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Il Modernismo impenitente di Benedetto XVI (1-2)
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Introduzione

Le dimissioni di Benedetto XVI

Dopo aver annunciato le sue dimissioni, l’11 febbraio 2013, per mancanza di forze fisiche e morali che non gli avrebbe consentito di agire per il bene della Chiesa, Benedetto XVI ha incontrato il Clero di Roma, al quale - il 14 febbraio - ha proluso una “Lectio magistralis” sul Concilio Vaticano II, la sua retta interpretazione ed è tornato con la memoria ai ricordi storico/teologici della sua partecipazione da giovane teologo al Concilio, prima come teologo privato del cardinal Frings e poi come “Perito ufficiale” del Concilio.

Pertanto, mi vorrei soffermare su questo testo, che esprime la teologia modernistica di Ratzinger/Benedetto XVI dal 1959 al 2013, testo ufficialmente diffuso dalla “Radio Vaticana”, il lettore potrà leggerlo sul sito VATICAN NEWS, 14 febbraio 2013.

In esso si costata che l’85nne Benedetto XVI nel 2013 è sostanzialmente identico al 38nne don Ratzinger del 1960-65. Egli, infatti, è restato un convinto assertore delle novità introdotte dalla “nouvelle théologie” nella Pastorale del Vaticano II.

Questa è la vera “tragedia” e non l’aver dato le dimissioni per motivi d’incapacità di governare la Chiesa (ammesso che la motivazione sia realmente questa).

Aver riunito ad Assisi nell’ottobre del 2102 tutte le false “religioni” assieme all’unica vera, è un atto in sé inaccettabile e in rottura con la Tradizione apostolica: basta leggere l’Enciclica “Mortalium animos” di Pio XI del 1928.

Aver elogiato la Collegialità, la rivolta contro gli Schemi preparatori del S. Uffizio, l’Ecumenismo, la Riforma della Messa anche nel momento che precede le sue dimissioni ed il redde rationem finale è qualcosa di molto grave, che deve aprirci gli occhi sulla mentalità di Benedetto XVI, anche quanto alla liberalizzazione della Messa tradizionale del 7 luglio 2007, per non cadere nel trabocchetto della “Continuità” tra Concilio Vaticano II e Tradizione apostolica, la quale è smentita implicitamente da ciò che dice lo stesso papa Ratzinger, il quale proclama - ma non dimostra - la ‘non-rottura’ del Vaticano II con la Tradizione.

Il discorso del 14 febbraio 2013 e Commento

Il discorso di Benedetto XVI è bene articolato e riafferma quasi tutti i grandi temi del Vaticano II in quest’ordine: 1a Parte) la Chiesa e la Modernità (in 3 Tesi e 3 Risposte); 2a Parte) l’Ecclesiologia (in 7 Tesi e 7 Risposte); 3a Parte) la Riforma liturgica (in 3 Tesi e 3 Risposte).

Per aiutare il lettore ho diviso il testo in tre Parti, esponendo le Tesi di papa Ratzinger e cercando di dare una Risposta a ciascuna di esse.

Il Testo di Benedetto XVI diviso in Tesi

PRIMA PARTE

“CHIESA E MODERNITÀ”

Tre Tesi e tre Risposte

1a Tesi di Ratzinger

Il primo punto esposto da Benedetto XVI lascia più che perplessi. Infatti, esso contiene l’utopica conciliabilità tra Concilio e il mondo del Pensiero Moderno”.

Rispondo

La Modernità è caratterizzata dal Soggettivismo (religioso di Lutero, filosofico di Cartesio e socio/politico di Rousseau). Il Concilio Vaticano II ha preteso di conciliare la Modernità filosofica iniziata da Cartesio, perfezionata da Kant e ultimata da Hegel con il Cattolicesimo.

Ora, questa è l’essenza del Modernismo, il quale - come insegna San Pio X nell’Enciclica Pascendi (8 settembre 1907) - è “lo spurio connubio di Cristianesimo e kantismo”, ossia una contradictio in terminis, che sfocia nella “cloaca di tutte le eresie” (ivi).

Infatti, l’uomo, secondo il kantismo, è Supremo Legislatore di se stesso. Egli agisce moralmente soltanto quando osserva la sua legge; se si sottomette alla Legge divina, si ha l’eteronomia (sottomissione a una legge estranea) che è immorale, poiché contraddice l’autonomia della morale. Kant ripete, con parole più sfumate, il non serviam di Lucifero e lo erige a sistema “filosofico”. La filosofia moderna si fonda sul principio di autonomia assoluta e di autosufficienza completa dell’uomo, ossia dell’allontanamento dell’uomo da Dio con la conseguenza dell’autodistruzione progressiva.

Dio (come pure l’essere partecipato-creaturale, la ragione umana e la logica, la morale oggettiva e naturale), soprattutto nell’epoca contemporanea, è visto come il male da combattere, distruggere ed uccidere[1]. Eppure il Vaticano II ha voluto conciliare il Vangelo con la Modernità.

