione al contrario; le loro scoperte che smentiscono la Bibbia sono note da decenni. Tanto che l’archeologo Nadav Ne’eman, qualche anno fa osò pubblicare su Haaretz un articolo così intitolato: «Togliere la Bibbia dallo scaffale ebraico».

Ma, come  lamentava  già dieci anni fa un altro studioso, Ze’ev Herzog, in Israele «ogni tentativo di mettere in questione la storicità delle descrizioni bibliche è percepito come una volontà di ‘minare il nostro storico diritto alla terra’ e di indebolire il mito che la nazione è la rinascita dell’antico Regno di Israele». Le scoperte sono accolte «con silenzio e ostilità» anche dagli ebrei secolarizzati,  si duole Herzog; anzi, peggio, «persino dai cristiani colti, che sentono minacciata la loro fede fondamentalista» (5).

Così, si può cominciare a intuire perchè i «cristiani» americani, sicuramente affiancati da israeliani,   spazzano via a palate di bulldozer il retaggio assiro, babilonese, oggi iracheno. I monumenti grandiosi di Babilonia, dell’Egitto e dell’Iran, sono una memoria molesta del fatto che un tempio colossale descritto dalla Bibbia, e un impero come quello leggendario di Salomone, non scompaiono senza lasciare traccia. Magari è una psicanalitica «invidia del pene» archeologica.

Forse, una nazione profondamente insicura vuole che la evidente superiorità delle antiche civiltà di cui si vantano Paesi che giudica nemici, e di cui  rivendica territori «fino all’Eufrate e al Nilo», sia ridotta al nulla, allo stesso nulla del «retaggio» archeologico ebraico.

Se è così, la distruzione dei siti iracheni ritarda la presa di coscienza che, un giorno, comunque,  sarà inevitabile. Allora è pensabile una crisi della «religione» ebraica. Lo sarà anche per la religione  cristiana? Io credo, sommessamente, che potrà esserlo per i protestanti. Non dovrà esserlo per i cattolici: l’archeologia non «smentisce» la Bibbia, ma la sua materialità temporale e la sua lettura come propaganda politica.

Al contrario, la conferma nella lettura che è sempre stata cara ai nostri santi e mistici: la «terra biblica» come luogo non geografico ma dell’anima, Gerusalemme come  immagine del Regno che «non è di questo mondo». La «storia» di  Israele come simbolico percorso  di un «esilio» che ci procuriamo tutti con le nostre infedeltà, di un «ritorno» che va inteso come conversione, di «conquiste» spirituali duramente combattute.

Forse si avvicina il giorno in cui gli ebrei dovranno accedere a questa «lettura» dei loro testi: la lettura che ne dava il Messia, che da due millenni rifiutano. Alla fine, sarà il solo modo di difendere e conservare la loro «identità».




1) «Ancient tablet echoes Bible passage: Scientists trying to authenticate find, which has murky origins», MSNBC, 2003-JAN-13, at: http://www.msnbc.com/
2) «Dealer arrested in Jesus relic forgery», CNN.com, 2003-JUL-24, at: http://www.cnn.com/2003/
3) Il rapporto si può leggere al sito http://www.bib-arch.org/forgery/forgeryreport.html
4) Sulla questione, è di illuminante lettura M.D. Magee, «How Darius founded  Judaism»,  http://www.askwhy.co.uk/judaism/index.php
5) Ze’ev Herzog, «Deconstructing the walls of Jericho: who are the Jews?», Haaretz Magazine, 29 ottobre 1999.


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