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Argentina: il nostro triste futuro
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Cari lettori, sono stato a Buenos Aires. Ho indagato su miracolo eucaristico, evento passato sotto silenzio dalla Chiesa, su cui forse riuscirò a scrivere un libro.

Oggi, però, voglio anticiparvi la mia sensazione: Buenos Aires come immagine del nostro futuro. Più avanti di noi, precisamente, nella decadenza. Infissi divorati dalla ruggine e cadenti, spazzatura, auto e cellulari di seconda mano, computer ingrigiti con gli schermi a tubo catodico, marciapiedi resi impraticabili dalla rotture delle piastrelle (come si usano lì) che nessuna aggiusta, riparazioni malfatte, maniglie che (nell’albergo a 4 stelle) ti restano in mano, bagno che perde, tetti dove le tegole rotte vengono sempre più estesamente, spicciativamente e con minor costo sostituite da lastre di metallo ondulato, martellate e peste: la mancanza di manutenzione nell’illusione di risparmiare, primo colpo d’occhio che rivela, allo straniero, la decadenza. La gente del posto non se ne accorge, s’è assuefatta al decadimento, in quanto è stato graduale, non vede più la stracca desolazione che la circonda. E l’inflazione, tornata al 30%. E gli scioperi dei dipendenti pubblici che vogliono aumenti sennò spaccano tutto, e la manifestazioni di piazza di questo o quel gruppo che esige sussidi, e la criminalità che risale, con la disoccupazione... Il tutto fra l’obelisco e la strada più larga del mondo, avenida Nueve de Julio, straordinari edifici copiati nel secolo scorso dalla Parigi di Luigi XIV o dalla Berlino neoclassica del ‘900, grattacieli di ieri e palazzi art déco, tutti i segni monumentali di quella che fu, fino agli anni ’40, se non un’epoca grande, un’epoca ricca, lussuosa – l’epoca in cui l’Argentina era esportatrice mondiale di carne e grani.

Tale è rimasta nell’età della globalizzazione e della new economy telecom-digitale, questo è il guaio. O uno dei guai, che si uniscono a tanti – e tutti, ahimé – i sintomi che vediamo in Italia.

Anche l’Argentina è stata sottoposta dall’estero alla fase di «austerità». Come i nostri politici hanno agganciato la nostra economia all’euro (ossia al marco tedesco), così quelli argentini imposero l’assurda convertibilità fra la moneta nazionale, il peso (valuta inesistente sul mercato globale) e il dollaro USA: per un peso, ti davano un dollaro. Faceva comodo ai grandi creditori internazionali, come oggi la condizione italiana fa comodo alla Germania. Come da noi con l’entrata nell’euro, si disse che la misura avrebbe reso più responsabili i governanti, inducendoli ad indebitare meno lo stato. Non funzionò. Fu una deflazione atroce, metà della popolazione disoccupata. Sotto le cure «di risanamento» del Fondo Monetario, il cui direttore esecutivo di allora per caso era il tedesco Horst Kohler, il quale è rimasto famoso in Argentina per una frase che noi, e i greci, abbiamo udito da Angela Merkel e dalla stampa tedesca: «Gli argentini debbono soffrire. Non c’è via d’uscita senza sofferenza».

In quel mentre, il FMI aveva prestato altri 8 miliardi di dollari (a tasso proibitivo) all’indebitato Paese: un prestito «supplementare» che si addizionò a tutti gli altri, e il cui solo esito – e forse, il solo scopo – fu di ritardare l’inevitabile bancarotta, in modo da facilitare la fuga dei capitali stranieri dall’Argentina: Goldman Sachs, JP Morgan e simili ebbero tutto il tempo di vendere i loro miliardi di pesos ricevendo altrettanti miliardi di dollari: oltre venti miliardi di dollari uscirono dall’Argentina fra ottobre 2001 e i primi giorni del 2002.

