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Giuseppe Flavio - Storico giudeo/romano
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Le “Antichità Giudaiche”, Il “Contra Apionem” e La “Vita”

I - Le “Antichità Giudaiche” (anno 93-94)

La seconda opera di Giuseppe Flavio, le Antichità Giudaiche[1], comparve tra il 93 e il 94. Esse sono una specie di compendio della Bibbia (dalla Genesi ai Maccabei), ossia una storia universale del Giudaismo dalla creazione del mondo sino al 66 d. C., l’anno in cui inizia il racconto della sua prima opera sulla storia della Guerra Giudaica.

Le Antichità sono, in sé, l’opera più vasta di Giuseppe, ma, quanto a noi, l’opera più importante è senz’altro la Guerra Giudaica, poiché senza di essa non conosceremmo quasi nulla della guerra tra Roma e la Giudea. Invece la storia dell’Ebraismo la conosceremmo egualmente, anche senza il compendio di Giuseppe Flavio, a partire dalla Bibbia e da varie altre opere dei commentatori Ebrei e Cristiani di essa. Inoltre non sono scarse le notizie pervenuteci anche da autori pagani su Israele e il Cristianesimo.

Le Antichità riscattano la figura morale di Giuseppe, persino agli occhi del severo censore della sua vita: l’Abate Giuseppe Ricciotti, che scrive: “finalmente Giuseppe nelle Antichità Giudaiche si presenta con un programma moralmente sincero e fa, come uomo, una figura ben più degna che nella Guerra Giudaica” (Giuseppe Ricciotti, Flavio Giuseppe, lo storico giudeo-romano, Torino, SEI, 1936, p. 85).

Mentre Giuseppe lavorava alla Guerra Giudaica apparsa tra il 75 e il 79, aveva già l’intenzione di scrivere questa seconda opera apparsa circa 20 anni dopo come ci confessa lui stesso in Antichità (I, 6-7).

Il titolo della seconda opera di Giuseppe in greco è Ioudaiché Arcailogìa, che nei tempi antichi venne tradotto con una eccessiva fedeltà verbale più che concettuale con Archeologia Giudaica, ma oggi comunemente la si chiama più esattamente Antichità Giudaiche.

Esse furono scritte in greco e, soprattutto per i Pagani che non conoscevano la storia d’Israele; furono composte di 20 libri (contro i 7 di Guerra Giudaica e i 2 del Contra Apionem), di cui oggi ne conserviamo solo 11 (tr. it., Torino, Utet, 2 volumi, 2018, a cura di Luigi Moraldi).

Abbiamo già visto come le circostanze della loro pubblicazione fossero avverse – essendo succeduto, nell’81, sul trono imperiale a suo fratello Tito – Domiziano († 96), che era fortemente avverso ai Giudei e ai Cristiani e quindi anche alle Antichità Giudaiche del povero Giuseppe, che oramai aveva perso l’amicizia del vecchi Flavi (Vespasiano e Tito) e non godeva della simpatia del nuovo Flavio: Domiziano, sotto il cui Impero dovette trascorrere gran parte della sua vita a Roma (dall’81 al 96), che terminò al suo 65° anno di vita nel 103/105 circa, solo 5/7 anni dopo la morte di Domiziano.

Giuseppe, coraggiosamente, nel proemio delle Antichità (I, 5-26) scrisse che esse avevano una intenzione apologetica, proponendosi di  narrare l’intera storia ebraica ai Pagani (Greci e Romani), dimostrando loro che mentre i legislatori delle nazioni dei Gentili andavano appresso alle favole degli Dei, implicati nei vizi degli uomini, fornendo comode scuse ai corrotti, Mosè, il legislatore degli Ebrei, dette loro un ordinamento sociale e giuridico corrispondente alla legge naturale ed eterna, la quale sorpassa infinitamente le storie licenziose degli Dei pagani e conduce l’uomo alla vera felicità, perché lo indirizza a Dio, che è il Bene sommo in cui solo si trova la piena felicità. Certamente, ai tempi di Domiziano, questa tesi era assai pericolosa, infatti essa contraddiceva la politica e il pensiero del nuovo Imperatore della famiglia dei Flavi riguardo agli Ebrei e ai Cristiani.

