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La nascita della “questione palestinese”
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Quando Tito distrusse il Tempio di Gerusalemme e la Città Santa dell’Antica Alleanza (70 d.C.) iniziò la grande diaspora degli ebrei (che lasciarono la Giudea) in tutto il mondo romano.

 

Nel 130 Adriano, dopo aver raso al suolo Gerusalemme, che si era rivoltata di nuovo contro Roma seguendo un falso messia (Bar Koba), fondò sulle sue rovine un’altra città ribattezzata Aelia Capitolina e rase al suolo anche la Giudea, che venne chiamata Syria o Palestina, e tale rimase dal 130 al 1948.

Nel IV secolo, Costantino e s. Elena fondarono la Palestina cattolico-romana, che perdurerà soltanto sino al VII secolo. Infatti, nel 614 Cosroe II, re di Persia, invade la Palestina e perseguita il Cristianesimo. Nel 638 il califfo Omar inizia la vera e propria islamizzazione della Palestina, tollerando - tuttavia - i cristiani. Nel 1009 il califfo Al-Harem ricomincia la persecuzione dei cristiani e ordina la distruzione della Basilica della Risurrezione di Gerusalemme (chiamata in Europa il Santo Sepolcro), distruzione iniziata il 28 settembre del 1009. La Basilica fu abbattuta sin dalle fondamenta, ad eccezione di ciò che era impossibile distruggere. Nel 1070-1090 i Turchi selgiùchidi invadono la Palestina e massacrano i cristiani. L’Europa cristiana risponde allora con la prima crociata (1099): il 1° giugno del 1099 Goffredo di Buglione entra in Gerusalemme. Nel 1187 il Saladino la riconquista. Dal 1517 al 1917 l’Impero Ottomano o turco occupa la Palestina.

La Turchia (alleata dell’Austria-Ungheria) nel 1917 perde la prima guerra mondiale; inizia così il mandato britannico (sotto l’egida delle Nazioni Unite) in Palestina. Il 2 novembre del 1917 la Dichiarazione Balfour, inserita nel trattato di pace con la Turchia, crea il ‘focolare [home] ebraico’, che presto diverrà un ‘incendio’ e si trasformerà da ‘casa’ in uno ‘Stato’ (1948).

Tra gli anni Venti-Trenta iniziano le grandi immigrazioni ebraiche in Palestina, con vasti insediamenti a macchia di leopardo, provocando la reazione araba. Tra il 1942-45 i sionisti iniziano una serie d’attentati terroristici contro la Gran Bretagna in Palestina; nel 1947 la GB rimette il mandato ricevuto dalle Nazioni Unite (NU) nel 1917 a quello che oramai era diventato l’ONU (Organizzazione delle Nazioni Unite). La Palestina si trova, di fatto, divisa in due parti (una parte ebraica e una parte araba) con Gerusalemme internazionalizzata.

Il 15 maggio 1948 nasce lo Stato d’Israele, quindi inizia la prima guerra arabo-israeliana (1948-49) e sempre nel 1948 Gerusalemme ovest è occupata da Israele. Nel 1949 la Palestina perde il nome e l’unità politica, è divisa in due, una parte sotto Israele e l’altra (Gaza) sotto la Giordania e l’Egitto. Nel 1951 Israele espelle 900.000 arabi dalla Palestina. Nel 1967 con la ‘guerra dei sei giorni’ Israele occupa anche Gerusalemme est: tutta Gerusalemme è oramai ebraica.

Nel 1978-79 (dopo la reazione egiziana del 1973, chiamata guerra dello Yom Kippur) si riuniscono a Camp David (Washington) Sadat, Carter e Begin e decidono che Gaza è territorio occupato da Israele, ma abitato dai palestinesi, ossia il popolo palestinese esiste, ma la Palestina no.

Occorre anche dire che i Palestinesi erano - praticamente - inesistenti sia per Israele che per il Mondo Arabo, i quali battagliavano o dialogavano sulla Palestina senza tener conto dei Palestinesi. Arafat ha avuto il merito - oggettivo – d’imporre i Palestinesi come soggetto d’incontro/scontro politico-militare sulla questione della terra di Palestina, senza delegarla a Egitto, Siria, Giordania.

Circa dieci anni dopo scoppia la prima Intifada a Gaza (1987-88) e nel 1991 a Madrid s’incontrano, per la prima volta, rappresentanti dello Stato d’Israele e Arafat (Autorità Nazionale Palestinese). Nel 1993 e 1995 ci sono i due incontri di Oslo (la cosiddetta ‘diplomazia delle parole’), ove si stabilisce che, in astratto, esiste la Palestina la quale ha diritto sui territori occupati, tuttavia non sono i palestinesi esistenti in carne ed ossa ad aver diritti, ma solamente la Palestina, che è riconosciuta soltanto de jure ma non de facto.