Quando il Paese fece default, il Wall Street Journal strillò d’indignazione e minacciò «gravi conseguenze» per il debitore insolvente , ma per un motivo che confessò così: prestare agli Stati sudamericani, scrisse, per la finanza globale «è stata una delle poche possibilità d’investimento con buoni profitti» nel decennio precedente. Eccome: buoni del Tesoro messicani rendevano l’8%, quelli venezuelani il 16, quelli argentini ad un certo punto anche più. È stato bello fin quando è durato, senza nessuno sforzo d’ingegno e senza rischio per gli «investitori», se si ha dalla propria parte il FMI che rallenta la crisi terminale dei paesi debitori, dando il tempo di ritirare i capitali alla pari.

Il Wall Street Journal, scrive Osvaldo Tcherkaski, grande giornalista argentino (ne avessimo noi uno così) «ha svelato il paradosso dei mercati finanziari globali: quanto più fanno crescere a livelli impagabili i debiti di questi Paesi, debiti generati dall’estorsione dei mercati stessi e gestiti dalle banche, maggiore è il profitto». È per questo meccanismo che i pochissimi ricchi sono diventati sempre più pochi e più ricchi, estraendo interessi da favola alle masse di poveri sempre più poveri, e sempre più numerosi. Per questo appunto la finanza ha voluto la globalizzazione.

Fatto è che l’Argentina ha rotto il gioco. Governanti per una volta coraggiosi (ne avessimo qualcuno noi...) hanno sganciato il peso dal dollaro e contestualmente, dichiarato bancarotta. Pardon, si parla di «ristrutturazione del debito» estero: ma anche così, significò un taglio del debito pari al 18% del Pil.

Così alleggerito, e con la svalutazione che lo rendeva di nuovo competitivo (e ghiotto per la finanza), il Paese – a prezzo di gravi sofferenze per parte della popolazione – ha preso a crescere impetuosamente; ha recuperato la caduta del 20% del livello di produzione, assorbito gran parte dell’enorme disoccupazione, soppresso la fiammata iper-inflattiva, ricostituito l’unità monetaria (nell’austerità, erano spuntate 14 sub-monete locali, provinciali). Anche il protezionismo ha svolto il compito benefico ben noto: industrie globali, come per esempio Samsung, per poter accedere al mercato argentino, hanno accettato di costruire (o montare) i cellulari in... Patagonia.

Questo impulso dinamico però s’è sfiatato. Lo dice Roberto Lavagna, il Ministro che ebbe il gran coraggio di ripudiare il debito: «Le opportunità che abbiamo costruito tutti insieme con grande sforzo nel periodo 2002-2006 si sono perse. In meno di due anni l’attivo di bilancio ottenuto si è ridotto a meno della metà, e nei due anni seguenti (200-2009) s’è tramutato nel quasi tradizionale passivo dei conti pubblici nazionali. Gli investimenti nella produzione reale sono rallentati dal 2006, e quindi la creazione di posti di lavoro è rallentata fino a giungere all’11% di disoccupati. L’inflazione accelera, la fuga di capitali è ripresa, le finanze delle provincie sono sempre più debilitate».

Insomma, dice Lavagna, «s’è sprecata l’occasione storica, che tanto ci è costata, e che non si doveva perdere». Se gli si chiedono le cause, l’elenco che ne fa evoca – sinistramente, desolatamente – l’elenco dei mali italiani. Per dirne solo qualcuno,

«Un federalismo non risolto» – edulcorata espressione per «istituzionalmente pasticciato alla furba per soddisfare le pretese centralizzatrici fingendo di devolvere poteri», dove le regioni (in Argentina, «province»), private della «prerogativa di gestione dei loro propri introiti», si trasformano in «mendicanti presso il Governo Centrale», che esercita così di nuovo il «centralismo di cassa, che consiste nel dare fondi in cambio di favori politici».

«Clientelismo», «limiti inefficaci al finanziamento dei partiti», «cariche elettive trasmesse ai familiari, padri, figli, fratelli, mogli...». «Sindacalismo» fierissimo, comunistoide, reovucionario, che picchetta le fabbriche e gli uffici pubblici, ed esige dallo Stato i soldi. «Fragilità istituzionale», ossia leggi malfatte e ampiamente disobbedite…

«Disordine dei conti pubblici che obbliga ad emettere titoli di debito a tassi altissimi d’interesse, abbandonando la politica di dis-indebitamento: dis-indebitamento che Lavagna non suggerisce «per ortodossia economicista», bensì «come strumento per “fare” politica economica, per prendere decisioni senza il condizionamento di fattori interni ed esteri»: i creditori, infatti, ti condizionano e ti impongono le loro ricette nell’interesse loro, non del Paese.

