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Yoga della divinità
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Dedico questa riflessione a tutti gli amanti dell’Oriente e delle sue pratiche.
Quanto riportato è soltanto frutto di piccole considerazioni sulla bontà e validità del messaggio veicolato da alcuni degli insegnamenti indiani.
L’intenzione di chi scrive, come dell’editore, non è mai quella di offendere chicchessia o di denigrare il Tizio di turno; si tratta di una battaglia accademica, che confronta ideologie e filosofie, cercando di argomentare le tesi portate avanti, alla Luce della Rivelazione Divina, unica e non sostituibile di Cristo, come perpetuata nel Magistero perenne della Sua Santa Chiesa.
Parliamo di un argomento che ci sta a cuore.

Fermo restando la possibilità accordataci da San Paolo di esaminare ogni cosa e di cogliere col discernimento ciò che è buono, la disamina che segue non può che lasciare perplessi sul «quanto» di buono effettivamente rimanga, epurata una filosofia esistenziale di alcuni dei suoi presupposti, contraddittori, mortiferi e perciò inaccettabili.
Lo scritto, di autori vari, è consultabile nella sua interezza su internet (1).
Riportiamo alcuni brani, al fine di essere più chiari e precisi negli interventi.

LY004859.jpgLo «yoga della divinità» o «yoga di essenza divina» (devayoga) è la pratica fondamentale ed essenziale delle 4 classi del tantra: in tutti i tantra infatti è previsto il devayoga per la rapida accumulazione di meriti e saggezza discriminante.
A partire da una buona comprensione della Vacuità e di bodhicitta, il praticante visualizza se stesso come una particolare divinità e vi si identifica, cancellando l’immagine di sé come essere ordinario e limitato.
Il primo elemento ad emergere per iniziarsi a questa pratica, ritenuta sublime, è quindi quello di identificarsi con il «divino», cancellando al contempo l’immagine realistica del proprio «limite» personale.
In questa pratica, un singolo momento di coscienza conosce la forma di una divinità mentre contemporaneamente è consapevole della sua natura di Vacuità: qui dunque meditazione sulla divinità e conoscenza della Vacuità coesistono in forma completa all’interno di un singolo momento cognitivo, cioè vi è la loro piena fusione all’interno di una singola entità di coscienza (che non è
la semplice congiunzione di due distinti fattori che si completano l’un l’altro).

Per questo la pratica yoga, anche l’esercizio più semplice, tendendo necessariamente a raggiungere questo scopo, non sarà mai «neutro», ma apparterrà sempre a questi (e dipenderà sempre da) presupposti ideologici.
Normalmente siamo insoddisfatti perchè abbiamo una visione ristretta, limitata e limitante della realtà e, in particolare, di ciò che siamo e di ciò che possiamo diventare: siamo intrappolati nell’insoddisfazione perché l’immagine che abbiamo di noi stessi è opprimente, inferiore e negativa.
Il nostro potenziale umano, le nostre risorse interiori, vanno invece considerate in modo trascendentalmente bello, puro, forte, abile e vitale, cioè ci dobbiamo vedere come dèi e come dee. […] Il tantra è l’antidoto che cura l’immagine molto limitata che abbiamo di noi stessi, fondata sull’auto-commiserazione.
Essa è il principale ostacolo alla crescita di amore e saggezza.
La cura consiste in una catarsi generata da un processo di alchimia psichica: ci emaniamo visualizzandoci come una divinità (yi-dam), riconoscendo le nostre qualità positive.
E’ questo il cosiddetto «yoga della divinità», in cui contempliamo l’orgoglio divino abbinato alla consapevolezza della Vacuità.
Ecco perpetuato il primo inganno.