Nel campo ebraico l’opera di Giuseppe non fu accolta da tutti in maniera positiva, anzi da alcuni fu criticata aspramente. Infatti i Giudei del suo tempo, dopo la distruzione del secondo Tempio nel 70, si dividevano in 2 campi contrapposti (proprio come oggi Sefarditi e Askenaziti sono in netta contrapposizione tra di loro): il primo campo era quello dei Giudei della Diaspora in mezzo ai Pagani e specialmente ad Alessandria d’Egitto, che avevano accolto con favore la traduzione in greco della Bibbia, detta dei “Settanta”, fatta nel III secolo a. C. proprio dai Giudei colti di Alessandria d’Egitto. I Giudei alessandrini avevano una formazione culturale ellenistica, aperta, “liberale” ed erano entusiasti della versione greca dei “Settanta” (cfr. Filone Alessandrino, De vita Moysis, II, 7); mentre il secondo campo era composto dai Giudei palestinesi, che non volevano divulgare tra i Pagani la storia religiosa del loro popolo: il “popolo [una volta] eletto”, che vedevano di mal occhio la versione dei “LXX”, reputandola un “gettare le perle ai porci” (come si diceva allora comunemente in Palestina, cfr. Mt., VII 6). I rabbini palestinesi erano di formazione “tradizionalista”, chiusa al mondo circostante, esageratamente nazionalistica, ed inoltre siccome i Cristiani si servivano della versione greca dei “LXX” per spiegare la Bibbia ai Pagani, i Giudei palestinesi la odiavano ancor di più.

Ciò dimostra che lo spirito originario, rigidamente farisaico, di Giuseppe, si era molto annacquato a contatto con i Romani, pur restando attaccato al proprio popolo e al Dio della sua nazione o forse, ancor meglio, si dovrebbe dire “alla nazione del suo Dio”, di cui era divenuto lo storico apologista verso i Pagani (Greci e Romani).

Il Ricciotti ritiene che nella compilazione delle sue Antichità Giudaiche, Giuseppe, avesse utilizzato il testo biblico originale in ebraico, quello in greco dei “LXX” ed inoltre, soprattutto, qualche Targùm (che in ebraico significa la traduzione della S. Scrittura in aramaico[2]) della Bibbia, già bell’e pronto, divulgato a scopo di proselitismo dai Giudei ellenisti (cit. p. 96) già molto tempo prima di Giuseppe ed alcuni Midrashìm (la parola ebraica Midrashìm è il plurale di Midrash e significa l’interpretazione della S. Scrittura per cercarvi la risposta di Dio alle necessità del momento presente[3]).

“Sappiamo che con l’estendersi della Diaspora giudaica nel mondo greco/romano, i Giudei esplicarono una vasta azione apologetica e propagandistica in favore della loro razza e religione, e che uno dei mezzi preferiti per quest’azione fu la pubblicazione di scritti di argomento storico. L’officina più attiva per la fabbricazione di queste armi letterarie fu la dotta Alessandria” (G. Ricciotti, cit., p. 111).  Ciò induce il Ricciotti “a sospettare che il metodo di composizione delle opere di Giuseppe sia stato soprattutto, ma non esclusivamente, una compilazione fatta specialmente da scritti giudaico/ellenistici. Giuseppe in Antichità ha lavorato – si tolleri il paragone moderno – di forbici e colla, sforbiciando brani di scritti anteriori ed incollandoli uno appresso all’altro” (cit., p. 113).

L’Abate Giuseppe Ricciotti mantiene il suo cipiglio di critico severo (forse troppo) delle opere di Giuseppe Flavio pure per quanto riguarda la sostanza delle Antichità. Infatti scrive: “Anche per le Antichità, come per la Guerra, possiamo definire Giuseppe un gaglioffo fortunato. Egli è rimasto oggi l’unico storico del Giudaismo per un periodo di parecchi secoli, dall’epoca di Esdra e Neemia, 450 a. C., (con cui termina la Bibbia ebraica) sino all’epoca dei Maccabei (165 a. C.), degli Asmonei (135 a. C.), che non rientrano nella Bibbia ebraica ma solo in quella cristiana sino allo scoppio della guerra giudaico/romana (66 d. C.). Per queste 5 centinaia di anni, se non avessimo avuto Giuseppe, noi non avremmo uno storico del Giudaismo e di una piccola parte del Cristianesimo. Se in tempo di carestia si mangia anche pane di ghianda, per i periodi suddetti dobbiamo accontentarci del pane sfornatici da Giuseppe, se non vogliamo morir di fame” (cit., p. 134).  

II - Il “Contra Apionem” (anno 95)

Quando apparvero le Antichità Giudaiche suscitarono una certa ostilità tra i lettori pagani. Giuseppe rimase amareggiato da quest’accoglienza della sua seconda opera e pensò di dover replicare polemicamente ai Pagani (Greco/Romani), che criticavano la storia del Giudaismo, come popolo barbaro, di scarto, composto da “lebbrosi fuggiti dall’Egitto”. Fu così che pensò a una terza opera sulla Antichità dei Giudei, come la chiamò S. Girolamo (Epist. 70 ad Magnum, 3), ossia un’apologia  del Giudaismo ancora più esplicita delle Antichità Giudaiche, “ricorrendo ad un sistema insieme difensivo ed offensivo: bisognava cioè togliere di mano agli avversari la loro arma principale, dimostrando che il silenzio degli storiografi greci riguardo ai Giudei era frutto d’ignoranza e di tendenziosità; passando poi al contrattacco, era necessario far vedere che i documenti ebraici erano di gran lunga più autorevoli e degni di fede che gli storiografi Greci” (cit., p. 138).

