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Aspettando il false flag...
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Alla ricerca di notizie concrete sul «terror alert» di un imminente attacco di Al Qaeda, che ha indotto Washington a chiudere quasi tutte le sue ambasciate nel mondo islamico, ho consultato un po’ tutti siti alternativi d’intelligence americani.

Nessuno ci crede, nessuno.

Al contrario, i media occidentali ci credono tutti.

Tutti, nessuno escluso. Dovunque dagli Usa all’Europa all’Australia, riportano disciplinatamente il succo dei comunicati ufficiali: le autorità americane hanno ricevuto «la più altamente specifica e credibile informazione da anni» (the most specific, credible threat information in years); ciò risulta da «un messaggio intercettato fra importanti operativi di Al Qaeda» (an intercepted message between senior al Qaeda operatives), il che secondo il Washington Times «indica che il gruppo terrorista responsabile dell’11 settembre rappresenta ancora un pericolo significativo per gli Usa».

Forse supera tutti ABC News, che ha definito l’attacco imminente non solo «big», ma anche «strategically significant», e intervista un tal deputato, il representative Ruppersberger che fa parte della commissione intelligence della Camera bassa (che notoriamente conta niente), e fa una precisazione letteralmente esplosiva: «Siamo preoccupati di bombe impiantate chirurgicamente» nel corpo di un terrorista suicida. L’intervistatore deve avere un moto d’incredulità, perché Ruppersberger insiste: «Quelli (di Al Qaeda) sono tipi che hanno sviluppato tecniche per sventare i nostri detectors». Del resto Al Zawahiri il loro capo supremo (che infatti ha inviato puntuale un messaggio di minaccia) non è, all’origine, un medico? Forse già circola il kamikaze imbottito di plastico nella pancia, come il tacchino ripieno del Tanksgiving Day. Non dev’essere facilissimo per il kamikaze, non solo superare la convalescenza post-operatoria, ma per il peso: dieci, venti chili basteranno? Si teme di no: le autobombe di Al Qaeda o talebane, per far danni «strategicamente significativi», devono comporsi di «quintali» di esplosivo.

Ma ABC ricorda «i più di mille membri di Al Qaeda fuggiti dalle prigioni», e lo dice anche Interpol: solo nel mese scorso, si sono verificate fughe in massa (jailbreacks) simultanee di terroristi e criminali in nove Paesi (dicesi 9), fra cui Irak, Libia e Pakistan; e si sospetta che siano state tutte «organizzate da Al Qaeda». È chiaro, dice il neocon New York Post, che si tratta di nuovo materiale umano per «la risorgenza di Al Qaeda». Da gran tempo atteso, dopo che il rischio Al Qaeda sembrava esaurito.

Il guaio è che lo stesso New York Post, forse involontariamente, nella foga di accusare Obama, rivela che queste fughe di massa sono un «inside job»: quelli scappati sono tutti prigionieri già in custodia Usa (alcuni a Guantanamo), e recentemente consegnati dagli Usa al governo afghano, a quello iracheno, ai sauditi, e persino – udite udite – al «governo» libico, che in pratica non esiste: teneteli voi, che scontino in patria la loro pena. All’Arabia Saudita, patria e finanziatore di Al Qaeda, hanno dato addirittura 126 ex prigionieri di Guantanamo, parecchio incattiviti; ed ora, disdetta, lo stesso regno saudita deve riconoscere che i suoi rinomati programmi di riabilitazione sono stati un disastro, che i recidivi sono «almeno il 40%» ed una decina si sono già uniti «ad Al Qaeda in Yemen»... (Obama’s Al Qaeda Jailbreaks Help Lead to Al Qaeda Resurgence)

Quanti di questi fuggiaschi sono già in giro, chirurgicamente ripieni di esplosivo? L’elenco della ambasciate che gli Usa hanno chiuso è di per sé impressionante: Iraq, Afghanistan, Qatar, Bahrain, Oman, Kuwait, Bangladesh, Saudi Arabia, Libya, Yemen, UAE, Algeria, Mauritania, Sudan, Israel (Tel Aviv) and Jordan). È proprio vero che Al Qaeda è in cielo-in-terra e in ogni luogo, è tornato ad essere il Nemico più potente che gli Usa abbiano dovuto mai affrontare: più del Giappone imperiale e la Germania hitleriana messi insieme, Al Qaeda occupa uno spazio strategico immenso.

