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Parabola della neodestra, da Armando Plebe a Gianfranco Fini
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Concepita per parlatori a fumetti , l’ideologia neodestra fu introdotta in Italia da Armando Plebe, il garrulo consigliere di Giorgio Almirante. E prima di appiattirsi sui parlatori radunati nel circolo «Fare futuro», indugiò nella centrifuga, che ricicla gli avanzi dell’entusiasmo libertino nutrito dagli apologeti della bella epoque. Nel rotore neodestro, i rottami delle illusioni naufragate nel secolo sterminato, furono ripuliti in fretta e furia, e messi sotto l’etichetta di una novità fulminante - la destra laica e progressiva - da smerciare nei circoli del narcisismo rampante e nelle gradinate del relativismo pirandelliano.

La versione del nominalismo elucubrata da Vilfredo Pareto, rappresenta il piatto forte nel menù dei cibi scaduti che, a partire dagli anni Settanta, sono esposti nella vetrina neodestra. Mediante la lettura riduttiva e dilettantesca del pensiero di Vilfredo Pareto, i neodestri si convinsero di poter celebrare il felice matrimonio dell’irrazionalismo nietzschiano con il nominalismo delle avanguardie. Dichiaravano, infatti, che la loro proposta era intitolata al metodo della vera scienza. Ad esempio, Marco Tarchi, peraltro l’unica mente pensante nella sezione italiana della nuova destra, annunciava, con ammirevole candore, la celebrazione delle nozze della tradizione con il suo contrario: «Abbiamo fatto una proposta metodologica e non di contenuti, ché ben siamo coscienti di trovare questi ultimi nel filone continuo della nostra tradizione». Va da sé che la tradizione neopagana, cui Tarchi aderiva, era un involucro adatto a contenere il bizzarro programma di una destra nominalista, libertaria e progressista.
   
 Allegoria del pregiudizio antimetafisico, che, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, agitava l’animo dei positivisti, il nominalismo (finestra aperta sul politeismo), ad ogni modo, era condiviso e adottato da Pareto, ma usato con la dovuta circospezione: «Si può dire che giungiamo all’estremo del nominalismo, purché si tolgano gli accessori metafisici di questo termine».

Il fatto è che il nominalismo di Pareto si collocava nell’orizzonte di uno stato d’animo che nello sviluppo della scienza economica, contemplava l’unica via alla realizzazione della giustizia sociale. Inoltre, la filosofia paretiana, pur rifiutando lo storicismo cristiano e quello idealistico, era strutturalmente incompatibile con la teoria nietzschiana del non senso. La teoria di Nietzsche, infatti, produceva una conseguenza ripugnante per la mentalità positivista: il rovesciamento nell’ebbrezza coribantica di tutti i desideri dell’umanità e di tutte le ragioni del progredire economico.

Julien Freund, l’autorevole studioso del positivismo, ad ogni modo esclude che, nell’opera di Pareto, il nominalismo introduca quell’irrazionalismo che agiterà lo stato d’animo neodestro:

«Siamo in presenza di un nominalismo che diffida delle parole, di un positivismo che prende le sue precauzioni contro lo scientismo, di un naturalismo che si limita alla metodologia, di un razionalismo che fa la parte dell’irrazionale. Nella sua opera si incrociano dunque molte correnti filosofiche, ma Pareto conferisce loro un significato che le allontana dalla loro accezione comune. ... Queste posizioni non sono in se stesse contraddittorie ma soffrono della mancanza di quella elaborazione filosofica che gli avrebbe consentito di superare la dispersione epistemologica e di dare maggiore unità e coerenza al proprio pensiero». Il nominalismo dei neodestri (goffamente intitolato al francescano Guglielmo di Occam) sarà invece una caricatura del nominalismo professato da Pareto. D’altra parte, Pareto, pur civettando con l’elitarismo, aveva stabilito l’appartenenza dell’oltre umano Nietzsche alla categoria dei profeti allucinati, «Visionari che vogliono che i migliori siano dei despoti, delle bestie selvagge, che divorano i peggiori e si divertono alle loro sofferenze. Sotto l’aspetto scientifico tutte queste teorie hanno circa lo stesso valore, che non differisce molto da zero».    

I neodestri italiani, per rimanere agganciati alla fittizia tradizione metafisica di Julius Evola, loro primo autore, ne seguirono infine le disastrose indicazioni, violando la sospensione del giudizio paretiano sui dogmi dell’ateismo. Dogmi sui quali il barone nero aveva intanto spruzzato la cipria iniziatica e il profumo antichista: «La grande rivelazione, raggiunta attraverso una serie di crisi mentali e spirituali, consiste nel riconoscimento che non esiste nessun aldilà, nulla di straordinario, che esiste solo il reale. Il reale è però vissuto in uno stato in cui non c’è soggetto dell’esperienza né oggetto che venga sperimentato, che sta nel segno di assoluta presenza, l’immanente facendosi trascendente e il trascendente immanente».

