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Ponzio Pilato, Cesare e il Sinedrio
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Prologo

Studiando attentamente il processo di Gesù si capisce come il Sinedrio, mediante Cesare (Tiberio), abbia manipolato Pilato: il Procuratore romano della Giudea. La Teologia ci aiuta a penetrare nelle pieghe nascoste della storia umana, a farci scorgere chi muove le fila di essa da dietro le quinte. Ad una prima vista superficiale si direbbe che il ruolo più importante e decisivo lo abbiano giocato Cesare e Pilato, mentre la realtà è l’esatto contrario: un piccolo manipolo di Sacerdoti, Scribi e Farisei ha mosso l’Imperatore come un puparo fa con il pupo. Una mano nascosta dirige tutto…

I fatti storici

Tiberio elesse come primo Procuratore della Giudea, durante il suo potere imperiale, Valerio Grato, che governò dal 15 al 26 d. C. Costui depose il Sommo Sacerdote Anna e gli sostituì Giuseppe detto Caifa. Questi due personaggi, tristemente famosi, figurano nella Passione di Gesù, sotto il governo del nuovo Procuratore romano: Ponzio Pilato (dal 26 al 36).

Il suo carattere era “scontroso e ostinato” (G. Ricciotti, Storia d’Israele, Torino, SEI, 1933, 2° vol., p. 384). A siffatto carattere “si aggiunga un supremo e cordiale disprezzo per i Giudei. Egli coglieva volentieri l’occasione per stuzzicarli, contraddirli e offenderli. Se fosse dipeso da lui li avrebbe mandati volentieri tutti a lavorare negli ergastula e ad metalla” (ivi).

Come mai, ci si chiede, tanta arrendevolezza fu mostrata da Pilato, durante il processo a Gesù?

Le fonti storiche (Giuseppe Flavio, Filone Alessandrino, Eusebio da Cesarea) e gli esegeti moderni (Giuseppe Ricciotti, Francesco Spadafora…) rispondono: “Ma, c’era di mezzo l’Imperatore di Roma e, perciò, Pilato doveva frenarsi e imporre dei limiti agli sfoghi del suo astio” (ivi).

Ponzio Pilato ha amministrato la Giudea per circa un decennio dal 26 al 36. Gesù ha iniziato il suo ministero pubblico nel 30 ed è stato condannato a morte nel 33. Per cui Pilato certamente conosceva, almeno di fama, Gesù nel momento in cui ha dovuto presiedere al processo intentato dal Sinedrio contro di Lui ed ha governato la Galilea ancora per tre anni dopo la morte di Gesù e un anno dopo quella di S. Stefano protomartire (anno 35 circa).

La personalità di Pilato è riassumibile così: un cavaliere della nobile “gens Pontia”, il cui soprannome (“cognomen”) “Pilatum” significa “l’uomo del giavellotto” (da “pilum o pila”), ossia un militare abile nel maneggiare le armi e specialmente il giavellotto. Bravo come soldato, Pilato era poco esperto nell’arte amministrativa, diplomatica e politica. Ciò gli fu fatale specialmente in Giudea. Egli non capiva la mentalità ebraica e non aveva cercato di far nulla per entrare in contatto con i suoi “sudditi” o amministrati (cfr. J. Bonsirven, Les Juifs et Jésus, Parigi, 1937; L. C. Fillion, Vie de N. S. Jésus Christ, Parigi, 1925; M. J. Lagrange, Evangile selon St. Luc, III ed., Parigi, 1927; Id., Evangile selon St. Jean, V ed., Parigi, 1936; Id., Le Judaisme avant Jésus Christ, III ed., Parigi, 1931; G. Ricciotti, Vita di Gesù Cristo, Roma, 1941; Id., Storia d’Israele, Torino, 1933; M. Sordi, Aspetti romani dei processi di Gesù e di Stefano, in RFIstclass, 98, 1970; Id., I cristiani e l’Impero romano, Milano, 1986; Id., Cristianesimo e Roma, Bologna, 1965; P. Pajardi, Il processo di Gesù, Milano, 1994, F. Amarelli – F. Lucrezi a cura di, Il processo contro Gesù, Napoli, 1999).

Tuttavia tre fatti del governo di Pilato in Giudea, nonostante il suo disprezzo per i Giudei, sono capitali per capire il suo atteggiamento, prudente e remissivo, durante il processo a Gesù.