Comincia la terza guerra mondiale?

È il sospetto di taluni blogger: se l’attentato – o la catena di attentati – sarà «strategicamente significativa», occorrerà pure che le forze armate Usa diano una risposta «strategica». Per forza. Come dopo l’aggressione nipponica a Pearl Harbor, come dopo l’attacco vietnamita nel Tonkino, come dopo l’11 settembre che obbligò ad occupare Irak e Afghanistan...

Ma la maggior parte dei blogger pensano invece ad un allarmismo ad uso interno, per spaventare gli americani, distrarli dagli «scandali dell’amministrazione Obama», dal disastro economico fatto pagare a loro (il 40% dei lavoratori in Usa guadagnano oggi meno del salario minimo che il lavoratore Usa percepiva nel 1968), o per far accettare loro nuove e più strette sorveglianze sulle loro vite, compresi i droni sulle loro città che vanno ad occhieggiare alle loro finestre? Qualcuno fa notare la somiglianza sempre più impressionante che la massima democrazia della storia («Ci odiano per la nostra libertà»: così Bush spiegò l’attentato dell’11 settembre...) sta assumendo con il regime distopico descritto da Orwell nel suo 1984: da «Il Grande Fratello vi sta guardando» (NSA, droni in città eccetera) alla «miseria» mascherata da statistiche finte di successi economici («Siamo in ripresa»), e finalmente la «guerra perpetua» («Siamo sempre stati in guerra con l’Estasia», ecco che torna Al Qaeda).

Ricapitoliamo: secondo il governo Usa, «qualcuno di Al Qaeda, ma non sappiamo esattamente chi, sta per fare qualcosa, non sappiamo esattamente cosa, da qualche parte del Medio Oriente, ma non siamo in grado di dirvi dove, entro la fine del mese, ma non sappiamo dirvi quando» (l’alert alle ambasciate finisce il 31 luglio, oggi prolungato il 10 agosto: come mai si pensa che il migliaio di neo-qaedisti scatenati dalle prigioni smettano di nuocere dopo quella data?). E lo dice un governo screditato, già colto più volte a mentire, di cui i sondaggi dicono che ha il minor tasso di credibilità della storia; e dicono che gli americani sono più preoccupati delle intercettazioni della NSA che dai terroristi islamici... Ciò fa davvero temere che elementi alle corde di questo potere disperato preparino attacchi terroristi, magari multipli attentati in tante località, per impedire con la confusione che si metta a fuoco un fatto determinato, dove si scoprono le falle.

Come a Bengasi, per esempio

L’assalto di terroristi islamici all’ambasciata Usda a Benghasi, che l’11 settembre 2012 ha portato al massacro dell’ambasciatore Chris Stevens e le sue guardie del corpo. Ora, a poco a poco, attraverso indiscrezioni spifferate nei corridoi del potere, si è appurato che s’è trattato di una ambigua operazione andata a male: «Agenzie americane (leggi: Cia) operanti a Bengasi sotto la guida dell’ambasciatore Stevens, stavano segretamente aiutando a trasferire dei missili terra-aria fuori della Libia, attraverso la Turchia, nelle mani dei ribelli siriani»: l’ha scritto persino la CNN, ed è detto tutto. (Dozens of CIA operatives on the ground during Benghazi attack)

Effettivamente, nel dicembre 2011 il Dipartimento di Stato si vantò di «aver messo in sicurezza» ben cinquemila di questi missili» (MANPAD a spalla) provenienti dagli enormi arsenali di Gheddafi, e anzi assicurò di averli distrutti presso il villaggio di Sidi Bin Nur in Libia. (5,000 surface-to-air missiles secured in Libya: US)