Eccitato dalla passione narcisistica, il pensiero neodestro correva da una crisi mentale all’altra. Fino al deragliamento. Poiché l’ateismo di Nietzsche implicava l’accettazione della vita come ripetizione meccanica dell’identico, era fatale l’incontro dei neodestri con il fondatore dell’eco-animalismo, il nazista austriaco Konrad Lorenz. A questo incontro disgraziato, il compianto Remo Palmirani dedicò un penetrante saggio, in cui sono chiarite le affinità tra il materialismo zoologico di Lorenz e l’acosmismo di Nietzsche.

Scriveva dunque l’acuto pensatore tradizionalista: «L’etologo austriaco divinizza l’istinto, così come Monod avrebbe fatto poi per il caso. Costoro si tendono la mano in un universo in continuo divenire nel quale la verità sta nelle cellule e nel DNA o nel comportamento innato. Lorenz rifiuta in tronco la visione illuministica che pretende l’uomo naturalmente buono e che la società rende poi irrimediabilmente perverso, ma a tutto questo sostituisce un’altra utopia: la convinzione quasi religiosa che l’uomo e gli animali siano fatti della stessa materia e che la salvezza dell’uomo stia nel trovare il proprio preciso significato biologico».

A questo punto Palmirani citava un brano, tratto da un saggio di Lorenz, brano che elimina qualunque dubbio sull’affinità tra l’eco-animalismo e la filosofia di Nietzsche: «Al naturalista sono vietate tutte le affermazioni assolute - anche quelle in campo gnoseologico - esse sono un peccato contro il santo spirito del panta rei, la grande concezione di Eraclito, che niente è, ma tutto scorre in un eterno divenire. Prendere l’uomo contemporaneo in assoluto in questa tappa della marcia attraverso il tempo, tappa che è auspicabile percorra con particolare velocità, e dichiararlo il culmine del creato... è per il naturalista il più arrogante e pericoloso di tutti gli insostenibili dogmi».
 
Completa l’elettrizzante campionario degli abbagli neodestri, quella frenesia immoralistica, che oggi riapre le porte degli edifici di Vespasiano e delle stanze di Eliogabalo, dove si celebra il totalitarismo della dissoluzione. La metamorfosi finale era giustificata dalla lettura evoliana di Pareto. Il barone, infatti, attribuiva a Pareto il merito di essere stato un precorritore nel dominio del sesso, e ricordava che «Egli scrisse un libretto, uscito dapprima in francese, “Le virtuisme”, in cui stigmatizzava il puritanesimo sessuofobo. Egli mise in rilievo che il moderno (sic!) virtuismo sessuale non trova riscontro in nessuna grande civiltà del passato. Roma antica l’ignorò, in prima linea essa mise la dignità e la misura».

La struttura ipocrita e antitradizionale del puritanesimo non si può revocare in dubbia, essendo visibile a chiunque. Ma visibile senza difficoltà è anche il legame che unisce il libertinismo alla sovversione moderna. Evola, dimenticando questa elementare verità, navigò sulle acque scivolose della doppiezza, fino a raggiungere il porto delle banalità da caserma col riconoscimento del carattere onesto della prostituzione della donna «la quale in fondo fa commercio di ciò che le appartiene».

Sulla scia di tali sgangheranti illuminazioni, i neodestri sono andati incontro alla scena finale della loro avventura: l’infatuazione per i grandi maestri della pederastia eroica, quali Ernst Jünger e Bruce Chatwin, e le sacerdotesse dell’amor magico, quali Simone Weil, Colette e Cristina Campo.

Chi desidera comprendere i pensieri che ispirano i giri di valzer anticattolici eseguiti da Gianfranco Fini non può non tener conto del precedente neodestro. E non può ignorare che la neodestra fu approvata dall’autore delle prime fortune di Fini. La verità è che Fini non tradisce ma realizza fedelmente il pensiero a due piste di Giorgio Almirante & Armando Plebe. Sotto l’abito perbenista di Almirante batteva un cuore indifferente alla verità.

Nella perfetta insensibilità per le questioni di principio, l’ubiquo Almirante (famosa la battaglia combattuta contro il divorzio… con la divisa del bigamo conclamato) poteva declinare la logica dell’et… et, e scrivere, nel «Secolo d’Italia», che la nostra patria ha due vangeli: le lettere di Santa Caterina da Siena e «Il principe» di Niccolò Machiavelli. Privo del sussidio delle letture pirandelliane, Fini è incapace di partorire altrettanto splendide idiozie. Ma le acrobazie compiute sulla pista del can-can laicista mostrano la perfetta fedeltà al pensiero bigamo del suo padrino.

Piero Vassallo




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