Siamo infelici, perché non siamo abbastanza «divini»! perché soffocati nelle strettoie della nostre misera umanità.
Ma davvero è cosi?
Immaginate per un attimo che il peccato originale esistesse veramente: come è possibile superare l’ostacolo della corruzione e tristezza, nonché della concupiscenza e schiavitù che tale peccato reca in noi, se non additandolo per nome?
Se non c’è (ed è veramente difficile dimostrarlo da un realista esame della natura umana e delle leggi fisiche e chimiche che governano la vita dell’uomo), in quale danno può incorrere colui che lo ritenga come presupposto operativo, se non una semplice e veritiera percezione dell’esistenza di un limite presente nelle proprie potenzialità (limite che tuttavia può essere superato con l’aiuto della grazia)?
Nell’ipotesi completamente inversa (non considerazione del peccato originale supposto come non esistente), che beneficio può dare una pratica come lo yoga, che si fonda su tali presupposti filosofici?
Affermando ad occhi chiusi e volontaristicamente la necessità di sentirsi «dio» per stare bene con se stessi?
Se esiste il peccato originale, questo è il miglior modo per ignorarne gli effetti nefasti e per non trovare una vera cura al male che c’è, ma non si accetta.

Si può aggiungere inoltre: davvero pensiamo di non essere felici perché non «gonfiamo» abbastanza il nostro «ego», tanto che esso deve illudersi di essere divino, per sentirsi «appagato».
Signori miei, questa è una vera esaltazione dell’«io», «orgoglio divino», appunto (cioè demoniaco), che porta soltanto all’abisso e di felicità ne aggiunge davvero poca e quella poca finanche illusoria ed effimera.
L’identificazione del meditante col dio comporta la sua disidentificazione dagli aspetti parziali e dualistici del proprio essere.
Percependo il proprio io come se fosse già quintessenziato dalla bellezza e dalla forza della divinità - anticipando perciò l’effetto alla causa - si giunge alla maturazione dello «Stadio di Generazione».
L’illusione si fa radicale, perché esige il «come se fosse»: si prescinde da qualunque ponderazione del reale.

Quando riceviamo un’iniziazione, il maestro-vajra ci dà una divinità (yi-dam) da visualizzare in accordo col nostro temperamento (intellettuale, passionale, ecc.).
Ora, la «divina approssimazione» (lha’i bsñen-pa) o «approccio preliminare» (sÒon-du bsñen-pa byed-pa) è il periodo iniziale del devayoga, in quanto ci si familiarizza con quella determinata divinità avvicinandosi sempre più alla sua condizione. […]
Con l’esercizio, gradualmente ci si abitua a questa manifestazione di una divinità priva di esistenza reale, simile ad un’illusione.
La forma divina, come pure i suoni, ecc. si manifesteranno ancora, ma la nostra mente constaterà o coglierà esclusivamente la Vacuità.
Simile ad un’illusione?
Appunto: è proprio quello che si vive.

Avvicinandosi sempre più alla condizione della divinità del devayoga, la divinità stessa elargisce allo yogi le siddhi - o direttamente o conferendo alla mente del praticante una determinata capacità. Dopo il completamento dell’«approssimazione divina» avviene la vera e propria acquisizione delle siddhi mediante il compimento delle pratiche prescritte (offerta di olocausti, ripetizione di mantra, ecc.).
Nessuna meraviglia se l’iniziato a questo punto del suo percorso esoterico ottenga alcuni poteri.
Qui il demonio è libero di agire indisturbato e fare i portenti che vuole, come insegna Gesù nel Vangelo, perché la casa (l’anima della persona) è completamente ripulita e spazzata (senza nessuna difesa spirituale e razionale), quindi vi può soggiornare comodamente, perpetrando l’illusione che con sé reca.

Meditando sulla Vacuità, si immagina che tutte le cose si dissolvono in luce e si assorbono nel nostro corpo, che diviene vuoto e scompare: la nostra mente percepisce solo chiarezza e vuoto. La divinità può sorgere da questa chiara vacuità in due modi: o tutta ad un tratto (cioè istantaneamente) nell’interezza delle proprie sembianze oppure dalla trasformazione di un disco lunare e di una sillaba-seme.
In questo secondo caso, nel posto dove ci troviamo compare un fiore di loto, che si trasforma nel bianco disco di una luna piena; su questo appare l’essenza della nostra mente o coscienza nell’aspetto di una sillaba-seme (búja); questa si trasforma nella divinità, cioè assume il suo aspetto: la nostra mente si manifesta in tale forma divina e ci identifichiamo totalmente con questa.
Il meditante è convinto di essersi trasformato nello yi-dam, cosicchè visualizza se stesso con quel corpo divino, che è luminoso e vuoto (gsal-stoÒ lha-sku).
La persona che s’immagina come divinità è detta appunto «samayasattva» («Essere d’impegno»): essa non è la divinità vera e propria, ma ne è il simbolo.
Successivamente si evoca l’effettiva divinità, che è detta «jñõnasattva» («Essere di saggezza trascendentale»), invitandola ad abbandonare la sua Terra Pura (che è un’estensione del Dharmakõya) e ad approssimarsi a noi.
Questa divinità viene pertanto visualizzata davanti allo yogi: è una divinità simile al samayasattva, un secondo yi-dam sistemato e presente di fronte ad esso.
Questo procedimento è chiamato «ETERO-FONDAMENTO» (g²an-gyi g²i).
Infine si visualizza che il jñõnasattva entra nel samayasattva e fondendosi vi si dissolve, per cui lo yogi diventa la divinità vera e propria.
Questo processo è detto «INGRESSO» (g²ug-pa) di un «essere di saggezza».