Nacque così il Contra Apionem[4], attorno al 95, ma questo non è certamente il titolo originale dell’opera. Secondo il Ricciotti “il titolo originale sembra essere Circa l’antichità dei Giudei, in due soli brevi libri. Anch’esso fu dedicato da Giuseppe al suo nuovo mecenate, Epafrodito, e non ai Flavi. Data la situazione di ostilità verso il Giudaismo e il Cristianesimo, che era peggiorata con l’avanzare del regno di Domiziano, la pubblicazione di questa terza opera fu un vero e proprio atto di coraggio.

“Il Contra Apionem è un’opera moralmente bella, la più bella di quante furono vergate dallo stilo di Giuseppe, e conserva ancor oggi una certa efficacia affettiva” (cit., p. 141)[5].

Giuseppe, nel Contra Apionem, è oramai passato definitivamente dal Fariseismo palestinese al Giudaismo alessandrino ellenizzante, che “intrecciò religiosità semitica e intellettualismo greco, insomma acquistò una fisionomia morale che può ricordare con anticipo di molti secoli quella del modernismo cattolico” (G. Ricciotti, cit., p. 143).

Il giudizio conclusivo del Ricciotti anche sul Contra Apionem è molto severo: “In quest’opera Giuseppe non merita assolutamente il titolo di ‘Tito Livio greco’, concessogli troppo benevolmente da S. Girolamo (Epist. 22 ad Eustochium, c. 35). No, anche nel Contra Apionem, come in Guerra e in Antichità, Giuseppe non è che un rigattiere antiquario della storia, il quale senza accorgersene ha salvato nella sua bottega taluni tesori preziosi” (cit., p. 149).

III - La “Vita” (I edizione anno 94, II anno 100)

Questo scritto in sostanza è una “Autobiografia”, ma – come nota il Ricciotti – appare chiaro che “gli elementi di una vera autobiografia generale, in questo scritto, sono assai scarsi. Essi si riducono in realtà a Vita, 1-27, ove si racconta il periodo che va dalla nascita di Giuseppe (37) sino alla guerra con Roma (66), e in Vita, 414-430, ove sono riassunti gli avvenimenti occorsi all’autore dal suo passaggio ai Romani, dopo la caduta di Jotapata nel 67, sino alla sua dimora in Roma (dal 71 con Tito) fino ai tempi di Domiziano († 96); invece in tutta la parte centrale dello scritto, che è di gran lunga prevalente – Vita, 28-413 – Giuseppe non fa che esporre la propria condotta politica e militare durante la sua missione in Galilea dal 66 al 70” (cit., p. 151).

Comunemente gli storici ammettono che vi son state 2 edizioni di Vita, la prima nel 94 e la seconda nel 100 circa.

Il Ricciotti scrive che “la Vita è lo scritto dell’uomo declinante, il quale ha ricevuto gravi umiliazioni ed ha sperimentato parecchie disillusioni, ma è rimasto ciò nondimeno tenacemente attaccato a quella sua decisione ch’è stata il pernio della sua attività politica, cioè il suo passaggio ai Romani” (cit., p. 153).

Questo libro fu scritto per rispondere alle obiezioni di Giusto di Tiberiade, che accusò Giuseppe di aver fatto il doppio gioco nella sua missione in Galilea nel lontano 66-70, facendogli fare – di fronte ai Romani presso i quali ora era caduto in disgrazia – una magra figura proprio sul declinare della sua vita non facile.

IV – Appendice: Il “Testimonium Flavianum”

Vi è un’ultima questione riguardo al passo in cui, come abbiamo visto sopra, nelle Antichità Giudaiche (XVIII, 63-64), Giuseppe – dopo avere tessuto le lodi di Giovanni Battista e Giacomo il Minore – parla anche di Gesù Cristo stesso. Questo versetto è seriamente dibattuto tra i critici e i filologi ed è chiamato anche il “Testimonium Flavianum”.

Sino al XVI secolo questo passo di Giuseppe era ritenuto tranquillamente autentico, ma col sorgere della critica interna, si cominciò a dubitare se il passo riguardante Cristo fosse di Giuseppe o fosse stato interpolato da qualche amanuense cristiano.

I Protestanti a partire dal Cinquecento negarono l’autenticità del Testimonium Flavianum, ma molti altri storici (per lo più cattolici) continuarono ad ammetterla (ad esempio, Cesare Baronio).

