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Dall’Afghanistan una buona notizia
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La produzione del papavero da oppio è calata notevolmente in Afghanistan. Secondo l’ONU, 20 della 34 provincie del Paese saranno «opium-free» entro quest’anno. Anche nella provincia di Helmand, dominata dai Talebani (che si finanziano con lo spaccio di oppio) si vedono nei campi, secondo i pochi giornalisti che si sono avventurati lì, altre coltivazioni.

Il fatto curioso (e istruttivo) è che questo risultato non è stato raggiunto con operazioni di polizia armata, con eradicazioni forzate, incursioni e incendi di campi, nè con lanci di missili e bombardamenti NATO. I contadini afghani hanno cambiato coltivazioni spontaneamente.

Motivo: il rincaro dei prezzi cerealicoli, che ha reso conveniente coltivare grano anzichè papavero. Determinante è stato il fatto che il vicino Pakistan, come altri Paesi dell’area, ha vietato l’esportazione del suo grano, onde coprire prima il fabbisogno interno. Il calo repentino dell’offerta di grano pakistano in Afghanistan, e il conseguente rialzo dei prezzi, ha indotto i contadini ad ampliare le estensioni coltivate a grano per sè e per il proprio Paese.

Ciò viene esaltato come una vittoria del «libero mercato», una conferma della infallibile «mano invisibile» e della legge della domanda ed offerta (1). Potrebbe altrettanto bene essere giudicata una vittoria dell’autarchia, dell’autosufficienza alimentare.  Soprattutto, dimostra che i contadini, fondamento delle società, sono i meno pagati nella catena dell’economia. Appena i loro prodotti sono compensati decentemente, essi tornano a «funzionare» come nutritori dei popoli.

Evidentemente, persino quando producevano oppio, i contadini afghani non ricevevano il «giusto» compenso, ossia proporzionato al valore «di mercato» della droga e dei suoi atroci derivati (eroina). I trafficanti fanno miliardi con una merce che, all’origine, hanno pagato come un qualsiasi prodotto agricolo o poco più. In ogni caso, non abbastanza da battere la «competizione» coi prezzi del grano, rincarato del 300% in dieci mesi.

Per i Talebani, il cambiamento di coltivazione può avere gravi effetti strategico militari. E’ improbabile che s’impadroniscano dei profitti granari, inoltrandolo per i canali clandestini che hanno in opera per l’oppio: non fosse altro, per il motivo che il grano si deve vendere a vagonate perchè sia profittevole come un pane di resina d’oppio che si può nascondere in un’auto. Ma c’è un motivo più profondo.

Poichè i contadini possono vendere direttamente o almeno legalmente il loro grano, o alla peggio nutrire le loro famiglia con la propria produzione, essi sono diventati indipendenti dalla rete finanziaria-commerciale messa in atto dai Talebani. I coltivatori avevano bisogno della rete talebana per trasformare la resina d’oppio in denaro contante con cui far vivere le famiglie.

Ora non più, o sempre meno. E ciò sicuramente cambia la struttura economica e l’architettura del  potere messa in piedi dai talebani a proprio favore. Sono loro ad aver più bisogno di scambiare oppio per liquidità, perchè devono arruolare  e stipendiare i loro combattenti. Ora quella fonte di profitto si assottiglia, mentre i rincari di carburanti e delle razioni alimentari ai loro militanti aggiunge una maggior pressione alla loro cassa bellica.

Questa lezione sarà dimenticata con il prossimo raccolto, che si prospetta sovrabbondante su scala mondiale, perchè i rincari hanno stimolato ad estendere dovunque i terreni coltivati a cereali. Allora i prezzi caleranno e i contadini torneranno a ricevere, per il loro essenziale lavoro, la solita miseria. Seminare papaveri tornerà conveniente.

Basterebbe invece assicurare ai coltivatori un modesto premio sul loro grano, insomma riconoscere anche a loro una quota del profitto della speculazione: non sarebbe quel premio a determinare gli atroci rincari che abbiamo sofferto in questi mesi, dato che il prezzo della materia prima influisce solo in minima parte sul prezzo finale «di mercato» del pane e della pasta. Ma esiste vita intelligente sul pianeta Terra?