Tutti questi processi di avanzamento sono ben conosciuti dalla mistica cristiana.
Gli esitasti avvertivano i propri discepoli di non sostare nell’immaginazione durante la preghiera, per rendere l’intenzione veramente pura a cercare Dio e non altro, neppure i frutti buoni e gustosi che dalla preghiera possano scaturire.
Aprire le porte all’immaginativo costituisce una debolezza ascetica, perché schiavizza l’intelletto – anzichè liberarlo - alla sentimentalità di meccanismi inconsci.
Quando poi a questo si aggiunge l’invocazione o l’evocazione, il gioco è fatto.
Chi ci assicura che non sia chiamato come alleato un demonio o un’anima perduta?
Che discernimento vi può essere in un percorso che si fonda inizialmente su una sorta di autoconvincimento?

Nel devayoga ogni cosa che appare è congiunta con la vacuità e con la divinità, il che significa attuare l’esperienza delle «4 complete purezze» di ambiente, di corpo, di risorse e di attività […] nelle attività quotidiane si dovrebbero purificare così tutte le manifestazioni del samsara ed integrarle nella Vacuità auto-illuminante, intravedendo così l’unità di tutte le cose.
In tal modo si mette in moto un processo di trasformazione che permette di sostituire le visioni ordinarie della nostra mente dal contenuto impuro con visioni pure.
Lo «yoga della divinità», se effettuato a partire da una buona comprensione intellettuale della vacuità, protegge la mente dalle apparenze e dai concetti ordinari attraverso le suddette «4 complete purezze».
Il maggior ostacolo alla pratica tantrica è considerare noi stessi, e il mondo che ci circonda, impuri: per cui dobbiamo trasformare la normale visione impura in visione pura.
Il maggior ostacolo è quindi considerare anche il proprio peccato e la propria condizione di peccatori?

Occorre precisare il peccato è solo il sostrato operativo di consapevolezza sul quale opera poi la grazia divinizzante dello Spirito Santo.
Non si tratta di autocommiserazione o avvilimento della personalità, tanto meno di pessimistica visione dell’esistenza, ma soltanto di riconoscimento del vero, in relazione alla vita e a Dio. Comprendersi macchiati dai peccati (originale e personali) è primo necessario stato di avanzamento nel percorso di un cuore che vuole davvero cambiare: a cosa deve rinunciare colui che si senta già puro in ogni cosa (del resto uno degli imperativi delle «4 purezze» è proprio questo: «qualunque azione da noi compiuta è vista come la suprema e pura attività illuminata di un buddha»)?
Si sentirà giustificato in ogni abominio commesso, senza dover rendere conto a niente né a nessuno: questa è l’anticamera del relativismo morale, capace di giustificare anche l’aberrante, come percorso di ricerca del divino (come di fatto accade).
Se non v’è vera rinuncia, l’«io» non muore affatto.
Anzi! vivrà ancor più pasciuto ed alimentato nelle tenebre della sua ingorda illusione divina.
Che diversità con la visione cristiana!
L’uomo sa che deve convertirsi: lo chiede Gesù!
Cambiare vita; rinunciare a tutto: criteri, pensieri, parole, modi di credere e vivere, modi di pregare, per smettere di essere di «carne» e vivere davvero dello Spirito Divino.
Operazione non possibile senza l’aiuto di Cristo stesso, che, accanto a chi Lo invochi, cambia davvero il cuore dell’uomo e quindi tutta la sua esistenza.