Dal secolo XI sino al IV secolo questo passo lo si ritrova in tutti i manoscritti delle opere di Giuseppe. Eusebio da Cesarea (265-339 c.ca) riporta questo passo, attribuendolo a Giuseppe, più di una volta nelle sue opere (Historia Ecclesiastica, I, 11; Demonstratio evangelica, III, 3, 105-106).

Al di sotto del IV secolo S. Giustino († 165 c.ca), Tertulliano († 220 c.ca), S. Clemente d’Alessandria († 215 c.ca), non citano il passo, ma ciò non prova che non esistesse. Infatti molta della loro produzione letteraria è andata perduta. Inoltre Origene (185-253 c.ca) scrive che Giuseppe Flavio non credeva che Gesù fosse il Cristo (Commentarius in Matthaeum, X, 17; Contra Celsum, I, 40). Ora il Testimonium dice che Gesù era il Cristo, però – secondo molti critici – ciò non vuol dire che Origene negasse quanto affermato dal Testimonium, ma soltanto che siccome Giuseppe non era cristiano e non credeva nella divinità e messianicità di Cristo, la sua “testimonianza” su Gesù quale Cristo o Messia e Dio, avesse un valore maggiormente grande (G. Ricciotti, cit., p. 157).

La traduzione del Testimonium Flavianum è la seguente: “Gesù, uomo sapiente, seppure bisogna chiamarlo uomo: infatti compiva opere straordinarie, maestro di uomini che accolgono con piacere la verità. Egli attirò a sé molti Giudei ed anche molti Pagani. Costui era il Cristo. E pur avendo Pilato, per denuncia degli uomini più importanti tra i Giudei, punito lui con la morte di croce, non scomparvero coloro che lo avevano amato sin dal principio. Infatti egli apparve loro il terzo giorno nuovamente vivo, avendo già preannunziato i divini Profeti queste cose ed anche altre meraviglie su di lui. Ancora oggi non è venuto meno il partito di quelli che son chiamati Cristiani, a partire dal nome di costui” (Antichità Giudaiche, XVIII, 63-64).

Ora è vero che gli scritti di Giuseppe ci son pervenuti grazie agli amanuensi cristiani, che “erano esposti al pericolo di interporre modificazioni interessate al suo testo” (G. Ricciotti, cit., p. 163). Tuttavia lo stile del passo in sostanza è quello abituale di Giuseppe, anche se la terminologia è tipicamente cristiana (ivi).

“In conclusione, a noi sembra che il Testimonium Flavianum possa essere stato interpolato da mano cristiana, benché il suo fondo sia certamente genuino; tuttavia la stessa possibilità, e anche una maggiore probabilità, concediamo all’altra opinione secondo cui esso sarebbe integralmente genuino e vergato, così com’è oggi, dallo stilo di Giuseppe” (G. Ricciotti, cit., p. 165).

Fine della Seconda ed Ultima Parte

d. Curzio Nitoglia



[1] Si può consultare con profitto l’edizione delle Antichità Giudaiche di Giuseppe Flavio dell’Editrice Utet di Torino, in 2 volumi, 1313 pagine, edizioni (1998, 2013 e 2018), con note, introduzione e commento scientifico di Luigi Moraldi († 2001), professore di Lingue semitiche all’Università di Pavia, considerato uno dei più importanti studiosi del Cristianesimo antico, autore di studi fondamentali sullo Gnosticismo ed esegeta tra i più autorevoli dei manoscritti di Qumran. Al contrario del Ricciotti egli nutre una stima forse eccessiva verso Giuseppe Flavio e non cita mai … Ricciotti.

[2] Cfr. J. Maier – P. Schafer, Piccola Enciclopedia dell’Ebraismo, Casale Monferrato, Marietti, 1985, pp. 602, 618-620, voci “Targùm” e “Traduzioni della Bibbia”.

[3] Cfr. J. Maier – P. Schafer, Piccola Enciclopedia dell’Ebraismo, cit., pp. 360-362, 413, voci “Letteratura midrashica” e “Midrash”.

[4] Apione era stato un grammatico di Alessandria vissuto all’incirca ai tempi di Tiberio, Caligola e Claudio (37 d. C. - 54 d. C.). Egli aveva insegnato a Roma e vi era tornato verso il 30 d. C. sotto Caligola, era un antigiudeo “arrabbiato” ed aveva raccolto nella sua opera intitolata Aegyptiaca i soliti luoghi comuni del Paganesimo contro il Giudaismo del Vecchio Testamento (non contro quello talmudico), che furono ripresi anche contro il Cristianesimo. Tacito vi attinse nella sua Historia Romana (V, 2-10), ripentendo le stesse calunnie.

[5] La traduzione italiana del Contra Apionem, con testo greco a fronte, è stata pubblicata dall’Editore Marietti-1820 di Genova nel 2007 a cura di Francesca Calabi (pp. 284 di cui 35 pagine introduzione e 7 prefazione).

 
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