Politiche agricole dissennate, come «il massacro di bestiame da carne e da latte» perseguito per anni, allo scopo di sostenere i prezzi, e che ha ferito il motore principale dell’economia argentina.

«L’istruzione, fattore essenziale» e mancante: i poveri delle favelas (qui si chiamano «villas miserias»), in cui il cardinal Bergoglio ha visto sempre il suo vero gregge e tesoro di non si sa quale religiosità popolare ancor sana, sono sì poveri, ma – letteralmente – non sanno fare nulla: non hanno imparato alcun mestiere, e dunque il loro sbocco è la criminalità, la droga e la prostituzione, l’attività di cartonero (chi raccoglie cartoni usati ed altre spazzature per pochi pesos al giorno). Questo al livello basso della società. Ma al livello alto, Lavagna denuncia le falle del sapere scientifico e tecnologico nella borghesia imprenditoriale e nei pubblici dirigenti, il non saper produrre con ambizione «beni e servizi di qualità, varietà ed utilità superiore», accontentandosi di qualità inferiori. Occorre con urgenza una vera riforma dell’educazione, una frustata intellettuale: «Se non siamo capaci di questo tipo di sviluppo, il Paese decadrà vegetando come produttore di beni primari, agricoli e minerari, senza capacità di fare valore aggiunto e dunque lavoro qualificato». E magari, vantandosi che « come si mangia bene da noi, non si mangia da nessuna parte». Slow food ed Expo sull’alimentazione, invece che sulle tecnologie d’avanguardia...

… ma scusate, mi sto confondendo. Non so più se parlo dell’Argentina o dell’Italia. Del resto, cosa volete: metà degli argentini sono italiani, e tutti se lo ricordano, e quasi tutti hanno visitato i Paesi dei loro nonni e genitori: in Calabria, in Sicilia per lo più... Quasi tutti hanno il sogno di tornare, l’idea di un’uscita di sicurezza, che impedisce di metter radici nel comune destino argentino.

Lo ammette Lavagna: «Al peggio della crisi del 2002, il Paese ha vissuto una solidarietà e una unità eccezionale: ricchi e poveri erano tutti meno egoisti, più responsabili, più comunitari». Come in guerra, il Paese si rinsaldò. «Oggi questi comportamenti si sono diluiti. Nella classe alta è riapparsa l’idea del Paese in cui si vive, nel quale si dorme, ma nel quale non si tengono i principali impegni economici, i veri investimenti. Nei professionisti e imprenditori, riappare il consumo di ostentazione, del mostrarsi spesso al costo di non essere, e non di rado conseguito indebitandosi. I settori più bassi e poveri sono tornati ad essere sempre più abulici, discreditati, e sempre più si vanno di nuovo convertendo in soggetti passivi del clientelismo».

Come nel nostro Meridione, mi vien da dire. Lavagna conclude che occorre «un impegno della società per un progetto nazionale», l’impegno all’inesorabile, non evitabile, «destino comune». Difficile, quando metà della popolazione è italiana, un ben noto non-popolo, e divorata dalla nostalgia e dal sogno di tornare- in Calabria.

Argentina, bella donna non amata, dico a Fernando Gonzalez, che è stato mio generoso anfitrione nei giorni passati. Fernando è un giudice della Cassazione penale argentina, giovane, intelligentissimo, coltissimo (20 mila i volumi della sua biblioteca), tradizionalista cattolico. Devo a lui tutti gli incontri importanti che ho avuto, spesso eccellenze intellettuali vere (come l’antico gesuita padre Saenz), ne avessimo alcune qui... Fernando mi ha raccontato che il Governo Kirchner, di sinistra, ha stancato tutti; ma che a destra non ha un candidato presentabile per le prossime elezioni. Anche in questo, è Italia. «Argentina, bella donna che i suoi uomini non amano», gli ripeto. Lui dapprima nega, vuol difendere gli argentini; poi si addolora e mi dice: «La tua frase mi fa pensare».




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