Si è anche appreso, da audizioni al Congresso, che Stevens aveva «ingaggiato la Brigata dei Martiri 17 Febbraio» per «proteggere la missione diplomatica in Bengasi». Tale brigata esibiva lo stemma di Al Qaeda ed è federata, come ammesso da una commissione senatoriale, «con Ansar as-Sharia». Insomma la Cia si fidava di questi qaedisti, e ne reclutava in parte per mandarli in Siria. Solo che l’11 settembre 2012, qualcosa è andato storto, non sappiamo esattamente cosa (quei 5 mila missili a spalla hanno fatto gola ad altri «terroristi libici»?) e c’è stato il massacro.

A maggio, un ex funzionario del Dipartimento di Stato, Steve Pieczenik (oggi autore di scritti complottisti) ha insinuato che la tragedia possa essere opera del Pentagono, intesa far fallire l’operazione della CIA. «Il governo non è mai un tutt’uno», ha detto Pieczenik, ad Alex Jones, «da trenta o quarant’anni c’è questo conflitto tra i militari, la Cia e l’Fbi. La Cia è dominata da civili che sono fuori controllo».

La prova? Non c’è. C’è però un indizio, come si ricorderà: una unità di forze speciali americane stazionava quella notte a Tripoli, poteva intervenire in aereo, e non rispose alla richiesta di aiuto da Stevens. E questo l’ha detto, al Congresso, nientemeno che Gregory Hicks, l’ex ambasciatore a Bengasi prima di Stevens.

Comunque sia, si tratta di cose indecifrabili per noi, col nostro livello di informazioni. Non ci resta che aspettare l’attentato di Al Qaeda, se avverrà, e vederne in controluce il cui prodest. Nell’attesa di eviscerare il nucleo di verità nella menzogna mediatica che seguirà, vi diamo una notizia vera:

Monsanto ha comprato Blackwater

Così è, secondo un’inchiesta assai documentata apparsa su The Nation. Occorre ricordare che Blackwater è la più grande armata mercenaria del mondo, che offre i suoi «military services» al governo americano e ad altri governi, oltre che a multinazionali. Ad essere in vena di humor nero, si
potrebbe commentare che in tal modo Monsanto controlla – finalmente – l’intero mercato della letalità: ti ammazza con gli ogm, ti ammazza col suo Roundup (il celebre erbicida per l’agricoltura, che prima – guerra del Vietnam – ebbe successo come defoliante sotto il nome di Agente Arancio), ed ora è in grado di farti fuori con i suoi sicari aziendali. Un ciclo completo di produzione-consumo, come raccomandato dai teorici del capitalismo.

Quanto a Blackwater, se negli ultimi se n’è sentito parlare meno, è per due motivi. Primo: dopo i numerosi delitti commessi dai suoi uomini (resta celebre un massacro gratuito di civili a Bagdad nel 2007, per «fare strada» ad automezzi di gente del Dipartimento di Stato) ha cambiato nome più di una volta, diventando prima l’anodino Xe Services ed oggi, l’innocuissimo Academi; sotto quel nome, può quasi essere scambiata per una scuola di lingue, o una università; ma sempre Blackwater è. (Blackwater admits to facts behind 17 federal charges)

L’altro motivo è che il modus operandi dell’agenzia privata di mercenari è diventato molto meno guascone, e molto più occulto e riservato, specie al servizio di grandi multinazionali. È appunto quello che The Nation ha investigato. (Blackwater's Black Ops)

Secondo l’autore, il giornalista Jeremy Scahill, la Blackwater intrattiene lucrosi contratti con colossi come Monsanto, Chevron, Barclay’s Bank e Deutsche Bank, attraverso «più di trenta sussidiarie di facciata» (shell companies, le ha definite il New York Times) per far perdere le sue tracce.