L’uomo contemporaneo si sente limitato da Dio, dalla sua Chiesa, dalla vera Religione, dall’essere extra-mentale, dalla logica e dalla morale oggettiva. Quindi, è impossibile conciliare Cattolicesimo e Modernità o post-Modernità, tranne che la Modernità si converta al Cattolicesimo e sconfessi se stessa o che i Cristiani abiurino il Cattolicesimo ed aderiscano alla Modernità. Purtroppo, il dialogo conciliare con la Modernità ha portato i Cristiani e gli Ecclesiastici all’aggiornamento, ossia all’adattamento e all’accettazione della Modernità soggettivistica.

L’ateismo implicito iniziale e il deicidio, come ateismo esplicito compiuto, rappresentano la natura del processo filosofico moderno, che dialetticamente prima nega Dio e, poi, nichilisticamente lo vorrebbe uccidere.

La negazione del peccato originale è una conseguenza pratica della negazione di un Dio creatore, che limita l’uomo come creatura. Infatti, il peccato originale infligge all’Uomo/totale o Assoluto una doppia ferita: quella della creaturalità e della vulnerabilità, che egli non è più disposto ad accettare, come avveniva in passato[2]. L’uomo si protende, invece, verso un Umanesimo integrale[3], che è ateismo e nichilismo radicale.

Da questa filosofia è nata la contrapposizione radicale tra il Cristianesimo tradizionale e il mondo moderno-contemporaneo. Contraddizione che è stata volutamente ignorata da alcuni Ecclesiastici modernisti e che essi hanno cercato di superare nel disperato tentativo di conciliare il teocentrismo con l’antropocentrismo (Gaudium et spes, 22, 24). Alcuni di loro hanno detto esplicitamente che la natura esige la grazia e implicitamente che l’uomo è Dio (Henry de Lubac, Surnaturel, Parigi, 1946). Tuttavia, il mondo ha rifiutato, in larga misura, questa mano tesa da parte dell’arrendevolezza modernistica ed ha riaffermato, sempre più marcatamente, la diversità e la contrarietà tra Fede e ragione, tra Grazia e natura, tra Chiesa e Stato.

Il cuore del “problema dell’ora presente” è propriamente la velleità di conciliare l’inconciliabile, teocentrismo e antropocentrismo, Messa romana e Novus Ordo, Tradizione divino-apostolica e Vaticano II, Collegialità episcopale e Primato di Pietro. Questa velleità è stata il cuore della teologia del giovane Ratzinger e del Pontificato di Benedetto XVI modernista impenitente sino alla fine (v. Discorso al Clero Romano del 14 febbraio 2013).

2a Tesi di Ratzinger

«Speravamo che tutto si rinnovasse, che venisse una nuova Pentecoste, una nuova era della Chiesa» (Benedetto XVI). 

Rispondo

Questa Tesi ecclesiologica della Nuova era dell’economia della salvezza e di una Nuovissima Chiesa pneumatica già venne espressa da Gioacchino da Fiore, di cui J. Ratzinger come dottore privato è un profondo conoscitore.

Essa, però, è stata condannata dalla Chiesa. San Tommaso d’Aquino, risponde e confuta (meglio di ogni altro) gli errori millenaristi di Gioacchino e della sua scuola. Nella Somma Teologica dimostra che la Nuova Alleanza e la Chiesa di Cristo fondata su Pietro durerà sino alla fine del mondo (S. Th., I-II, q. 106, a. 4). Infatti, la Nuova Alleanza è succeduta alla Vecchia, come il più perfetto al meno perfetto. Ora, nello stato della vita umana in questo mondo, nulla può essere più perfetto di Cristo e della Nuova Legge, poiché qualcosa è perfetto in quanto si avvicina al suo fine. Ora, Cristo ci introduce – grazie alla sua Incarnazione e morte – in Cielo. Quindi, non vi può essere – su questa terra – nulla di più perfetto di Gesù e della sua Chiesa.