Nel 2000 c’è l’incontro di Camp David II, tra Clinton, Barak e Arafat. Gli USA fanno un’offerta inaccettabile ad Arafat, sapendo che dovrà rifiutare, per metterlo in difficoltà e fargli ‘perdere la faccia’ (e anche la vita, come a Sadat) davanti all’opinione pubblica disinformata, pilotata e fabbricata.

Infatti, l’incontro Camp David II è stato condotto senza trascrizioni ufficiali dei colloqui. A Camp David, Israele non accetta di ritirarsi dai territori occupati dal 1967 (non si discute a partire dal 1948, ma solo dal post-’67), i tre milioni circa di profughi palestinesi non hanno diritto al ritorno (contro la risoluzione 194 dell’ONU).

Quanto alla terra palestinese occorre sapere che il 29 novembre del 1947 l’ONU, con la risoluzione 181, aveva diviso la Palestina a metà, di cui il 52% allo Stato d’Israele e il 46% ai palestinesi e il 2% internazionalizzato. Poi, nel 1967, Israele aveva occupato la metà (il 23%) della restante Palestina, la quale resta, così, col 23% di territorio, mentre il 75% tocca ad Israele.

Ora l’inganno di Camp David II consiste nel dire una parte della verità (si concede ai palestinesi il 90% di superficie della ‘vecchia’ Palestina), ma si tiene nascosta la seconda parte (tale superficie riguarda solo il 23% che restava ai palestinesi dopo il 1967); i palestinesi dunque dovrebbero perdere ancora qualcosa e restare solo col 20% circa, mentre Israele arriverebbe all’80% della superficie di terra palestinese.

Nessuno (degli americani o israeliani) ha detto che si voleva concedere ad Arafat solo il 90% del 23% di superficie di terra palestinese restante dopo il 1967 e che quindi gli si concedeva gentilmente un’ulteriore perdita di territorio. S’è fatto credere che avrebbero voluto dargli il 90% del 46% di superficie di terra, che restava ai palestinesi dopo il 1948, ma che Arafat ne avrebbe voluto il 100% ed ha rifiutato la ‘manna’ offertagli da Clinton e Barak. Arafat ha dovuto perdere ‘l’occasione d’oro’ offertagli da Clinton e Barak perché per la Palestina ciò sarebbe equivalso a rinunciare ad ogni aspirazione ad uno Stato indipendente.

L’A.N.P. avrebbe voluto la restituzione dei territori occupati nel 1967 e di Gerusalemme est alla Palestina e la fine dell’insediamento di colonie ebraiche, a macchia di leopardo, in terra palestinese. Occorrerebbe tornare a prima del 1967, mentre lo Stato d’Israele non vuole ed anche H. Kissinger ha affermato: “tornare al 1967 è impossibile” (La Stampa, 10. V. 2002).

Il 28 settembre del 2000, dopo una passeggiata d’Ariel Sharon sulla spianata delle Moschee ove sorgeva il Tempio di Gerusalemme, scoppia la seconda Intifada. Nel 2002 Giovanni Paolo II dichiara: “la Palestina è vittima d’ingiustizie da più di cinquanta anni”.

Il cuore del problema palestinese

L’Inghilterra e l’ONU non hanno titoli di sovranità sulla terra di Palestina; tuttavia, la risoluzione 181 dell’ONU (29 novembre 1947) ha raccomandato o consigliato (senza aver valore di norma) la spartizione in due parti della Terra palestinese (il 52% a Israele e il 46% ai palestinesi, più un 2% internazionalizzato).

Gli israeliani accettarono nel 1948 questa risoluzione ONU, mentre i palestinesi la rifiutarono. Oggi l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) l’invoca come trampolino di lancio per avviare il processo di pace. I palestinesi mantengono un diritto di possesso sul suolo di Palestina ancor oggi come prima del 1947.

Ben Gurion che, nel 1947, disse di accettare di diritto la risoluzione 181, nel maggio del ’48 invase di fatto Gerusalemme est.

Non si può imporre, com’è stato fatto a Camp David II, (democraticamente) ai palestinesi di rinunciare (“liberamente”) anche al 3% del territorio che resta loro dopo il 1967, pretendendo che accettino pacificamente - senza reagire - questo esproprio ‘liberista’ in nome della pace e della libertà americana e pretendere che essi accettino supinamente quest’imposizione della tirannia democratica, liberista, libertaria e libertina del relativismo e soggettivismo occidentale. Esiste il diritto alla legittima difesa, per non farsi espropriare la verità e la terra e, se gli aggrediti reagiscono, ebbene la colpa non è di colui che si difende ma dell’ingiusto aggressore, che ha prima fabbricato un’opinione pubblica e poi una guerra di “liberazione”(nihil sub sole novi).