Il primo fatto: poco dopo il suo arrivo in Palestina, nel 26, egli ordinò ai soldati romani che dovevano recarsi da Cesarea marittima a Gerusalemme di introdurre nella città santa gli stendardi romani con le immagini dell’Imperatore, ritenute idolatriche dai Giudei. Egli ordinò che i soldati entrassero di notte, per evitare uno scontro immediato, ma di spiegare le insegne facendo trovare il mattino seguente i gerosolimitani davanti al fatto compiuto. Era una sfida aperta alla Giudea, la quale aveva ottenuto da Cesare il privilegio di non vedere esposte le immagini dell’esercito romano, che rappresentavano l’Imperatore come una divinità. Roma si dimostrava sempre accomodante nei confronti dei costumi religiosi dei suoi sudditi purché non ledessero le prerogative dell’Impero (Giuseppe Flavio, Antichità Giudaiche, XVIII, 3, 1; Guerra Giudaica, II, 9, 2-3). In questo primo caso, Pilato aveva dovuto cedere davanti ai Giudei, che per cinque giorni e cinque notti avevano implorato nel suo Pretorio in Cesarea la rimozione dei vessilli romani, dicendosi pronti a morire piuttosto che subire tale affronto.

Il secondo fatto: appena un po’ più tardi ci fu la questione dell’acquedotto per portare l’acqua da Cesarea a Gerusalemme. Pilato destinò alcuni fondi del tesoro del Tempio a questa costruzione. Questo impiego del denaro sacro per usi profani provocò un forte tumulto da parte dei Giudei. Allora “Pilato fece sparpagliare tra i dimostranti molti suoi soldati, travestiti da Giudei; al momento stabilito essi estrassero i randelli che tenevano nascosti, e si dettero a malmenare la folla, lasciando sul terreno parecchi morti e feriti” (G. Ricciotti, Storia d’Israele, cit., vol. 2°, p. 440).

Il terzo fatto è di capitale importanza per la comprensione dell’andamento del processo di Gesù; esso avvenne qualche anno dopo: Pilato aveva fatto appendere nel palazzo di Erode in Gerusalemme gli scudi d’oro dedicati a Tiberio, recanti il nome dell’Imperatore e muniti d’iscrizioni e di simboli che potevano essere ritenuti idolatrici (Filone d’Alessandria, De legatione ad Cajum, par. 38, nn. 299-305). Questa volta una delegazione di Giudei, della quale facevano parte anche i 4 figli di Erode, fu inviata a Pilato, ma essa non ottenne la sperata rimozione degli scudi romani; allora i Giudei si rivolsero a Tiberio in persona, che dette l’ordine di rimuovere gli scudi da Gerusalemme e di trasportarli a Cesarea nel Tempio d’Augusto. Quindi anche in questo caso Pilato dovette cedere, ma, quel che è peggio, davanti a Tiberio, al quale i Giudei si erano rivolti (cfr. G. Ricciotti, Vita di Gesù Cristo, cit., II vol., pp. 439 ss.). I Giudei, quindi, avevano un certo influsso sull’Imperatore ed è per questo che si mostrarono così indisponenti e screanzati con Pilato durante il processo a Gesù.

Pilato, nel 33 durante il processo a Gesù, si trovava, quindi, privo davanti al Sinedrio di quell’autorità di cui da buon soldato romano possedeva il senso e che aveva cercato di imporre anche alla Giudea, andando oltre i desideri di Tiberio dal quale era stato sconfessato. Il Sinedrio non aveva più paura di Pilato e si sentiva rafforzato da Tiberio stesso. Pilato detestava il Sinedrio, ma non aveva più l’appoggio del suo Imperatore. Questo stato di animo è fondamentale per capire l’atteggiamento del Procuratore romano durante il processo contro Gesù e quello del Sinedrio, che mediante Tiberio aveva in mano Pilato (cfr. F. Spadafora, Pilato, Rovigo, Istituto Padano di Arti Grafiche, 1973, p. 10).

Durante il processo, letto alla luce dei Vangeli, si vede che Pilato non vuole condannare Gesù, ma vi è spinto, suo malgrado, dal potere che il Sinedrio aveva presso Tiberio. Pilato permette che Gesù sia crocifisso, il Sinedrio lo vuole morto. Permettere significa non impedire. Pilato avrebbe potuto impedirlo, ma si sarebbe visto sconfessato da Tiberio ed obbligato a condannarlo in nome di Roma. Egli, per evitare la condanna di un “giusto” da parte di Roma, lascia fare il Sinedrio.

È il caso di tolleranza di un male per impedirne uno maggiore. Non si può fare un male minore (per esempio uccidere attivamente e direttamente 5 persone) per evitarne uno maggiore (perché non ne siano uccise 100), ma si può permetterlo o tollerarlo (lascio che Tizio uccida 100 persone) senza volerlo ed operarlo direttamente (ma ne nascondo 5, non potendo fare nulla di più)[1].

