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I novissimi: l’anima umana e l’aldilà (3)
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Terza parte
L’immutabilità dell’anima sùbito dopo la morte “Tempus non erit amplius”

L’anima umana, sùbito dopo la morte reale[1], rimane fissata immutabilmente nel bene o nel male in cui è morta. Noi sappiamo che con la morte reale il tempo di meritare è finito e si entra nell’eternità.

Una volta che l’anima umana ha definitivamente lasciato il corpo (morte reale) è giudicata immediatamente su tutte le sue azioni, buone e cattive, della sua intera vita terrena. Ora, ciò presuppone che con la morte, ossia la separazione dell’anima dal corpo, il tempo del merito è finito. Alcuni protestanti affermano il contrario e i modernisti hanno ripreso questa tesi luterana. Invece, la Rivelazione divina e il Magistero ordinario (sebbene senza definizione solenne) insegnano la tesi tradizionale esposta al primo punto.

La Sacra Scrittura

Nel Vecchio Testamento si legge: “Il Signore, nel giorno della morte, rende la mercede all’uomo secondo le sue opere; infatti, non appena la sua vita è chiusa, le sue opere sono messe a nudo” (Ecclesiastico, XI, 28).

Anche nel Nuovo Testamento il giudizio finale riguarda solo le azioni della vita presente e non quelle (buone) commesse dopo la morte (Mt., XXV, 33; Lc., XIII, 22; Gv., V, 29).

Per il giudizio particolare (Lc., XVI, 19-31) si legge nella parabola del “ricco Epulone” che il povero Lazzaro e il ricco malvagio (detto comunemente Epulone) vengono giudicati irrevocabilmente e senza dilazione di pena o di gloria, unicamente sugli atti commessi in questa vita prima della loro morte.

Allo stesso modo Gesù disse al buon Ladrone poco prima che morisse: “Oggi sarai con Me in paradiso” (Lc., XXIII, 43).

San Paolo scrive: “Tutti noi dobbiamo apparire davanti al Tribunale di Cristo, affinché ciascuno riceva ciò che si è meritato nella sua vita mortale secondo le proprie opere buone o cattive” (II Cor., V, 10).

La Tradizione patristica

Infine, nel Vangelo secondo Giovanni (IX, 4) si legge: “Viene la notte quando nessuno può più operare”. Ora il termine “notte” è comunemente interpretato dalla Tradizione patristica (S. Cipriano, S. Ilario, S. Giovanni Crisostomo, S. Cirillo d’Alessandria, Sant’Agostino, S. Gregorio Magno) come morte, dopo la quale non si può più né meritare né demeritare (cfr. A. de Journel Enchiridion patristicum, index theol. n. 584).

Il magistero della Chiesa

Il Magistero ordinario e universale - sebbene la Chiesa non abbia definito in maniera solenne nulla a questo proposito - ha insegnato la medesima dottrina su esposta, secondo cui sùbito dopo la morte, l’anima è giudicata e non possa più meritare nulla, ma si trova fissa nello stato in cui si è venuta a trovare nell’istante in cui l’anima s’è separata dal corpo.

Per esempio, il Concilio di Lione (DB, 464) insegna, senza definire solennemente: “Le anime di coloro, che muoiono in stato di peccato mortale, discendono sùbito nell’inferno (mox post mortem in infernum descendunt), per subirvi pene ineguali”.

Il Concilio di Firenze (DB, 693) insegna la stessa dottrina; così pure la Costituzione dogmatica Benedictus Deus di Benedetto XII (DB, 531).

Infine, il Concilio Vaticano I stava per definire 1°) che dopo la morte è necessario che tutti, immediatamente, ci presentiamo davanti al tribunale di Dio, per riferirvi ognuno le gesta della nostra vita terrena, sia buone sia cattive.

Inoltre, 2°) che dopo questa vita mortale non resta alcun tempo per far penitenza e giungere alla giustificazione.

La ragione teologica

Secondo la Scrittura Gesù ha detto: “Bisogna fare le opere di Colui che Mi ha mandato, mentre è tuttora giorno, giacché giunge la notte in cui nessuno può più operare” (Giov., IX, 4).

Perciò i teologi, basandosi soprattutto su questo versetto di San Giovanni, asseriscono che l’uomo può meritare soltanto prima di morire (San Tommaso d’Aquino, Summa contra Gentes, Lib. IV, c. 95; Francesco de silvestris da Ferrara, In c. Gentes, L. IV, c. 95; Salamanticenses, Cursus theologicus, De gratia, De Meritu, disp. I, dub. IV, n. 36).

Infatti, è tutto l’uomo che deve meritare e non la sola anima separata dal corpo.