Per quanto riguarda l’attuale ritiro dei coloni ebrei da Gaza, Sergio Romano scrive: “I cittadini israeliani d’origine araba sono circa un milione ma, Israele è uno Stato degli ebrei  e non ha nessuna intenzione di adottare le modifiche istituzionali che ne farebbero uno Stato multietnico e multi-confessionale. I rapporti con i Palestinesi, nel frattempo, sono andati progressivamente peggiorando (…). I coloni degli insediamenti ebraici in Cisgiordania non sono qualche migliaio, come a Gaza, ma circa 230. 000, e Sharon, in un’intervista al Le Monde riprodotta da La Stampa del 27 luglio [2005], ha dichiarato: ‘L’accordo che abbiamo raggiunto con il presidente Bush ci consente di mantenere zone di grande importanza strategica ed altre zone ad alta densità di popolazione…’. Sono parole che non permettono di riporre molte speranze nel ritiro delle colonie dai territori occupati… e che allontanano nel tempo la prospettiva di una felice convivenza dei due popoli su uno stesso territorio” (Corriere della Sera, 15 agosto 2005, p. 23).

La Stampa scrive: “All’indomani della fine dello sgombero delle colonie individuate dal piano Sharon, Israele ha ripreso gli espropri delle terre palestinesi per costruire il ‘muro di sicurezza’ attorno all’insediamento di Màaleh Adumin, in Cisgiordania. (…) Secondo la BBC, le zone confiscate, potrebbero interessare un’area di 60 Km quadrati” (25 agosto 2005, p. 9).

Inoltre, il Corriere della Sera c’informa che: “Anche dopo il ritiro da Gaza, il numero totale dei coloni israeliani continua ad aumentare. In Cisgiordania nel 2004 il bilancio è aumentato di 12.800 persone, rispetto alle quasi 9.000 che sono state evacuate nei giorni scorsi. I dati sono stati forniti dal Ministero degli Interni israeliano, secondo cui negli ultimi 18 mesi hanno trasferito la loro residenza in Cisgiordania più di 18.000 coloni. Sono in maggioranza ebrei ultra-ortodossi…” (27 agosto 2005, p. 15).

D’altronde (ben prima del generale conservatore e ‘falco’ Ariel Sharon) la convivenza tra ebrei e arabi era già messa in ‘dubbio’ (per usare un eufemismo) da Ben Gurion (il laburista politico e statista ‘moderato’, fondatore dello Stato d’Israele) che nel 1936 aveva detto: ‘I palestinesi non costituiscono una nazione. Dobbiamo espellere gli arabi e prendere il loro posto’.  E, nel 1948: ‘Agli arabi che ancora vivono nella terra d’Israele rimane una sola cosa da fare: scappare via’. (Millenovecento, maggio 2005, n° 31, pp. 28-29, David Ben Gurion/3-Le sue frasi celebri. “Non ci basta l’autodifesa”, a cura di Marco Paci).

Pio XII e le tre Encicliche sulla Palestina

Nella prima Enciclica (Auspicia quaedam, 1° maggio 1948) spiega che dopo la seconda guerra mondiale non bisogna dar luogo a occasioni generatrici di nuovi rancori e odi, foriere di nuove iatture e danni. Il Papa si dice preoccupato da “nubi minacciose di nuove guerre”. Soprattutto la Palestina desta “somma preoccupazione” a causa di “nuovi eccidi e rovine, proprio nella Terra Santa sulla quale Cristo sparse il suo Sangue per la pace tra Dio e gli uomini”.

Nella seconda (In multiplicibus, 24 ottobre 1948) il Pontefice scrive che “una grave guerra sconvolge la Palestina”, ove scorre sangue umano. “Migliaia di profughi vengono allontanati dalla loro Patria”. Gli edifici sacri cristiani sono distrutti. Il Papa prevede “mali maggiori”. Bisogna soccorrere le vittime della guerra israelo-palestinese. Pio XII chiede che “si crei un Ordinamento che garantisca a ciascuna delle [due] parti ora in conflitto la sicurezza dell’esistenza, il benessere materiale e spirituale”. Occorre, perciò, dare a Gerusalemme e dintorni (ove si trovano le vestigia di Cristo) “un carattere internazionale”.

Nella terza ed ultima (Redemptoris Nostri, 15 aprile 1949) papa Pacelli insiste affinché si ottenga “una giusta sistemazione giuridica, che assicuri piena libertà ai cristiani e la conservazione dei luoghi sacri”. Se le ostilità sono momentaneamente sospese “non v’è ancora tranquillità e ordine”. Il Papa lamenta la profanazione di santuari, conventi e immagini sacre. I profughi palestinesi (cristiani e musulmani) vengono avviati verso l’esilio o i campi di concentramento. Gerusalemme deve essere sottomessa ad un regime internazionale garantito giuridicamente. La Terra Santa deve restare santa, ossia non profanata da luoghi di divertimento mondani e peccaminosi.

Questa, per sommi capi, è la genesi che ci ha portato alla situazione attuale in cui la Palestina, il Libano, la Siria sono minacciate da Israele, ma difese dall’Iran e dalla Russia. Situazione che è foriera di grandi calamità se le cose continuano di questo passo, soprattutto se si considera che questa tensione in Medio Oriente s’aggiunge a quella aperta circa due anni fa tra la Russia e l’Ucraina.

d. Curzio Nitoglia

 
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