Per quanto riguarda lo Spirito Santo, come perfezionatore dell’opera della Redenzione di Cristo, esso è inviato proprio da Cristo per confessare Cristo stesso, che ha promesso formalmente ai suoi Apostoli: “Lo Spirito Santo che Io vi manderò, procedendo dal Padre, renderà testimonianza di Me”. Quindi, il Paraclito non è l’iniziatore di una terza era, ma testimonia e spiega Cristo agli uomini e li rafforza per poterlo imitare. Onde, dopo l’Antica e la Nuova Legge, su questa terra non vi sarà una terza Alleanza, ma il terzo stato sarà quello dell’eternità, sempre felice nel Cielo o sempre infelice nell’Inferno. Gioacchino erra nel trasportare la realtà ultramondana o eterna su questa terra. Il Regno, di cui parla l’abate da Fiore, non riguarda questo mondo, ma l’aldilà. Infatti, lo Spirito Santo ha spiegato agli Apostoli (il giorno di Pentecoste del 33) tutta la verità che Cristo aveva predicato e che loro non avevano ancora capito appieno. Il Paraclito non deve insegnare una nuovissima Legge o un altro Vangelo più spirituale di quello di Cristo, ma deve solo illuminare e dar forza per ben conoscere e ben vivere la dottrina cristiana, che ha perfezionato quella mosaica (S. Th., I-II, q. 106, a. 4). Inoltre, la Vecchia Legge, non fu solo del Padre, ma anche del Figlio (raffigurato e prefigurato da Mosè); come pure la Nuova Legge non fu solo del Figlio, ma anche dello Spirito promesso e inviato da Cristo ai suoi Apostoli. La Legge di Cristo è la Grazia dello Spirito santo, che illumina, vivifica e irrobustisce per poter osservare la Legge divina. Così come già nell’Antico Testamento era lo Spirito Santo a illuminare e corroborare i Patriarchi e i Profeti, i quali, pur vivendo sotto la Vecchia Legge, avevano già lo spirito della Nuova e la vivevano eroicamente mediante la grazia dello Spirito Santo (per attribuzione).  Quando Gesù insegna agli Apostoli che “Il Regno dei Cieli è vicino”, non si riferisce – spiega san Tommaso – solo alla distruzione di Gerusalemme, come termine definitivo della Vecchia Alleanza e inizio formale della Nuova, ma anche alla fine del mondo (S. Th., I-II, q. 6, a. 4, ad 4; ivi, III, q. 34, a. 1, ad 1; ivi, III, q. 7, a. 4, ad 3 et 4). Infatti, il Vangelo di Cristo è la ‘Buona Novella’ del Regno (ancora imperfetto) della ‘Chiesa militante’ su questa terra e del Regno (oramai e per sempre perfetto) della ‘Chiesa trionfante’ nei Cieli. Inoltre, nel Commento a Matteo sul discorso escatologico di Gesù (XXIV, 36), san Tommaso postilla: “Qualcuno potrebbe credere che questo discorso di Cristo, riguardi solo la fine di Gerusalemme; però sarebbe un grosso errore riferire tutto quanto è stato detto solo alla distruzione della Città santa e quindi la spiegazione è diversa… cioè che tutti gli uomini e i fedeli in Cristo sono una sola generazione e che il genere umano e la fede cristiana durerà sino alla fine del mondo” (Expos. In Matth. c. XXIV, 34). L’Angelico, si basa su tale testo per confutare l’errore gioachimita, secondo il quale la Nuova alleanza o la Chiesa di Cristo non durerà sino alla fine dei tempi; egli riprende l’insegnamento patristico (specialmente del Crisostomo e di San Gregorio Magno) e lo sviluppa anche nella Somma Teologica (I-II, q. 106, a. 4, sed contra). Perciò, il cristianesimo durerà sino alla fine del mondo e non ci sarà bisogno di una ‘terza Alleanza pneumatica e universale’(Catolikòs), ma la Chiesa di Cristo è il Regno del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo (con buona pace di Gioacchino e seguaci) né occorre sognare il rimpiazzamento del cristianesimo, basta solo viverlo sempre più intensamente.

I teologi renani del Vaticano II erano imbevuti di questa malsana ideologia che attendeva una Chiesa di un’ipotetica “Terza Alleanza”, del Pentecostalismo, del Carismatismo, del Rinnovamento dello Spirito, del Cammino Neocatecumenale e del Sentimentalismo religioso. È Ratzinger stesso che lo ricorda.

3a Tesi di Ratzinger

«Si sentiva che la Chiesa non andava avanti, ma sembrava piuttosto una realtà del passato e non la portatrice del futuro» (Benedetto XVI).

Rispondo

Qui si tocca il problema dei rapporti tra la Chiesa, e specialmente il Concilio Vaticano II, e la Tradizione. Per questo motivo affronto questo problema nella prima parte dell’articolo: “Concilio e Modernità” e non nella seconda parte sulla “Ecclesiologia”.  

Infatti, la Chiesa per andare avanti omogeneamente e non eterogeneamente deve rifarsi alle sue radici o alla sua Tradizione, “vita e giovinezza della Chiesa” (B. Gherardini), che assieme alla S. Scrittura è una delle due fonti della divina Rivelazione. Ora, parlare di una Chiesa tutta protesa in avanti e svalutarne il passato storico (per esempio, il preteso errore sul caso Galileo) equivale a tagliare le radici di un albero e condannarlo alla morte.

Tradidi quod et accepi” (1 Cor., XV, 3): non si può dare null’altro se  non ciò che si è ricevuto, l’Autorità nella Chiesa ha il compito di custodire, e trasmettere inviolato il ‘Deposito della Rivelazione’, senza cambiamenti sostanziali ed oggettivi, ma approfondendo la Fede, però sempre in eodem sensu. Come si vede la questione non è un bizantinismo, ma è di estrema attualità. Infatti, il pontificato di Benedetto XVI si è proteso ad affermare di leggere il Concilio Vaticano II non in discontinuità, ma in continuità con la Tradizione della Chiesa, mentre in realtà vi è una “continua discontinuità” tra il Vaticano II e la Tradizione apostolica. Onde, occorre sapere qual è la vera nozione di Tradizione e mettere a confronto la dottrina ricevuta e trasmessa dagli Apostoli sino a Pio XII con l’insegnamento del Vaticano II per vedere se tra essi vi è continuità e sviluppo omogeneo oppure eterogeneo. Non basta conclamare verbalmente continuità perché essa esista realmente. Ove si riscontra contrarietà e novità oggettiva, intrinseca ed eterogenea vi è rottura, che è la morte o l’interruzione della Tradizione, in quanto non si consegna ciò che si è ricevuto dagli Apostoli, ma nuove dottrine (“nova non nove/ cose nuove e non le stesse cose dette in maniera nuova”), ossia una “contro-tradizione”. Non si può sostituire la verità di ieri con quella di oggi a lei contraria o difforme, poiché la verità è una e immutabile sostanzialmente e oggettivamente “heri, hodie et in saecula”. Perciò, se è lecito e doveroso rileggere oggi la Tradizione per capire meglio e più profondamente ciò che ci fu detto ieri dagli Apostoli, non è mai lecito piegare l’insegnamento apostolico alle filosofie moderne immanentistiche e modernistiche e cambiarlo sostanzialmente in senso soggettivistico e relativistico.