Secondo padre Reginaldo Garrigou-Lagrange (L’altra vita e le profondità dell’anima, cit., p. 53), il teologo scolastico che meglio di tutti ha inteso ed espresso il pensiero di San Tommaso è il Ferrarese (In S. c. Gentes, Lib. IV, c. 95), che così scrive: “L’anima, sin dal suo primo istante di separazione dal corpo, ha una conoscenza intellettiva immobile, e comincia sùbito allora a essere ostinata nel male o, all’opposto, fissata nel bene; perciò, da questo momento, non c’è più merito o demerito, giacché essi appartengono all’uomo viatore intero e non all’anima separata”.

Insomma, come spiega anche San Tommaso (S. contra Gentes, L. IV, c. 95; De Veritate, q. 24, a. 11), sin dal primo istante della separazione dell’anima dal corpo, ci troviamo di fronte a un cadavere e a un’anima separata. L’uomo ha cessato di esistere e, perciò, non può più meritare o demeritare.

L’ostinazione nel male è causata, dunque, inizialmente dalla conoscenza (che potrebbe ancora mutare) della prossimità della morte, con l’adesione all’ultimo peccato dell’anima ancora per un po’ unita al corpo.

Invece, essa è causata in maniera definitiva dalla conoscenza stabile e immobile dell’anima una volta separata dal corpo, quando non può più mutare, essendo oramai diventata un puro spirito (anche se in attesa di riunirsi al suo corpo alla fine del mondo), che aderisce immutabilmente e irrevocabilmente a quello che ha scelto all’ultimo istante prima di morire.

La S. Scrittura dice: “Se un albero cade a sud o a nord, resta nel posto in cui è caduto” (Ecclesiastico, XI, 35) e il proverbio popolare: “Se l’albero pende a sinistra, cadrà a sinistra; invece, se pende a destra, cadrà a destra”.

In breve, per il tomismo più genuino, l’anima inizialmente comincia a fissarsi nel male (o nel bene) con l’ultimo atto della sua volontà libera nella vita presente, prima di morire. Invece, termina col fissarsi nel primo istante, sùbito dopo la morte, con il modo oramai immutabile di giudicare e volere, proprio dei puri spiriti.

Essa s’immobilizza da se stessa nella sua scelta pienamente avvertita e liberamente voluta del bene o del male. Perciò, non si può parlare di mancanza di misericordia se Dio non offre a essa un’ulteriore grazia d’illuminazione dopo la morte.

L’entrata nello stato di separazione dell’anima dal corpo con la morte, fissa lo spirito umano per sempre nella scelta pienamente conosciuta e liberamente voluta; insomma: “L’albero resta lì, dove è caduto” (cfr. Ecclesiastico, XI, 35).

È possibile La conversione dei dannati?

I dannati, poiché sono istruiti dalla loro sventura sulla gravità del loro peccato e della pena che devono pagare, potrebbero ritornare sulla loro ultima scelta fatta poco prima di morire, pentirsene e uscire dall’inferno?

L’Aquinate risponde che i dannati non sono istruiti in pratica, ma solo speculativamente, dalla loro sventura. Essi vorrebbero in teoria non soffrire, ma non vogliono all’atto pratico retrocedere dal loro peccato e tornare a Dio. Essi rifiutano irrevocabilmente l’unica via del ritorno a Dio, quella dell’umiltà e della sottomissione all’Essere supremo.

Essi non hanno il dolore e il pentimento del peccato come offesa verso Dio, ma soltanto il rimorso, il tormento o il dolore rabbioso della loro pena e sofferenza che morde la loro coscienza, come un cane inferocito. San Pietro ebbe il dolore di aver rinnegato tre volte Gesù, Giuda solo il rimorso di averlo tradito.

Insomma, i dannati si amareggiano del loro peccato solo come causa della loro sofferenza e perciò restano nella rivolta, come Capaneo (Dante, Inferno, XIV, 43-72). Tra questi due stati d’animo v’è un abisso (cfr. S. Th., Supplementum, q. 98, a. 2).

Il diavolo ha preferito lucidamente e liberamente la dannazione al paradiso

Lucifero ha preferito le gioie dell’orgoglio, dell’affermazione del suo Io alla gloria del Paradiso e a Dio visto faccia a faccia.

Ora, ciò ci sembra assurdo e impossibile. La sana teologia (cfr. San Tommaso d’Aquino, S. Th., I, q. 63, a. 3), appoggiandosi sulla Scrittura e la Tradizione patristica, risponde che per quanto strano e innaturale ci possa sembrare, il diavolo ha preferito affermare e vivere a suo modo la sua esistenza naturalmente intellettuale (non ancora elevata alla visione beatifica), di cui s’inebria e si gonfia, la sua felicità puramente naturale (anche se di un puro spirito), il suo egoismo orgoglioso; piuttosto che dare gloria a Dio, riconoscendone la sua onnipotenza creatrice, umiliandosi e obbedendogli come la creatura al Creatore.