Monsignor Francesco Spadafora, assieme agli esegeti e ai giuristi più obiettivi, osserva che la narrazione fatta dalle fonti giudaiche (Filone d’Alessandria e Giuseppe Flavio) della figura di Pilato «rasenta la caricatura, fa di Pilato quasi un anormale, un irragionevole. […]. Il cliché abituale trae ispirazione e fondamento dalle fonti giudaiche (Filone e Flavio Giuseppe). Ben diversa ci appare invece la figura di Pilato nella narrazione evangelica» (op. cit., p. 12). Anche l’Abate Giuseppe Ricciotti ritiene di dover integrare le fonti giudaiche con la lettura dei Vangeli (Vita di Gesù Cristo, cit., vol. II, p. 439). Questo tema non è solamente una questione di esegesi erudita, ma ha un’importanza ed attualità capitale specialmente riguardo al problema della colpevolezza dell’Ebraismo post-biblico nella morte di Gesù dibattuta in occasione del Decreto conciliare Nostra aetate del 28 ottobre 1965 (cfr. Monsignor Luigi Carli, Chiesa e Sinagoga, in “Palestra del Clero”, n. 6-7, 15 marzo – 1° luglio, 1966). Esso è importante anche per capire il ruolo nascosto, ma di capitale importanza, che il Giudaismo ha giocato e giuoca nel corso della storia umana. Il Sinedrio, tramite l’ascendente sull’Imperatore romano, ha manipolato il giudice di Gesù per farlo condannare a morte.

La “gens Pontia” era Sannita ed originaria della cittadina di Telese, attualmente provincia di Benevento in Campania, bagnata dal fiume Volturno. I Ponzi si distinsero nella sconfitta dei Romani a Caudium (Maleventum / Beneventum) e li umiliarono facendoli passare sotto le forche caudine (321 a. C.). Divennero cittadini romani ed entrarono a far parte della nobiltà di secondo rango, subito dopo i Patrizi. Ponzio Pilato «educato e vissuto nel clima della romanità più schietta, cioè imperiale, con un alto senso della giustizia, del diritto e della dignità, derivanti dalla missione di reggitori dei popoli; abituato al comando assoluto nella disciplina ferrea della legione, quando fu destinato alla Giudea concepì il disegno di regolarizzare la strana situazione colà esistente. […]. Un piccolo popolo, che parlava di “elezione divina” e si separava da tutti gli altri, Romani compresi, non nascondendo per essi il disprezzo e l’odio. […]. Cesare (45 a. C. circa) ed Augusto (40 a. C. circa) avevano concesso ai Giudei l’esenzione dal servizio militare, l’indipendenza religiosa; particolarmente avevano ordinato alle truppe di passaggio o dimoranti in Gerusalemme di evitare ogni manifestazione idolatrica. Praticamente, di tutte le genti dell’Impero, i Giudei erano i soli a rimanere inassimilabili. […]. Pilato volle tentare quest’assimilazione, ma dovette cedere la seconda volta addirittura per ordine di Tiberio» (F. Spadafora, cit., p. 17 e 19, Giuseppe Flavio, Guerre Giudaiche, II, 9; Filone d’Alessandria, Ad Cajum, paragrafo 38, n. 299).

Pilato non era uno scettico, come è comunemente presentato a partire da una superficiale lettura dei Vangeli. Infatti quando chiede a Gesù “Cos’è la verità?” non aspetta la risposta, non perché non crede che possa esistere una verità, ma perché “dovette uscire; dovette interrompere il colloquio con Gesù, e, possiamo dire, con vivo disappunto: il clamore esterno aumentava, diveniva insopportabile” (cfr. F. Spadafora, cit., p. 111; F. M. William, La vita di Gesù, tr. it., Torino, III ed., 1945, p. 455).

Il prestigio di Pilato e la sua deterrenza nei confronti del Sinedrio erano definitivamente compromessi. “I tenaci ed accorti membri del Sinedrio non ebbero più timore di giostrare con il nobile romano, valoroso in guerra, ma poco accorto in politica, e la loro astuzia vinse più volte l’intelligenza e l’intransigenza dell’inesperto governatore. Solo così si spiega il loro disegno di servirsi di Pilato per liberarsi a colpo sicuro di Gesù” (F. Spadafora, cit., p. 19).

