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Ed Angela rifà l’Anschluss
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Siamo distratti dall’importante questione della politica italiana: la candidabilità del Banana nonostante le condanne, e l’ultima dichiarazione della Santanché in proposito. Sicché ci è passata inosservata la seguente notiziola: nel luglio scorso, Berlino ha tenuto con molta discrezione un «incontro quadripartito» convocando gli altri Paesi parlanti tedesco: Austria, Svizzera, Liechtenstein. I ministri degli esteri dei tre Paesi sono stati radunati dal ministro germanico. Anzi, pare che di questi discreti incontri ne siano già avvenuti, anche con l’inclusione del (prevalentemente francofono) Lussemburgo; ma adesso sono stati sistematicamente intensificati.

Il motivo offerto dalla potenza egemone dovrebbe suscitare qualche allarme: la Germania giustifica queste convocazioni col il fatto che questi Paesi costituiscono «un campo culturale unitario». Il che, dicono, giustifica la più profonda collaborazione e il coordinamento di politiche comuni da portare in Europa. Nel 2006, sono stati i ministri dell’Ambiente a riunirsi nell’incontro quadripartito: godendo, come si legge nel comunicato conclusivo, del «particolare vantaggio nello scambiarsi idee all’interno di un campo culturale unitario» (in inglese, il comunicato parla di «culturally unitary realm», ossia “regno”: sarebbe curioso sapere quale è il termine tedesco che usano fra loro, forse «Reich»?).

Da allora, questi incontri si sono tenuti annualmente; oggi sono diventati più frequenti per volontà di Berlino. Nel marzo scorso, si sono riuniti i ministri delle finanze; a maggio, è stata la volta dei ministri della Sanità, ponendo le «basi per una cooperazione sistematica nel settore». «La lingua comune rende questi incontri particolarmente stimolanti e produttivi», s’è rallegrato Wolfgang Schauble (Finanze) dopo l’incontro di marzo. Sottolineando che l’affinità non sta solo nella lingua, ma «nella nostra posizione nel cuore d’Europa», tanto più che i Paesi germanofoni «costituiscono un «extraordinarily strong economic realm».

È la pura verità. Il capitale tedesco investito in Austria è un sesto degli investimenti esteri diretti della repubblica federale, e per l’Austria ila Germania è ovviamente il primissimo partner commerciale e l’assolutamente primo investitore. L’Austria serve da base a molte industrie tedesche che espandono i loro affari nell’Europa dell’Est o Sud-Est, che ha tradizionalmente forti legami con Vienna (dopotutto, è grosso modo la zona d’influenza dell’ex impero absburgico). Anche per la Svizzera la Germania è il principale investitore e fornitore di capitali – i capitalisti tedeschi usano di preferenza la piazza finanziaria elvetica rispetto a Wall Street e Londra – mentre la Germania è di gran lunga il principale sbocco di mercato per le imprese svizzere. È vero anche il reciproco: la Svizzera è per le merci tedesche il terzo sbocco commerciale fuori dalla UE, dopo Usa e Cina; e si tenga conto che la Confederazione Elvetica ha solo 8 milioni di abitanti. E nonostante ciò, nel 2012, la Germania è riuscita ad aumentare ancora le sue vendite nel piccolo ma ben solvibile paese di 11 miliardi di euro.

Nell’ultimo incontro, i ministri degli esteri hanno trattato (in tedesco) degli «strettissimi legami realizzati attraverso i mercati dei media». Effettivamente in Austria le imprese editoriali o tv germaniche fanno la parte del leone come soci di maggioranza o di riferimento. Per esempio il German Funken Media Group (già Gruppo WAZ) ha il 50% delle azioni del quotidiano austriaco Kronen, le co-produzioni televisive, radiofoniche e cinematografiche non si contano. I canali tv ARTE e Sat3 sono ovviamente roba tedesca e vista e sentita nel «regno culturalmente unitario». Tutti potenti motori ideologici che rafforzano l’egemonia tedesca, formando l’opinione pubblica e influenzando la politica dei partners germanofoni. «I media tedeschi sono i più seguiti nella Svizzera tedesca», ha detto il ministro germanico, «e in Lussemburgo altrettanto». RTL, il gruppo mediatico lussemburghese, è in mano alla Bertelsmann al 76,4%. E pensare che fino all’altro ieri il Lussemburgo era ritenuto sotto egemonia francese, avendo aderito nel dopoguerra ad una unione economica col Belgio (Union Économique Belgo-Luxembourgeoise) benedetta da Parigi. Ma, con Hollande (detto dai suoi concittadini «La Pera»), la grande politica estera francese sembra scomparsa fra le sabbie del Mali, impegnata nelle sue colonie africane, e dedicata alla distruzione, dopo la Libia, della Siria; una strategia di geniale attualità, per un leader che si dice socialista.