Il Sentiero Mahõyoga richiede quindi uno sforzo di applicazione consistente nel sevõsõdhana, cioè nei 4 rami della «generazione (o sviluppo)» e del «completamento (o perfezionamento)» :
1. l’avvicinamento (bsñen-pa): è la contemplazione della Vacuità, cioè della condizione della realtà com’è sin dall’origine;
2. l’avvicinamento completo (ñe-ba’i bsñen-pa): è la trasformazione di se stessi nella divinità maschile, cioè si tratta di percepire i propri skandha trasformati nei Padri (yab) e quindi di riconoscere la loro identità essenziale;
3. l’acquisizione (sgrub-pa): è la visualizzazione della forma divina femminile, nota come Madre (yum): essa è la manifestazione pura dell’energia dei 5«elementi».
Perciò si tratta di percepire gli «elementi» materiali trasformati nelle Madri divine e quindi di riconoscere la loro identità fondamentale;
4. la grande acquisizione (sgrub-pa chen-po): è l’unione del Padre (che rappresenta i 5 skandha) e della Madre (che rappresenta i 5 elementi): la beatitudine (sukha) che ne deriva è utilizzata dal praticante per dissolvere gli ostacoli più sottili all’Illuminazione.

Tramite questi 4 stadi si ottiene la sottomissione dei «4 demoni (mõra)»; con l’«avvicinamento» si sottomette il «demone della morte» (mÕtyupatimõra, ‘chi-bdag-gi bdud); con l’«avvicinamento completo» si sottomette il «demone degli aggregati» (skandha-mõra, phuÒ-po’i bdud); con l’«acquisizione» si sottomette il «demone delle emozioni» (kleæa-mõra, ñon-moÒs-pa’i bdud); con la «grande acquisizione» si sottomette il «demone [della distrazione, noto come il] figlio della divinità» (deva-putra-mõra, lha-pu’i bdud).
Così, nel Tantra, non si percepisce più il proprio corpo come qualcosa di ordinario o impuro, ma si diviene consapevoli della sua dimensione divina, identificando i 5 skandha con i 5 Dhyõnibuddha; i 5 elementi con le 5 Consorti dei Dhyõnibuddha; le 8 coscienze (rnam-æes) con gli 8 Bodhisattva. Non si tratta di costruire una natura di buddha o di diventare qualcun altro: si tratta solo di dissipare i veli dell’ignoranza per riconoscere lo stato primordiale, nudo. genuino, puro, privo di distorsioni concettuali.
Si acquisisce semplicemente la visione di ciò che siamo (cioè, del proprio stato di natura).
E’ vero!

La morte è un vero e proprio «demone», che esercita un fascino e terrore insieme sull’animo umano; per questo l’uomo cerca in ogni modo di esorcizzarla, credendosi divino!
Cioè superiore al transeunte incedere del suo dissolvimento.
Ma la realtà brutale e cruda lo smentisce categoricamente.
Dov’è questa buddhità, questa divinità tanto sbandierata di fronte al sempre verde giardino di coloro che concimano il «mondo dei più»?
Dove?
L’autocompiacimento di sentirsi «dio» era già nascosto e rivelato insieme nella primordiale tentazione del serpente antico: «Sarete come Lui; si apriranno i vostri occhi»!
Non è forse quel che si sostiene dell’esperienza illuminativa dell’Oriente?
Apertura degli occhi alla consapevolezza del proprio «sé» divino!?

Caro lettore, se sei arrivato fino a qui, e non hai abbandonato prima ciò che stride alle tue orecchie, sappi che non in altri troverai la sorgente della vita e della felicità, se non in Cristo e nella sua Chiesa.
Questo, tuttavia, suppone l’umile preghiera del peccatore al tempio: «abbi pietà di me»; suppone rivolgersi alla Misericordia Divina, che sovrabbonda d’amore e consolazione per chi voglia davvero riceverla.
In cambio paga gioia autentica del cuore, spiritualità profonda, vera libertà, fiducia estrema in Colui che ama e che solo vuole portare al suo Impero di Luce e di Amore.

Stefano Maria Chiari



1) www.esonet.org/biblio/ebooks/Ebook.pdf


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