Secondo Giuseppe Flavio, Pilato, fu deposto nel 36 dal Legato in Siria-Palestina Vitellio munito di pieni poteri in Oriente e mandato a Roma a rispondere del suo operato presso Tiberio, ma quando Pilato arrivò all’Urbe l’Imperatore era morto (16 marzo del 37). Secondo Giuseppe Flavio Pilato sarebbe morto suicida. Infatti scrive: “Si narra che sotto Caligola fu costretto a suicidarsi” (La Guerra Giudaica, cap. VII). Anche Eusebio da Cesarea lo fa morire di suicidio (Storia Ecclesiastica, II, 7), mentre nella Tradizione cristiana Pilato si sarebbe convertito.

Padre Marie-Joseph Lagrange ci mette in guardia circa “il poco senso critico di Giuseppe Flavio, che nelle sue compilazioni lascia sussistere non poche contraddizioni. Professa un rispetto insufficiente per la verità, quando essa non corrisponde alle sue convinzioni nazionali e in tutte le sue opere si ritrovano esagerazioni o soppressioni calcolate” (Le Judaisme avant Jésus Christ, cit., p. XV). Specialmente “per quanto riguarda Pilato, sia Giuseppe che Filone sono influenzati da un nazionalismo giudaico esasperato e gli eruditi moderni, anche cattolici, si son lasciati influenzare troppo dai testi ebraici di Filone e Giuseppe” (M. J. Lagrange, L’Evangelo di Gesù Cristo, tr. it., Brescia, II ed., 1935, p. 540).

Purtroppo il cinema di Holliwood ha fatto il resto, presentando delle belle vite di Gesù, ma cambiando la realtà storica sulla responsabilità del Sinedrio nella morte di Cristo, presentando il Sinedrio come composto da pii Sacerdoti e i Romani come crudeli e spietati persecutori della Giudea e di Gesù Cristo.

Secondo la narrazione dei Vangeli, Pilato sta decisamente dalla parte di Gesù. La flagellazione è un disperato tentativo inteso a calmare i nemici di Cristo, ma alla fine il timore di dover condannare lo stesso un innocente, e soprattutto, per ordine di Tiberio, e quindi, con responsabilità di Roma spinse Pilato a lasciar fare i Giudei.

Infatti i Giudei, avendo capito che Pilato non avrebbe ratificato un’accusa religiosa, che per di più non veniva provata (“se non fosse un malfattore, se non fosse degno di morte, non lo avremmo portato e consegnato a te”), cominciarono a formulare delle accuse specifiche (Lc., XXXIII, 2): è un rivoluzionario anti-romano, è nemico di Cesare e si fa Re. Quindi trasformarono tutto l’affare in una questione politica anti-imperiale.

Lo stesso vale per la proposta di scegliere tra Gesù e Barabba. “Pilato non fu mai titubante, indeciso circa la liberazione di Gesù e la sua innocenza, ma era sicuro di non poterla attuare in quanto sarebbe bastato un semplice ricorso del Sinedrio a Tiberio per obbligarlo a condannare direttamente un giusto a nome di Roma” (cfr. F. Spadafora, cit., p. 119). E il Sinedrio lo aveva già intimidito, ricattandolo: “Se lo lasci libero non sei amico di Cesare”.

Pilato pensava che la folla avrebbe scelto la liberazione di Gesù, se le fosse stata proposta in contraccambio quella di Barabba. Infatti la folla secondo i Vangeli (Mc., XV, 8; Mt., XXVII, 20) era propensa a graziare Gesù e a far condannare Barabba, ma “i Sommi Sacerdoti (Anna e Caifa) e gli anziani suggerirono alla folla di graziare Barabba e reclamare la morte di Gesù”. L’unico slogan, sussurrato dal Sinedrio all’orecchio della maggioranza popolare, che la folla sa gridare, ripetendolo pappagallescamente, è “sia crocifisso!” (Mt., XV, 21-22).

La risposta di Pilato è inequivocabile: “sono innocente del sangue di questo giusto” (v. 24). Ossia “la responsabilità della sua morte è tutta vostra” (F. Spadafora, cit., p. 128). Il gesto di lavarsi le mani non va inteso come un non curarsi di ciò che stava per accadere. Infatti in Giudea ci si lavava le mani, se ci si imbatteva in un cadavere per significare di non essere colpevole della sua uccisione (cfr. Deut., XXI, 6). L’atto di Pilato voleva significare ai Giudei: “Io sono innocente della morte di Gesù” (v. 24). E loro capirono benissimo e risposero: “Che il suo sangue ricada su di noi e sui nostri figli” (v. 25), cioè essi presero su di sé come popolo (“su di noi e sui nostri figli”) la responsabilità della condanna a morte di Gesù. Allora Pilato lasciò Gesù nelle loro mani, non volle condannarlo, ma permise che essi stessi lo condannassero e lo uccidessero (cfr. F. Spadafora, cit., p. 131).