La coesione sempre più solida ed organizzata dell’area germanofona , così ingombrante in Europa, e gravida di pericoli per gli altri Paesi, contrasta con la disarticolatezza sempre più pronunciata dei Paesi dell’area linguistica latina: Italia e Spagna e Portogallo (e Grecia) non riescono a coordinare nemmeno una politica comune sul quel che chiaramente li unisce di fronte a Berlino, il loro status di debitori, e di vittime dell’euro forte. Ovviamente, un’egemonia dell’Italia su questo gruppo sarebbe necessaria – ma non è nemmeno pensabile; siamo troppo ridicoli, a Madrid e Lisbona si vergognerebbero. Parigi, che potrebbe ancora (ha forze intellettuali rispettabili critiche dell’euro), vagola dispersa nelle sabbie africane; e in Europa si aggrappa alla «speciale relazione» con Berlino che non esiste più se non per finta, mentre l’economia francese affonda in una recessione ormai riconosciuta come «strutturale», che la condanna a diventare un peso leggero economico pieno di disoccupati, in irreversibile declino, e irrilevante per la Cancelleria.

Quanto all’eurocrazia di Bruxelles, così intrusiva nell’imporci OGM e curvature ammesse dei cetrioli, non sa fare né dire nulla su questo sviluppo di rapporti bilaterali, esclusivi e senza testimoni altri sotto l’egemonia tedesca. Li lascia avvenire, impotente e cieca.

Se abitassimo su Marte e fossimo soltanto in visita nel Vecchio Continente, godremmo divertiti dell’ironia della storia: l’attuale Europa burocratica senza patrie, fu escogitata nel dopoguerra nei circoli massonici proprio per legare la Germania, disfatta, ad un avvenire senza sovranità. Lo stesso euro fu fortemente voluto (da Mitterrand e dal Gran Orient de France di cui era l’esecutore, ma entusiasticamente applaudito dai politici italiani alla Andreotti) allo scopo di imbrigliare la Germania, riunificata e dunque divenuta temibile, troppo grossa per non comandare nel centro-Europa. L’euro fu imposto a Kohl come contropartita per avere il permesso a procedere alla riunificazione...

E sì, se fossimo marziani ci divertiremmo a notare l’eterogenesi dei fini in cui incorrono i teorici illuministi che vogliono riprogettare la realtà a tavolino. Purtroppo, in Europa ci viviamo, e strangolati affondiamo nella decadenza strutturale. Il progetto che animò l’Europa di Monnet è palesemente fallito; ma le élites politiche non sono in grado di prenderne atto, e tantomeno di abbozzare un qualche mutamento. Il progetto fallito continua, in mancanza di altre idee; l’Europa non è mai stata così disarticolata e divisa, mai ciascun Paese è stato così assorbito nei propri interessi, mai la Germania ha perseguito più brutalmente i suoi, eppure non si è capaci di cambiare politica, oltre quella dettata da Jean Monnet. Ormai, della UE esiste solo una cosa : l’euro, che è la macina di mulino al nostro collo.

Il Pil sotto l’euro: dove cresce e dove crolla



L’Italia resta volontariamente sotto il giogo ormai inutile di Bruxelles; e servilmente attaccata alla politica americana, una politica che manifesta ormai una confusione autodistruttiva quasi demente. Il presidente Obama cancella l’incontro con Putin come ritorsione per la mancata estradizione di Snowden, credendo di fare un dispetto ad una potenza di second’ordine; ma la Russia è uscita da tempo dallo status di isolata rovina di un impero collassato. È uno dei BRIC, il che significa che cresce a tassi del 7% annuo. Che il suo debito è sull’8-10% del Pil (noi siamo ormai al 134%, gli Usa al 101%); che sotto la presidenza Putin il Pil è più che raddoppiato, portando la sua economia dal 22° all’undicesimo posto nel mondo; anzi, se si valuta il Pil a parità di prezzi (PPP), al sesto posto. La popolazione in stato di povertà è passato dal 30% nel 2000 al 14% oggi. La crescita industriale è ripresa e così quella agricola, il salario medio è cresciuto dagli 80 ai 640 dollari, la disoccupazione è al 5,6%, il credito al consumo è cresciuto di... 45 volte in soli sei anni (2000-2006), ciò che testimonia la crescita di una notevole classe media. (List of sovereign states by current account balance)