Ora, per fare un esempio, la “Dei Verbum” del Concilio Vaticano II rigettò lo schema della Commissione preparatoria “De fontibus Revelationis” (avvenimento salutato con entusiasmo da Benedetto XVI sino al 14 febbraio 2013), che riprendeva le definizioni del Tridentino e del Vaticano I ed era stato preparato sotto la direzione del card. Alfredo Ottaviani vice-Prefetto del S. Uffizio (il cui Prefetto - si badi bene - era il Papa), e ciò per annacquare il peso della Tradizione a tutto vantaggio della sola Scrittura, in vista del dialogo interreligioso col protestantesimo, che aborrisce la Tradizione. Col Vaticano II non si parla più di duplice fonte della Rivelazione. Con il Vaticano II si misurò la Tradizione in base alla Scrittura: tutto ciò che non era scritto, non poteva essere ritenuto come vero; in breve si ribaltò la dottrina comune e definita dell’insufficienza della sola Scrittura nei confronti della Tradizione. Col Tridentino e il Vaticano I, la Tradizione era accolta perché proveniente da Gesù e dagli Apostoli, col Vaticano II (DV) è accolta se sono i teologi a riconoscere tale provenienza fondandosi sulla S. Scrittura, omologando Tradizione e Scrittura. La loro distinzione invece era stata ribadita anche dopo il Vaticano I da S. Pio X nel Decreto Lamentabili (1907) e poi da Pio XI nell’enciclica Mortalium animos (1928). Il problema è quindi di vedere se realmente la dottrina dell’unica fonte scritta della Rivelazione (Dei Verbum) sia contenuta nella Tradizione apostolica o sia una novità del Concilio (pastorale e non dogmatico) Vaticano II.

Il discorso di Benedetto XVI

SECONDA PARTE

“L’ECCELSIOLOGIA”

Sette Tesi e sette Risposte

1a Tesi di Ratzinger

«I Vescovi avrebbero letto testi già preparati, e i membri del Sinodo avrebbero semplicemente approvato e così si sarebbe svolto il Sinodo. I vescovi hanno concordato di non fare così, in quanto loro stessi sono i soggetti del Concilio. Il primo momento nel quale quest’atteggiamento si è mostrato, è stato subito il primo giorno» (Benedetto XVI).

Rispondo

La fase preparatoria iniziò il 5 giugno del 1960 e durò sino al 20 giugno del 1962; in essa si approntarono circa 70 schemi da discutere in Concilio, redatti in massima parte dal S. Uffizio, il cui Prefetto era il Papa ed il vice-Prefetto il card. Ottaviani. Questi 70 schemi rispondevano ai “Vota” che i Vescovi, sparsi nel mondo nelle loro proprie Diocesi, interpellati dal S. Uffizio, avevano inviato in Vaticano. Essi, quindi, come fece notare il card. Ottaviani, avevano un valore paragonabile al Magistero Ordinario Universale, ossia all’insegnamento impartito dai Vescovi sparsi nel mondo unitamente al Papa.

Il Concilio iniziò l’11 ottobre 1962 e terminò l’8 dicembre 1965. Sin dal 20 novembre 1962 (appena un mese dopo l’inizio del Concilio) si assisté al “colpo di mano” (elogiato con pertinacia ed ostinazione da Benedetto XVI il 14 febbraio 2013) del rifiuto della fase preparatoria (elaborata da papa Giovanni XXIII[4] e dal S. Uffizio, che rispondevano ai ‘Desideri’ dei Vescovi del mondo intero) e all’inizio di una nuova fase, sia cronologica che dottrinale. Infatti, i documenti poi partoriti dal ‘62 al ‘65 furono improntati alla dottrina della nouvelle théologie di alcuni ‘teologi’, dei quali Benedetto tesse l’elogio (“grandi figure”) nel suo discorso del 14 febbraio 2013, i quali, però, erano stati condannati 10 anni prima da Pio XII con l’Enciclica Humani generis (12 agosto 1950). Anche qui dove sta la continuità?

Per la collegialità episcopale «efficacissimo fu l’intervento del card. Frings, per il quale è legittimo supporre il contributo del suo teologo Ratzinger, il quale ancor oggi ne è un convinto assertore. Si trattò forse del discorso più incisivo dal punto di vista critico, giacché demoliva lo schema [preparatorio del S. Uffizio[5]: il “mito della  continuità” è smentito in verbis et in factis dal giovane Ratzinger e da Benedetto XVI, in piena continuità con se stesso, ma in ‘discontinuità-continua e costante’ con la Tradizione della Chiesa. Benedetto XVI rappresenta l’incarnazione della “discontinuità-continua”, come il cattolico liberale è “l’incoerenza stessa sussistente” (card. Louis Billot).