Gesù stesso scagiona Pilato quando gli dice: “Chi mi ha consegnato a te è colpevole di un peccato gravissimo. Tu non avresti nessun potere su di me se non ti fosse stato dato dall’alto” (Jo., XIX, 11). Gli esegeti interpretano questo versetto nel senso del peccato del Sinedrio come più grave di quello di Pilato per il fatto che essi avrebbero fatto ricorso a Tiberio dal quale Pilato aveva ricevuto il potere. Pilato è solo un delegato dell’Imperatore e il Sinedrio, che ha consegnato Gesù a Pilato lo costringe a condannarlo sotto minaccia di ricorrere all’Imperatore, del quale Pilato è solo il soggetto o il delegato (cfr. M. De Tuya, Biblia Comentada, Evangelios, vol. V, Madrid, 1964, p. 1289).

Monsignor Spadafora commenta: “Praticamente Gesù esprime comprensione e compassione per Pilato: Tu che  dici di aver il potere di liberarmi o di uccidermi, in realtà sei in balìa di questi lestofanti; essi ti costringono a fare quello che essi han deciso di ottenere, e proprio abusando della tua posizione di dipendente da Tiberio” (cit., p. 139).

I cattolici greci venerano la moglie di pilato (Claudia Pròcula) come Santa, mentre i Copti venerano anche Pilato, la cui conversione non è storicamente testata, ma la Tradizione copta vuole che Pilato abbia terminato la sua vita nel pentimento e nella pratica delle virtù cristiane (cfr. F. Spadafora, cit., p. 157 e 159).

Come si vede la responsabilità di Pilato fu minima. Egli non ha voluto condannare un giusto, ma ha permesso che il Sinedrio lo facesse. Il Sinedrio e il popolo giudaico hanno preso su di sé e sui loro discendenti, in quanto popolo ebraico, la responsabilità della condanna di Gesù poiché si professava Dio. Questa è la questione capitale nei rapporti tra Cristianesimo e Giudaismo talmudico: Gesù o è Dio o è un malfattore. Si non est Deus non est bonus, tertium non datur!

Tirando le somme

Il processo di Gesù ci mostra 1°) quanto il Giudaismo sia potente anche con un Procuratore di una Superpotenza quale era la Roma imperiale; 2°) la colpevolezza collettiva, non solo del Sinedrio, ma del popolo giudaico e della sua discendenza; 3°) però anche che “il diavolo fa le pentole, ma non i coperchi”. Infatti dopo neppure 40 anni dal processo-farsa contro Gesù, la Città Santa dei Giudei, il loro Tempio, che era l’unico luogo ove, nell’Antico Testamento, si potesse adorare Dio, mediante sacrifici e olocausti offerti liturgicamente dai Sacerdoti, e poi (nel 135) la Giudea intera, vennero distrutti e di essi non rimase “pietra su pietra”. Ancora oggi il Tempio non è stato ricostruito, anche se si cerca disperatamente di ricostruirlo sulle rovine della moschea dalla cupola d’oro (cfr. M. Blondet, I fanatici dell’Apocalisse, Rimini, Il Cerchio, 1992). Il Sionismo, che muove i Presidenti delle Superpotenze attuali come il Sinedrio nel 33 mosse Tiberio, ha potuto rubare la terra ai Palestinesi a partire dal 1948, può scatenare guerre e rappresaglie a suo piacimento, ma dal punto di vista teologico è rimasto senza Sacerdozio e senza Sacrificio. Esso è, perciò, una “Religio depopulata”. È monco, incompiuto, senza anima poiché ha rifiutato il vero Messia per adorarne uno falso: la stirpe ebraica, destinata secondo i Sionisti (che in ciò si rivelano veri discendenti degli Zeloti impregnati di messianismo apocalittico/millenarista), a dominare il mondo intero. Tuttavia la storia dovrebbe aver insegnato loro che le cose non vanno come l’uomo desidera, ma come Dio ha stabilito… e che gli Zelatori hanno sempre procurato a Israele molti più guai di quanti non gliene hanno dati i suoi nemici. Infatti “chi troppo vuole, nulla stringe”. Caveamus!

d. Curzio Nitoglia



1) Cfr. F. Roberti - P. Palazzini, Dizionario di teologia morale, Roma, Studium, II ed., 1957, voce “Male minore”.


 
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