Erik Prince
  Erik Prince
Le più importanti sono due: la «Total Intelligence Solutions» e «Terrorism Research Center». Di entrambe figura presidente (ma solo nei documenti interni) Erik Prince, l’ex-Navy Seal, fanatico neocon e «cristiano rinato» millenarista che ha fondato la Blackwater. Accanitamente liberista («I am a very free market guy», disse), Prince ha avuto il genio di capire per tempo il grande spazio che la nuova politica americana offriva al «mercato» dei servizi militari privati, diventando il più grosso sub-contractor del governo Usa, utile per operazioni che il governo medesimo vuol avere la possibilità di negare. Senza stupore si apprenderà che il suo personale è affollato di ex-commandos o alti dirigenti della Cia, che vi trovano una seconda carriera con stipendi migliori di quelli pubblici; un personale capace di fornire i più diversi servizi, dall’intelligence all’infiltrazione, dall’informazione legale all’addestramento paramilitare, dalla «security» alle «operazioni militari non-convenzionali» fino all’azione di Lobbying: l’azienda ha molti amici fra i Repubblicani al Congresso.

Uno dei più rilevanti fra questi personaggi è Cofer Black. Direttore della Cia per l’Antiterrorismo, è noto per aver oculatamente fallito nella «guerra ad Al Qaeda», lasciandosi sfuggire Bin Laden per un ventennio; ragion per cui, dopo che «Al Qaeda» compì il mega-attentato dell’11 settembre 2001, il presidente Bush jr. nominò Black «ambassador at large for Counter-terrorism», affidandogli la caccia a Bin Laden. Caccia fallita ovviamente, ma in quella carica Black si distinse per brutalità, adattando le «tecniche SERE» ai nuovi bisogni, di fatto il waterboarding ed altre forme di interrogatorio-tortura. (Cofer Black)

Ebbene: questo Cofer Black, nel 2008, in qualità di direttore della Total Intelligence Service, contatta Monsanto offrendo i servizi della ditta alla multinazionale. Nel gennaio 2008, ha un incontro a Zurigo con Kevin Wilson, il «security manager» della Monsanto «per le questioni globali».

Cofer Black
  Cofer Black
Quali sono le questioni globali che preoccupano Monsanto, risulta da una mail dello stesso Black, evidentemente finita in mano al giornalista (Wikileak?): sono i gruppi di attivisti anti-ogm, sostenitori dei diritti degli animali eccetera. L’uomo Monsanto chiedeva se Blackwater «poteva mettere persone sue all’interno di tali gruppi», ovviamente «in modo legale». Da lì, si arrivò a parlare di altri servizi che la ditta poteva fornire, dalla «raccolta di dati da internet», ad altri tipi di «sostegno» fino al «mettere stivali sul terreno legittimamente a protezione del nome e marchio Monsanto», fino a raccolta di «informazioni oltre l’orizzonte» (ahead of the curve), «anticipate» e «analisi in profondità», in pratica il controllo di altre società farmaceutiche e biotecnologiche concorrenti. Black promise che la sua azienda «poteva col tempo diventare l’intera branca d’intelligence di Monsanto».

I colloqui sono evidentemente proseguiti con sempre più spiccata e fattiva comprensione reciproca, visto che oggi Monsanto ha incamerato la più grossa agenzia di mercenari in affari nel pianeta. Il fondatore Erik Prince, carico di soldi per la vendita, s’è stabilito ad Abu Dhabi, negli Emirati Arabi Uniti. Il perché l’ha spiegato lui stesso: Abu Dhabi «gode di grande prossimità alle opportunità offerte dal Medio Oriente, ha una logistica favolosa, quasi niente tasse, niente sindacati né avvocati», insomma «un clima molto favorevole al libero commercio». Erik Prince non s’è ritirato dagli affari, come si vede. E pronto ad afferrare le «opportunità» della guerra perpetua orwelliana. Magari quelle che si presenteranno dopo l’atteso False Flag di Al Qaeda, chissà...



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