Il punto è che tutti questi successi russi sono dovuti in gran parte all’integrazione sempre più «strutturale» con la potenza economica industriale germanica, ossia quella integrazione per impedire al quale gli Stati Uniti entrarono nella seconda guerra mondiale stroncando con milioni di tonnellate di bombe il Reich hitleriano (ironia della storia).

Integrazione russo-tedesca

Esempio: se non avete fatto in tempo a viaggiare sulla Transiberiana romantica ed arretrata, che lentamente arriva a Vladivostok dopo un paio di settimane, ormai dovete rinunciarvi. La Transiberiana non è più quella. Ormai centinaia di locomotive Siemens superveloci tirano, su binari AEG ed elettrificati da consorzi industriali germanici, soprattutto merci: ormai il 13% delle merci che Cina, Giappone e Corea vendono a noi europei arrivano via terra con la Transiberiana rinnovata, sottraendosi così al traffico marittimo, e di conseguenza alle piraterie assortite dello stretto di Kra in agguato nell’arcipelago indonesiano. Oltretutto, le merci via mare arrivano in 28 giorni, se arrivano); via Transiberiana, sono in Europa entro 10 giorni. Non meno di 120 milioni di tonnellate passano per la Russia, e la fanno lucrare buoni noli, fino ai terminali occidentali – naturalmente tedeschi. Tant’è vero che Mosca ha deciso di aumentare la capacità di traffico di almeno 55 milioni di tonnellate, spendendo 17 miliardi di dollari, triplicare per il 2020 la capacità dei terminali portuali della costa del Pacifico (Vladivostok e non solo), e sta freneticamente ampliando il porto di San Pietroburgo; comprando altri 675 locomotori elettrici Siemens, per 3,2 miliardi di dollari.

Se fossimo marziani potremmo divertirci a fare dello spirito sul fatto che Bruxelles, l’eurocrazia e i politicanti europoidi hanno tenuto Mosca fuori dalla porta, le hanno sempre negato lo status di partner alla pari, trovandola non abbastanza democratica (e poco filoamericana); ed ancor oggi schifano Putin perché sostiene il regime siriano contro Al Qaeda, la nostra alleata, e soprattutto perché non riconosce i diritti sacrosanti del pervertiti, pietra di paragone della civiltà occidentale. Cosicché, invece di partner alla pari e soci di Vladimir quali avremmo potuto essere, siamo semplici clienti dei prodotti russi energetici. E che clienti: dipendiamo dalla Russia per il 34% dei nostri bisogni in gas naturale, per non parlare del petrolio di cui la Russia è forse oggi il secondo esportatore mondiale. E così, essendo schifiltosi, Italia, Francia e Polonia devono accettare contratti di fornitura a lungo termine a tutto vantaggio della Russia. La quale oggi gode di un surplus commerciale, laddove noi europei (salvo i tedeschi) affondiamo nel deficit anno dopo anno, in ciò non migliori degli Stati Uniti, che hanno avuto l’anno passato un deficit di 500 miliardi di dollari.

Ed anche la fornitura russa di energetici, avviene grazie alla cooperazione germanica. Con risultati politici di prima grandezza. Washington insiste a dipingere la Russia come «isolata», per colpa di Putin, sulla scena internazionale; e i nostri politici e media ripetono a pappagallo. Guarda caso, l’isolato Putin ha indotto l’Azerbaijan a preferire , per smerciare il suo gas del Caspio, la Trans-Adriatic Pipeline (che ci porterà il gas attraverso Grecia e Albania) condannando così il Nabucco fortemente voluto dagli americani; la Georgia, punita e penalizzata da questa scelta per la sua alleanza con Usa e Sion, adesso lecca di nuovo la mano di Mosca. La Romania, che contava di essere attraversata dal Nabucco, si trova ancor più decisamente legata all’Austria, e dunque agli interessi tedeschi. Diciamo meglio: russo-tedeschi integrati.