Insomma, egli ha rifiutato la beatitudine soprannaturale, che è solo un puro dono di Dio, poiché non volle ammettere di aver bisogno di Dio e del suo aiuto, sottomettendosi così a Lui.

Inoltre, la grazia santificante, che è seme di gloria eterna, è un dono divino ma è comune agli angeli e agli uomini, che essendo composti di anima e di corpo sono inferiori agli angeli. Lucifero, nel suo orgoglio, non volle abbassarsi a ricevere un dono che sarebbe stato fatto comunemente sia agli angeli sia agli uomini. Perciò, preferì dannarsi piuttosto che salvarsi assieme all’uomo, riconoscendo la sua finitezza e il suo bisogno dell’aiuto di Dio per entrare nel regno dei cieli; mentre all’inferno poteva andarci da solo. Ora, è proprio dell’orgoglioso compiacersi esageratamente della propria eccellenza sino al punto di respingere tutto ciò che potrebbe sminuirla: il dono di Dio e la comunanza con altri enti.

Suarez commentando l’Angelico (S. Th., I, q. 63, a. 3) ha aggiunto alla tesi tomista la sua ipotesi, secondo cui Dio avrebbe mostrato a Lucifero l’Incarnazione del Verbo e, quindi, l’Arcangelo si sarebbe rifiutato di amare e servire un Dio che si sarebbe fatto uomo. Quest’ipotesi aggiunge qualcosa a quella tomista e non è stata condannata dalla Chiesa e può essere liberamente ritenuta. “In certis unitas, in dubiis libertas, in omnibus caritas”.

Tutti ricevono prima di morire la visione d’insieme della propria vita?

Alcuni autori, poco sicuri e non approvati dalla Chiesa, ritengono che poco prima di rendere definitivamente l’anima a Dio ogni essere umano riceva da Dio una “visione globale” della sua vita passata, quale grazia sufficiente per pentirsi e convertirsi.

Padre Reginaldo Garrigou-Lagrange (L’altra vita e la profondità dell’anima, cit., p. 57) spiega che ogni anima è un caso a parte; perciò nelle morti, s’avvera una grande variazione e varietà. Per esempio, ad alcuni santi fu rivelato il giorno e il momento; invece ai farisei Gesù disse e predisse: “Voi morirete nel vostro peccato”.

Perciò, l’immobilità dell’anima nel bene o nel male inizia durante la vita presente, secondo come sia stata vissuta. San Roberto Bellarmino nel suo bel libro De arte bene moriendi, spiega che per ben morire bisogna ben vivere. Infatti, normalmente – tranne qualche rarissima eccezione – si muore come si vive.

Perciò, significherebbe illudere le anime e lasciarle nello stato del peccato mortale e della dannazione potenziale, asserire che tutti ricevono poco prima di morire o addirittura sùbito dopo la morte, una grazia speciale che li illumina in maniera molto forte affinché possano scegliere, in extremis, il cielo o l’inferno.

“L’ostinazione nel male può iniziare molto tempo prima della morte, come avviene nei peccatori incalliti, che possono morire all’improvviso, senza aver ottenuto la visione globale della loro vita. Questa è la pena dovuta a quel peccato speciale che consiste nel protrarre sempre la conversione a più tardi o nel non volersi convertire, affatto” (R. Garrigou-Lagrange, cit., p. 57).

Non dobbiamo, perciò, servirci di alcune teorie abbastanza strampalate e abusando di esse, per presunzione di salvarci senza merito, per rimandare sempre in là la nostra conversione. Infatti, se Dio è misericordioso, è anche infinitamente giusto.

Tuttavia, Dio manifesta e applica la sua severa giustizia, quando l’uomo ha abusato della sua misericordia. Mai nessuno si è dannato per la mancanza della grazia e del soccorso di Dio, ma soltanto per sua colpa.

d. Curzio Nitoglia



[1] La morte clinica è quando il cuore non batte più, la respirazione è cessata e la sostanza del cervello (non la sola corteccia) è piatta. La morte reale avviene quando l’anima ha lasciato definitivamente il corpo. Secondo i teologi la separazione dell’anima dal corpo avviene lentamente, in circa tre ore. Perciò, sino a circa tre ore dopo l’ultimo respiro, quando il corpo è ancora caldo, si ritiene che l’anima sia ancora presente, nel tempo in cui lo sta lasciando poco a poco e si può ancora amministrare l’estrema unzione o l’assoluzione ma sub conditione.

 
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