Storico è lo scontro (8 novembre 1963) che ebbe Frings con Ottaviani sulla collegialità, che indurrà «Paolo VI a chiedere a Jedin, Ratzinger e a Onclin alcuni pareri sulla riforma della Curia»[6]. Ottaviani rispose a Frings che “chi vuol essere una pecora di Cristo deve essere condotto al pascolo da Pietro che è il Pastore, e non sono le pecore [i Vescovi] che devono dirigere Pietro, ma è Pietro che deve guidare le pecore [i Vescovi] e gli agnelli [i fedeli]”. L’idea collegialista di Frings-Ratzinger non era comune neppure a tutto l’Episcopato tedesco. Infatti, in un resoconto del perito conciliare belga monsignor Albert Prignon si legge: «Per quanto riguarda le conferenze episcopali, Döpfner non era d’accordo con Frings al quale successe nel 1965 come presidente della “Conferenza Episcopale Tedesca”»[7].

Paradossalmente durante il Concilio, spiega monsignor Prignon[8], il card. Frings col suo giovane teologo J. Ratzinger appartenevano all’ala del collegialismo duro e addirittura “violento” per quanto riguarda l’apertura alla modernità e quindi essi furono più oltranzisti di Döpfner e Rahner, che allora erano collegialisti sfumati o mitigati. Infatti, furono proprio Frings e Ratzinger a bloccare nell’8 novembre del 1963 gli schemi preparatori dogmatici del S. Uffizio e ad indirizzare il Concilio verso la “pastoralità” modernistica e la riforma della Curia romana (1967). Tuttavia dopo il Concilio, forse per il mutar dei ruoli e dei posti, Ratzinger specialmente è divenuto il “moderato”, l’interprete del Concilio alla luce della Tradizione (a parole ma non a fatti) e lo sponsor dell’ermeneutica della continuità. Ciò che stupisce è il fatto, che ancora dopo cinquanta anni si caschi nelle stesse trappole, fidandosi di chi ha dissimulato per mezzo secolo.

La dottrina sulla ‘collegialità’ fu attaccata dalla rivista diretta da monsignor Antonio Piolanti “Divinitas” n. 1 del 1964 tramite due articoli, l’uno di Sua Ecc. monsignor Dino Staffa e l’altro di monsignor Ugo Emilio Lattanzi (che citava, confutandolo, anche il teologo J. Ratzinger), i quali vennero fatti distribuire in Concilio sotto forma di estratti dal card. Ottaviani.

La Collegialità episcopale è stata costantemente condannata dal Magistero ecclesiastico sino a Pio XII, il quale ancora tre mesi prima di morire nell’enciclica Ad Apostolorum principis (29 giugno 1958) ribadì, per la terza volta, dopo la Mystici Corporis del 1943 e la Ad Sinarum gentem del 1954, che la giurisdizione viene ai vescovi tramite il Papa. Il gallicanesimo o conciliarismo, invece, tende ad assegnare al Concilio ecumenico una funzione suprema, eguale se non superiore a quella del Papa.

Monsignor Prignon scrive: «Sembra che si sia arrivati al punto di minacciare di far saltare il Concilio nel caso passasse il testo votato sulla Collegialità. Si è accusato papa Montini come dottore privato di inclinare verso l’eresia»[9]. Infatti, il card. Arcadio Maria Larraona il 18 ottobre 1964 inviò una lettera a Paolo VI in cui fra l’altro scrisse: «Sarebbe nuovo, inaudito e ben strano che una dottrina [collegialità episcopale] passasse improvvisamente […] a divenire più probabile, anzi certa o addirittura matura per essere inserita in una Costituzione conciliare. Questo sarebbe cosa contraria a ogni norma ecclesiastica, sia in campo di definizioni infallibili pontificie sia d’insegnamenti conciliari anche non infallibili. […]. Lo schema [sulla collegialità] cambia il volto della Chiesa; infatti: la Chiesa diventa da monarchica, episcopale e collegiale, e ciò in virtù della consacrazione episcopale. Il Primato papale resta intaccato e svuotato. […]. Il Pontefice romano non è presentato come la Pietra sulla quale poggia tutta la Chiesa di Cristo (gerarchia e fedeli)[10]; non è descritto come Vicario in terra di Cristo; non è presentato come colui che solo ha il potere delle chiavi. […]. La Gerarchia di Giurisdizione, in quanto distinta dalla Gerarchia di Ordine, viene scardinata. Infatti, se si ammette che la consacrazione episcopale porta con sé le Potestà di Ordine ma anche, per diritto divino, tutte le Potestà di Giurisdizione (magistero e governo) non solo nella Chiesa propria ma anche in quella universale, evidentemente la distinzione oggettiva e reale tra Potere d’Ordine e Potere di Giurisdizione, diventa artificiosa, capricciosa e paurosamente vacillante. E tutto ciò – si badi bene – mentre tutte le fonti, le dichiarazioni dottrinali solenni, tridentine e posteriori, proclamano questa distinzione essere di diritto divino. […] La Chiesa avrebbe vissuto per molti secoli in diretta opposizione al diritto divino […]. Gli ortodossi e in parte i protestanti avrebbero dunque avuto ragione nei loro attacchi contro il Primato»[11].