Isolato, Vladimir Putin? Eppure ai primi d’agosto il principe Bandar Bin Sultan, capo dell’intelligence saudita, ha voluto incontrarlo: e gli ha offerto di comprare 15 miliardi di armamenti russi, se Vlad smetteva di sostenere Assad in Siria. Vlad ha detto no, ovviamente. Anche per non trovarsi con le formidabili armi russe in mano ai patrioti di Al Qaeda che lottano per la democrazia a Damasco. Il solo fatto notevole di questo buco nell’acqua è che certamente il saudita ha fatto il passo su suggerimento o dopo consultazione con Washington.

Isolato? Barak Obama ha rifiutato di incontrare Putin al G-20: «Mr. Putin è un leader repressivo e arrogante che tratta il suo popolo con disprezzo», ha detto Obama (senti chi parla), ed ha «una mentalità da guerra fredda» (da che pulpito). L’annuncio della rottura presidenziale è avvenuto il 7 agosto. Il 9 agosto, i due principali ministri di Obama, John Kerry (Esteri) e Chuck Hagel (difesa) hanno avuto un incontro a quattrocchi coi pari-grado russi: il capo degli Esteri Lavrov (che aveva appena invitato gli americani a «comportarsi da adulti») e il ministro della Difesa russo, il generale Sergei Choigu, un siberiano di religione buddista.

Alla fine, Kerry e Lavrov hanno emanato un comunicato «franco» ma tutto sommato amichevole, pur chiarendo che non si sono fatti passi avanti nella questione che interessa Mosca, i missili a ridosso dei suoi confini, che gli americani mantengono (il che rende inutile il G-20, con o senza faccia a faccia). Cosa si siano detti i due ministri della guerra non si sa, perché entrambi sono dei taciturni. Ma basta ricordare che il faticoso e umiliante ritiro degli americani dall’Afghanistan, in corso da mesi lasciandosi dietro titanici tonnellaggi di materiale intrasportabile, dipende quasi esclusivamente dal volonteroso permesso russo di utilizzare le strade d’uscita dal Nord, che passano per l’area di influenza di Mosca, per capire che Hagel – che è adulto – ha motivi di non fare dichiarazioni che possano irritare Vlad. Non c’è motivo di isolarlo eccessivamente, a scanso di non trovarsi le truppe americane intrappolate davanti ai Talebani, e ad «Al Qaeda» infestatrice della lunga strada che passa dal Pakistan e il Kyber.

Giusto per ricordare chi dipende da chi, ecco come Putin ha risposto all’insulto di Obama e al rifiuto di incontrarlo prima del G-20: ha triplicato il prezzo per il trasporto dell’astronauta americano che nel 2016 sarà mandato sulla Stazione Spaziale Internazionale nel 2016. La NASA è costretta ad usare la Soyuz, e il biglietto, da ora, le costerà 71 milioni di dollari invece che 22. ($71M: Russia Triples Price to Fly U.S. Astronauts to Space Station)

Come si nota, la crescita economica russa resta ancor troppo basata sull’export di materie prime ed ora, sulla funzione di transito di merci asiatiche. Purtroppo, il suo potenziale industriale (e creatività intellettuale) non pare in grado di lanciare prodotti sofisticati sui mercati mondiali. Eppure questa capacità, inventiva e cultura industriale esistono ; la Russia non è il Venezuela né l’Iran. Lo dimostrano le nuove armi strategiche messe in cantiere per sostenere la politica mondiale di Mosca: un caccia di quinta generazione invisibile che i russi vantano come superiore allo F-22 e dovrebbe essere in uso dal 2015, e un sommergibile più silenzioso di quelli americani, classe Borey, che scende a 1200 piedi, è attrezzato con un generatore nucleare di nuova generazione, e porta 20 missili nucleari intercontinentali Bulava, ciascuno dei quali porta 10 testate atomiche ciascuna da 150 kilotoni. Mosca intende dotarsi di otto di questi sommergibili strategici, ciascuno al costo di 700 milioni di dollari ciascuno; cifra perfino modesta. Per confronto, il nostro lodevole Parlamento italiano ci costa 1,5 miliardi l’anno, ossia due sommergibili russi atomici ultimo modello. (The Launch Of Russia's New 'Silent' Sub Is Just One Step In Rebuilding Its Mighty Military)

L’approfondimento strategico delle relazioni germaniche con la Russia è l’oggetto di uno studio emanato da un importante think tank affiliato alla SPD, la Fondazione Friedrich Ebert, (Friedrich-Ebert-Stiftung: Germany and Russia in 2030. Scenarios for a Bilateral Relationship, Berlin 2013). Gli scenari previsti sono quattro.