A proposito di grano: occhio all’Argentina. E’ il più grande esportatore mondiale di granaglie (il primo per la soya, il secondo per il mais), e sta godendo il frutto dei rincari come nessun altro. Il suo avanzo commerciale è sui 12 miliardi di dollari, le sue riserve in valuta estera superano i 50 miliardi di dollari. Insomma non è mai stata così bene.

Sembrano lontani i giorni in cui l’Argentina smise di pagare i suoi Buoni del Tesoro, i famigerati bond argentini, rifilati alle banche europee e, dalle nostre banche, agli ignari risparmiatori italiani, una bancarotta da 95 miliardi di dollari di debito estero.

Invece, l’Argentina lo sta rifacendo un’altra volta. Questa volta, in modo surrettizio. Come?

L’Argentina continua ad emettere titoli di debito. E per invogliare gli investitori esteri scottati l’altra volta, ha collegato i frutti di questi titoli all’inflazione. Ossia essi pagano l’8,9% in più di titoli analoghi, perchè tale è il tasso d’inflazione argentino. Quello ufficiale però, quello definito dall’Ufficio Statistico Nazionale.

In realtà, in Argentina, l’inflazione corre al 25% almeno. Le statistiche ufficiali sono manipolate, e il motive è chiaro. Chi compra i buoni argentini, riceve in termini reali meno di quanto li ha pagati. L’interesse reale è negativo. E chi ha comprato bond agentini indicizzati?

Ancora una volta, banche europee, americane, fondi pensione. Che riusciranno ancora una volta a rifilarli ai piccoli risparmiatori, o rovineranno ingenui pensionati. Decisamente, non pare che esista vita intelligente sulla Terra.

E ancor più attenzione: l’Argentina non è la sola ad emettere bond indicizzati, che non salvano dalla inflazione perchè i dati sull’inflazione interna sono manipolati al ribasso.

Circolano almeno 300 miliardi di dollari di BOT indicizzati emessi da Turchia, Ungheria, Polonia, Messico, Brasile, Sud Africa ed altri «mercati emergenti». Occhio quando il direttore della vostra banca vi proporrà questi esotici «investimenti» che sono «ultra-sicuri» perchè «preservano il potere d’acquisto». Può darsi che vi proponga persino BOT ucraini (inflazione ufficiale 50%), del Venezuela (29%), del ricchissimo Katar (17%) persino della sicurissima Arabia Saudita (9,6%). Mandatelo in quel posto, il vostro bancario, dove non l’avete mandato l’altra volta.

Tutti i tassi d’interesse, dice Morgan Stanley, sono oggi negativi rispetto all’inflazione - inflazione prodotta dalle Banche Centrali per salvare i loro speculatori in bancarotta con le famose iniezioni di liquidità, ossia mettendo in circolo denaro creato dal nulla.

«I tassi d’interesse su scala globale sono del 4,3 %, mentre l’inflazione è del 5%» (2). Par di sognare: 5% d’inflazione? Un sogno, come quando la Banca Centrale Europea allarma: l’inflazione è «senza precedenti» in Europa, al 3,6%. Magari. Come tutti sappiamo, l’inflazione reale è doppia o tripla (solo il grano, vedete, è rincarato del 300%, il petrolio del 400%).

Così si comincia a intuire anche il gioco della BCE: non è più serio nè più morale di quello dell’Argentina. Anche la BCE ha deciso di rubare i vostri e i nostri risparmi, compensandoli con interessi negativi, per loro a costo sottozero. Con la complicità degli «economisti» da cattedra, da giornale, da Bankitalia, da tutti gli enti ufficiali, hanno deciso di far pagare a noi, fino all’ultimo euro, i loro salvataggi di bancarottieri. E lo faranno, il potere è tutto loro.




1) Chan Akiya, «Mr. Market combats the Talibans», Asia Times, 31 maggio 2008.
2) Ambrose Evans-Pritchard, «Argentine alert as inflation spectre stalks half the world», Telegraph, 2 giugno 2008.

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