Sempre sulla collegialità Rahner, e soprattutto Ratztinger, specificarono «ciò che era necessario per far parte del collegio» dei vescovi: secondo Ratzinger «si fa parte del collegio “vi consecrationis” […]. Non fu raggiunta, invece, l’intesa sulla necessità di ripetere la formula del Vaticano I sul primato del Papa: Salaverri e Maccarrone la avrebbero inserita nel paragrafo sulle relazioni tra Papa e collegio, mentre Rahner e Ratzinger non aderirono»[12].

Anzi, spiega Alberigo, se per la Collegialità Congar fece appello al senso di responsabilità dei Padri conciliari, perché non si aggiungesse altro disagio a quello che il Papa aveva già con le contestazioni del Coetus Internationalis Patrum[13], invece «Ratzinger è favorevole ad azioni dure per ottenere almeno un dibattito libero sulla questione»[14].  Quindi, Ratzinger sulla Collegialità era più radicale di Congar e persino di Karl Rahner.

2a Tesi di Ratzinger

«Frings ha detto che il Papa ha convocato i Vescovi nel Concilio ecumenico come un Soggetto che rinnovi la Chiesa.[…] Un’esperienza dell’universalità della Chiesa e della realtà concreta della Chiesa, che non semplicemente riceve imperativi dall’alto, ma cresce e va avanti – naturalmente – sotto la guida del Successore di Pietro» (Benedetto XVI).

Rispondo

Il Soggetto del Magisterium e dell’Imperium nella Chiesa è il Papa, che, se vuole, può - come Principe dei successori degli Apostoli - interpellare ab alto i Vescovi nelle loro Diocesi e pronunciarsi insieme con loro nel “Magistero Ordinario Universale”, oppure li riunisce straordinariamente o eccezionalmente in Concilio Ecumenico e li fa partecipare al suo Munus docendi et imperandi nel “Magistero Straordinario Universale”. Il Soggetto supremo del potere di governo e d’insegnamento nella Chiesa è uno solo: il Papa; non ce ne sono due: Papa e Vescovi, e ciò per volontà di Dio che ha detto: “Tu sei Pietro e su questa Pietra edificherò la Mia Chiesa” (Mt., XVI, 18). Si badi, Gesù ha detto “Tu … su Te”, non ha detto: “Voi siete il Mio Collegio e su Voi …”. Non si può negare che il Papa imperi dall’alto ai Vescovi, con buona pace di Frings e Ratzinger, senza negare il Primato di Pietro e dei suoi successori, infallibilmente definito de Fide divino-catholica dal Vaticano I.

3a Tesi di Ratzinger

«Il primo momento nel quale quest’atteggiamento si è mostrato, è stato subito il primo giorno. Erano state previste, per questo primo giorno, le elezioni delle Commissioni ed erano preparate in modo imparziale le liste, i nominativi. E queste liste erano da votare. Ma, sùbito i Padri hanno detto: “No, non vogliamo semplicemente votare liste già fatte. Siamo noi il soggetto”» (Benedetto XVI).

Rispondo

Abbiamo già visto che quest’atteggiamento è stato definito un “colpo di mano” contro le decisioni del S. Uffizio diretto dal Papa con la vice-gerenza di Ottaviani in risposta ai “Vota” dei Vescovi della Chiesa universale. Un atto grave sia dal punto di vista disciplinare che dottrinale. I Vescovi renani dissero: “noi siamo il Soggetto” del Sommo potere di Magisterium e di Imperium nella Chiesa, non è il Papa coadiuvato dalla Curia romana e dalla Prima e Massima Congregazione del S. Uffizio, non sono neppure i “Desideri” dei Vescovi sparsi nel mondo ciascuno nella sua Diocesi, ma siamo noi! La Chiesa è stata fondata “su di Noi e non su Pietro”; il Vangelo, quindi, ha sbagliato …

4a Tesi di Ratzinger

«Non era un atto rivoluzionario, ma un atto di coscienza, di responsabilità da parte dei Padri conciliari» (Benedetto XVI).

Rispondo

Invece era proprio un atto rivoluzionario, un “colpo di stato o di … Chiesa”, che mostrava l’avversione dei Padri renani verso Roma, il Papato, la struttura monarchica della Chiesa voluta da Dio, il S. Uffizio ed i “Vota” dell’Episcopato universale, quando non concordava con le loro opinioni neo/modernistiche. Anche la Collegialità episcopale va interpretata: se esprime la nuova teologia modernistica va bene; invece, se rimane fedele alla teologia tradizionale, allora non va più bene. Quindi vi è un Episcopato buono (quello renano/modernista) e uno cattivo (quello romano/antimodernista).