Il primo contempla una strettissima collaborazione non solo economica ma di sicurezza, nell’eventualità (auspicata) che il regime di Putin venga rovesciato e al suo posto s’insedi un governo più filo-occidentale. A questo punto diverrà possibile una «alleanza basata su princìpi comuni»; la Russia darà i diritti agli omosessuali, ed allora sarà data attuazione alla German Russian Modernization Partnership, un trattato che è stato firmato da tempo, ma che Berlino non ha fino ad oggi onorato; le industrie antiquate della Russia sarebbero completamente rammodernate sotto direzione tedesca, mentre la partnership si estenderebbe nell’assicurare anche militarmente la stabilità dell’area centro-asiatica, nel presupposto che gli Stati Uniti «trasferiranno il loro centro di interessi nel Pacifico». Si ventila, in questo caso, persino un’entrata di Mosca nella NATO sotto il padrinato di Berlino.

Il secondo scenario prevede che Italia, Grecia ed altri stati del Sud siano costretti ad uscire dall’euro, e che permanga solo il nucleo centrale della UE, egemonizzato dalla Germania. Mosca sarebbe danneggiata dal collasso dell’eurozona, e la perdita dei mercati meridionali; e sarebbe probabilmente indotta a riorientarsi verso l’Asia estrema e la Cina; la relazione privilegiata con la Germania, però, non sarebbe scossa secondo la Stiftung.

Il terzo scenario prevede un ritorno ad una «nuova glaciazione», se la dirigenza russa dovesse ricorrere a violente misure repressive in risposta alle proteste interne, ed adottasse comportamenti apertamente «antidemocratici». Per la Germania gli sbocchi sul mercato russo diminuirebbero, e sarebbe necessario trovarne di nuovi, in America latina e in Asia orientale.

Il quarto scenario è «business as usual»: ossia la prosecuzione della situazione odierna. Grassi affari per le industrie tedesche, qualche occasionale tensione politica (nozze gay, Siria eccetera), ma la situazione mantenuta in corso, come oggi, dal duplice pragmatismo e dalla reciproca convenienza. Probabilmente è lo scenario più auspicabile dalla Cancelleria, a medio termine, perché non obbliga a riposizionamenti strategici.

Protettorato sulla Grecia

Come si vede, la Germania si tiene pronta anche al collasso dell’eurozona. Non per questo sta raggruppando attorno a sé i suoi satelliti per uscirne; vuole che siano costrette a farlo le nazioni del Sud, a cui potrà dare la responsabilità della rottura. Nel frattempo, le imprese tedesche cavano vantaggi persino dalle tragedie più disperate dell’eurozona. Per esempio è il ministero tedesco della Sanità che riorganizza la sanità greca, essendosi fatto assegnare il compito dalla Troika. Nel sistema sanitario ellenico un gruppo di imprese tedesche si occupa di inserire «elementi di competitività» e «un’efficace gestione dei costi», naturalmente dietro compenso. Vale la pena di ricordare che le devastazioni prodotte dalle misura di austerità draconiana allo staterello debitore sta avendo i più sinistri effetti. Un numero enorme di lavoratori greci, ormai disoccupati – il 25% – hanno perso anche la copertura sanitaria, e devono pagare le spese mediche di tasca propria, se ci riescono. Non ci riescono, e si stanno diffondendo più rapidamente che mai malattie come l’Aids e la malaria, la tbc e la febbre dengue. La mortalità infantile è crescita del 40% dal 2009, in gran parte per mancanza di medicinali. Ora la Germania ha preso in mano la «riforma» del sistema sanitario greco, s’intende nel quadro delle misure di austerità imposte dai creditori. Le direttive della Troika hanno sancito che la spesa sanitaria ellenica non deve superare il 6% del Prodotto interno lordo (la Germania spende l’11,3%); il fatto è che, a causa delle politiche di rigore imposte, il prodotto interno lordo sta precipitando – da 231 miliardi del 2009 è passato a 193 miliardi nel 2012 – e dunque anche le risorse disponibili per la salute si restringono tragicamente: da 14 miliardi a 9,5. Il governo greco ha chiuso 46 ospedali su 130 e tagliato del 40% le finanze di quelli rimasti. Ciò non solo ha creato altre centinaia di migliaia di disoccupati, ma anche nuovi debiti, per miliardi, come sempre accade a causa delle misure di austerità (anche il debito italiano, a forza di austerità, è ormai vicino al 135% del Pil). (Grèce, Irlande et Portugal: pourquoi les accords conclus avec la Troïka sont odieux?)