La Fede, contenuta nella S. Scrittura e nella Tradizione, ci insegna che i Vescovi devono ricevere dall’Alto, ossia dal Papa, che è il Primo e il Principe degli Apostoli, sia la Giurisdizione nella loro Diocesi, la quale viene assegnata loro dal Papa, sia la partecipazione al Sommo Magistero per la Chiesa universale, che non hanno come Vescovi ma solo quando il Papa li vuol unire a sé nel Magistero Universale, sia Ordinario che Straordinario. Un Vescovo senza Papa è acefalo, successore solo materiale e non formale degli Apostoli.

5a Tesi di Ratzinger

«Il Papa ha ricordato che il Concilio Vaticano I si era interrotto a causa della guerra franco-tedesca e così aveva sottolineato solo la dottrina sul primato, che è stata definita grazie a Dio in quel momento storico, e per la Chiesa era molto necessaria per il tempo seguente. Ma, era soltanto un elemento in un’ecclesiologia più vasta» (Benedetto XVI).

Rispondo

In realtà furono i bersaglieri dei Savoia a entrare a Roma nel 1870 e a interrompere il Vaticano I. È chiaro che per Benedetto XVI occorreva andare oltre la dottrina del Primato, la quale, storicisticamente parlando, era buona per il 1870, aggiornandola con la Collegialità che, come abbiamo visto, contesta il Primato petrino.

6a Tesi di Ratzinger

«Con la dottrina del Corpo mistico di Cristo si voleva dire che la Chiesa non è un’organizzazione, qualcosa di strutturale, giuridico, istituzionale, è anche questo, ma è un organismo, una realtà vitale, che entra nella mia anima, così che io stesso, proprio con la mia anima credente, sono elemento costruttivo della Chiesa come tale. In questo senso, Pio XII aveva scritto l’Enciclica Mystici Corporis Christi, come un passo verso un completamento dell’ecclesiologia del Vaticano I» (Benedetto XVI).

Rispondo

La Chiesa è un “Corpo”, quindi è un’organizzazione o Società giuridica. Pio XII nell’Enciclica del 1943 sul “Corpo Mistico di Cristo” non ha parlato di una Chiesa pneumatica, ma ha condannato questo errore insegnando che essa è il Corpo o la Società dei battezzati, che partecipano agli stessi Sacramenti, sono sottomessi ai legittimi Pastori o Vescovi e specialmente al Principe dei Pastori, il Romano Pontefice. Certamente la Chiesa è anche un’entità spirituale e mistica, fondata da Dio, che porta in  Cielo e conferisce la Grazia santificante mediante i Sacramenti.

7a Tesi di Ratzinger

«C'era questa idea di completare l’ecclesiologia in modo […] strutturale, cioè accanto alla successione di Pietro, alla sua funzione unica, definire anche meglio la funzione dei vescovi, del corpo episcopale. E per fare questo è stata trovata la parola 'collegialità', molto discussa con discussioni accanite, direi, un po’ esagerate anche. Ma, era la parola che serviva per esprimere che i vescovi, insieme, sono la continuazione dei Dodici, del corpo degli Apostoli» (Benedetto XVI).

Rispondo

La Collegialità episcopale pretende di riformare e deformare la struttura della Chiesa monarchica per istituzione divina.

La Chiesa è un Episcopato monarchico per volontà di Dio: “Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa” (Mt., XVI, 16). Un solo Capo, una monarchia. I Padri della Chiesa sin dal II secolo hanno insegnato tale verità rivelata nel Vangelo. Vedi S. Ignazio di Antiochia (Smirn., VIII, 1-2; IX, 1); la successione ininterrotta dei Vescovi e dei Papi a partire dagli Apostoli e da Pietro è segno della vera Chiesa di Cristo (S. Giustino Martire, Adv. haer., III, 3, I); senza successione apostolica non vi è vera Chiesa di Cristo (Tertulliano, De praescr., 32). Pietro è il primo e il Capo di tutti gli Apostoli, come ha definito di Fede il Vaticano I (DB 1823).

Il Primato su tutti gli Apostoli e su tutta la Chiesa promesso a Pietro in Matteo (XVI, 16-19) gli è stato conferito quando Cristo, dopo essere risorto, disse a Pietro: “Pasci [governa] i miei agnelli [Apostoli/Vescovi], pasci le mie pecorelle [sacerdoti e fedeli]” (Gv., XXI, 15-17). In questo senso l’hanno interpretato i Padri ecclesiastici unanimemente (v. Tertulliano, De mon. 8; Cipriano, De unit. Eccl., 4; Clemente Alessandrino, Quis dives salvetur, 21, 4; Cirillo di Gerusalemme, Cat., II, 19; S. Leone Magno, Sermo IV, 2).

Pietro, per divina istituzione, ha nei Papi i perpetui successori nel primato di governo sulla Chiesa: è una verità di Fede definita dal Concilio Vaticano I (DB 1825). L’edificio della Chiesa non può sussistere senza il fondamento che è Pietro e i Papi, così insegnano i Padri della Chiesa (v. Pietro Crisologo, Ep., XXV, 2; S. Leone Magno, Sermo III, 2): «Pietro è la ‘pietra’ che conferisce saldezza, [compattezza e unità] alla Chiesa» (A. Lang, Compendio di Apologetica, Torino, Marietti, 1960, p. 310).

don C. Nitoglia



[1] Cfr. C. Fabro, Introduzione all’ateismo moderno, 2 voll., Roma, Studium, 1967; A. Del Noce, Il problema dell’ateismo, Bologna, Il Mulino, 1964.

[2] Cfr. A. Del Noce, L’epoca della secolarizzazione, Milano, Giuffrè, 1970; C. Fabro, L’uomo e il rischio di Dio, Brescia, Morcelliana, 1964.

[3] Cfr. J. Maritain, Umanisme integral, Parigi, 1936.

[4] Purtroppo fu il medesimo Giovanni XXIII, che aveva letto e approvato (durante il 1960 e il 1961) gli schemi del S. Uffizio ad affossarli (nel 1962), sostenendo la manovra dei Teologi renani.

[5] G. Alberigo (diretta da), Storia del Concilio Vaticano II. La formazione della coscienza conciliare, ottobre 1962-settembre 1963, Bologna, Il Mulino, 1996, vol. II, p. 361.

[6] H. Jedin, Storia della mia vita, Brescia, 1987, pp. 314-315; J. Ratzinger, Das Konzil auf dem Weg. Rückblick auf die zweite Sitzungperiode, Köln, 1963-66 (tr. it., 1965-67), 4 voll., pp. 9-12.

[7] F-Prignon, n° 512 bis: relazione dattiloscritta sugli avvenimenti a partire dal 27 ottobre, pp. 10-11, cit. in G. Alberigo (diretta da), Storia del Concilio Vaticano II. Il concilio adulto, settembre 1963-settembre 1964, Bologna, Il Mulino, 1998, vol. III, p. 163, nota 100; cfr. A. S., vol. II, cap. 5, pp. 66-69.

[8] F-Prignon, cit. in G. Alberigo (diretta da), Storia del Concilio Vaticano II. Il concilio adulto, settembre 1963-settembre 1964, Bologna, Il Mulino, 1998, vol. III, p. 163-165.

[9] Nastro registrato spedito da monsignor Albert Prignon al card. Suenens, fine giugno 1964, F-Prignon, 828, cit. in G. Alberigo (diretta da), Storia del Concilio Vaticano II. La Chiesa come comunione, settembre 1964-settembre 1965, Bologna, Il Mulino, 1999, vol. IV, p. 86, nota 216.

[10] Questo concetto del Papato proprio della Collegialità episcopale spiegherebbe il perché delle dimissioni, annunziate già nel 2011, di Benedetto XVI. Infatti, il Papa è il Vescovo di Roma, ha una preminenza ma non un Primato. Quindi, come i Vescovi devono dare le dimissioni per limiti di età, con una decina di anni di posticipazione. Questo sarebbe il “colpo di mano finale” di Ratzinger per cambiare la struttura monarchica della Chiesa. Il ‘primo colpo di mano’ fu opera dei Vescovi renani (il 20 novembre 1962), che rigettarono gli Schemi preparati dal S. Uffizio, cui seguì lo scontro tra il card. Ottaviani e il card. Frings (il cui teologo era Ratzinger) l’8 novembre 1963 sulla Collegialità. Esattamente 50 anni dopo - l’11 febbraio 2013 - Ratzinger, divenuto Benedetto XVI, annunzia le sue dimissioni ed il 14 dello stesso mese precisa che non si ritira a vita privata. Quindi, lascia capire che il Papa, come gli altri Vescovi, deve andare in pensione a una certa età e fare il “Papa emerito”. Questo sarebbe “il colpo di grazia” all’Istituzione divinamente monarchica del Copro Mistico di Cristo, se la Chiesa non fosse assistita da Dio “tutti i giorni sino alla fine del mondo”. Però, “Dio lascia fare, ma non strafare” diceva Sant’Alfonso de Liguori. Certamente Ratzinger è un modernista lucido, teoretico e impenitente, sa quel che vuole e lo ottiene pian piano, mettendo i fedeli davanti al fatto compiuto. La stessa astuzia la ebbe durante il Vaticano II, quando i teologi progressisti si stavano irrigidendo contro la “Nota Explicativa Praevia” voluta da Paolo VI e avrebbero compromesso la dottrina della Collegialità mettendosi troppo apertamente contro la decisione del Papa, perciò la Collegialità sarebbe stata fatta bocciare dal Coetus Internationalis essendo usciti troppo allo scoperto i Renani contro il Papa stesso. Ma “per fortuna c’è Ratzinger” esclamò padre Yves Congar, “che con la sua perizia e prudenza ha saputo salvare ogni cosa”, facendo accettare la ‘Nota Praevia’ in quanto non votata dai Vescovi in Concilio e quindi non Documento conciliare…

[11] Cit. in M. Lefebvre, J’accuse le Concile, Martigny, Ed. Saint Gabriel, 1976, pp. 89-98.

[12] G. Alberigo (diretta da), Storia del Concilio Vaticano II. Il concilio adulto, settembre 1963-settembre 1964, Bologna, Il Mulino, 1998, vol. III, p. 129.

[13] G. Alberigo (diretta da), Storia del Concilio Vaticano II. La Chiesa come comunione, settembre 1964-settembre 1965, Bologna, Il Mulino, 1998, vol. IV, p. 469.

[14] Ivi.

 
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