Questa situazione sta suscitando proteste di ambienti medici prestigiosi. La rivista medica The Lancet ha condotto un’indagine in Grecia, concludendo che «la combinazione di politiche di austerità, di shock economici e deficienti misure sociali di protezione sta portando ad una escalation delle crisi socio-sanitarie in Europa». Persino organizzazioni umanitarie tedesche, come «Medico International» e la «Associazione Dottori Democratici» hanno protestato per le catastrofiche conseguenze del trattamento che i greci stanno subendo. Una ONG autorevole, «European Health Alliance», ha indirizzato una lettera aperta alla Commissione Europea, chiedendo un rovesciamento delle politiche attuali.

La Commissione Europea ha risposto: con una dichiarazione dove incita il governo ellenico di «mettere sotto controllo le spese ancora troppo alte nel campo della Sanità» (Statement by the European Commission, ECB and IMF on the review mission to Greece; www.europa.eu). La Troika, dopo l’ultima ispezione, ha voluto impegnare (costringere) la Grecia a «più concreti passi» per ulteriori tagli di spesa. Dopotutto, il governo ellenico «deve», come ha prescritto il Fondo Monetario, abbassare il suo debito al 124% del Pil entro il 2020, e scendere ancora al 11% nel 2022. Oggi, il debito ellenico è il 174%. Quanti denutriti, malati non curati e morti si devono totalizzare per raggiungere questo esito? Ma che importa? Importa che la Grecia abbia ottenuto una tranche del nuovo prestito di 4 miliardi di euro promesso dalle autorità europee; 1,5 miliardi che servono solo a tenere i greci attaccati al filo. Una «carità» che funziona così: una parte degli interessi che la Grecia ha versati ai Paesi suoi creditori nella UE, gli verranno restituiti: al tasso del 5%. Le banche e lo stato tedeschi possono indebitarsi al 2%, e prestare alla loro vittima dissanguata, guadagnandoci un lucro.

* * *

Dunque ricapitoliamo: Berlino esercita un protettorato surrettizio (e dunque sfruttatore) sul Paese-vittima (che non parlando tedesco non merita simpatia), e configura – a nostra insaputa e passività dei nostri politici – un Anschluss di fatto. Non ci resta, sconsolati, che ricordare che l’Italia di Mussolini reagì contro il primo tentativo di unificazione germanofona. Accadde nel 1934, quando i nazisti uccisero il cancelliere austriaco Dolfuss: il Duce schierò le truppe sul Brennero, in adempienza al trattato italo-austriaco allora vigente, che ci impegnava a difendere l’Austria da un’invasione straniera. La deterrenza funzionò (non si sapeva in che stato erano «le truppe» nostre); Hitler, che ammirava Mussolini e si considerava suo allievo, soprassedette.

Fu il momento in cui le Potenze occidentali avrebbero potuto e dovuto separare i destini del Fascismo dalla Germania hitleriana, riconoscendo a Mussolini l’onore di forza stabilizzatrice nel contesto europeo, e il possesso di una chiaroveggenza politica che alle altre capitali, cieche, mancava. Invece, nel 1935, per la nostra invasione d’Etiopia, ci imposero le sanzioni. La Società delle Nazioni, su istigazione britannico-francese, proibì le esportazioni dall’Italia e le importazioni verso l’Italia. Mussolini non ebbe altra strada che approfondire i legami con la Germania nazista, che della Società delle Nazioni non faceva parte. Nel 1938, quando le truppe hitleriane entrarono in Austria, fra gli applausi delle folle, per annetterla, non ci furono opposizioni.



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