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Lo studio sul “Papa eretico”
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Prologo

S. Ecc. Mons. Schneider, il 21 marzo del 2019, ha pubblicato uno studio sulla questione del “Papa eretico”. In esso vi sono delle tesi conformi alla dottrina cattolica: dei fedeli, però, mi hanno manifestato le loro perplessità di fronte ad alcune opinioni di sua ecc.za, riguardo al papato, per cui ho ritenuto opportuno pubblicare il  seguente articolo.

* * *

I) Tesi Conformi alla Dottrina Cattolica e Condivisibili

1°) Mons. Schneider: mai un Papa fu condannato prima della sua morte

«Vi è, inoltre, il fatto che durante duemila anni non vi è mai stato un caso in cui un papa durante il mandato del suo ufficio sia stato dichiarato deposto a causa del reato di eresia. Papa Onorio I fu anatemizzato solo dopo la sua morte».

2°) Mons. Schneider: il Papa non può essere deposto canonicamente

«[I Papi, ndr] Non furono mai deposti secondo una procedura canonica, poiché ciò è impossibile a causa della struttura divina della Chiesa. Il papa ottiene la sua autorità direttamente da Dio e non dalla Chiesa; perciò la Chiesa non può deporlo, per nessuna ragione».

3°) Mons. Schneider: Un secondo “Grande Scisma”, simile a quello del Quattrocento, sarebbe più dannoso di un Papa eretico

«Uno scisma formale, con due o più pretendenti al trono pontificio – che sarà una conseguenza inevitabile anche di una deposizione canonica di un papa – causerà necessariamente più danni alla Chiesa nel suo complesso che un periodo relativamente breve e molto raro in cui un papa diffonde errori dottrinali o eresie».

* * *

II) Tesi Discutibili, che Lasciano Perplessi

1°) Mons. Schneider: Papa Onorio I fu eretico

Mons. Schneider scrive: «Papa Onorio I (625-638) fu scomunicato postumo da tre Concili ecumenici (il Terzo Concilio di Costantinopoli del 681, il Secondo Concilio di Nicea del 787 e il Quarto Concilio di Costantinopoli dell’870) poiché sosteneva la dottrina eretica di quanti promuovevano il Monotelismo, contribuendo così a diffondere questa eresia. Nella lettera con cui confermò i decreti del Terzo Concilio di Costantinopoli, Papa San Leone II (682-683) lanciò l’anatema su Papa Onorio (“anathematizamus Honorium”), affermando che il suo predecessore “non illuminò questa Chiesa apostolica con la dottrina della tradizione apostolica, ma cercò di sovvertire l’immacolata fede con un empio tradimento” (Denzinger-Schönmetzer, 563)».

Rispondo: Papa Onorio ha favorito l’eresia, ma non fu eretico formale

Sergio I, patriarca di Costantinopoli[1], scrisse a papa Onorio I che per ricondurre alla Chiesa romana i monofisisti (i quali sostenevano che vi era una sola natura divina in Cristo, negando quella umana) e i monoteliti (secondo i quali in Cristo vi era solo la volontà divina, negando quella umana) occorreva smussare gli angoli e addolcire le formule dogmatiche. Quindi sarebbe stato meglio parlare di “due nature distinte, ma di una sola operazione”. Questa formula era perlomeno ambigua e rappresentava una forma di monotelismo mascherato o non esplicito.

Papa Onorio I (625-628) sottoscrisse ingenuamente, in una prima Lettera (Epistula Scripta fraternitatis ad Sergium Patriarcam constantinopolitanum, anno 634, DS 487), la Dichiarazione dell’Epistola volutamente ambigua del patriarca di Costantinopoli Sergio I (610-638), nella quale si affermava una sola operazione in Gesù – pur nelle due nature (umana e divina) – e quindi implicitamente l’unicità della Sua volontà divina, negando praticamente la Sua volontà umana.

Papa Onorio, imprudentemente, approvò e firmò l’Epistola di Sergio senza definirla né obbligare a crederla, anzi l’attenuò aggiungendo ad essa, in una seconda Lettera, l’espressione, tuttavia ancor troppo vaga, dell’esistenza in Cristo di “due nature (umana e divina) operanti secondo le loro diversità sostanziali” (Ep. Scripta dilectissimi filii ad eundem Sergium, anno 634, DS 488[2]), cioè affermò l’unità morale e non fisica delle due volontà in Cristo, nel Quale vi sono realmente due volontà (umana e divina) e quella umana è uniformata a quella divina.

Le espressioni di Onorio erano ambivalenti e quindi l’interpretazione eterodossa dei monoteliti di una sola volontà fisica e divina in Cristo era possibile, ma non necessaria. Il Papa parlava del Verbo Incarnato in cui sussistono due nature, ma lasciava intendere – pur non scrivendolo positivamente ed esplicitamente – che vi potesse essere in Lui una sola volontà. Tuttavia Onorio non scrisse apertamente di una sola volontà divina reale e fisica, ma lasciava intendere che in Cristo vi fosse una volontà umana “morale”, ossia subordinata e uniformata “moralmente” a quella fisica divina.

La Chiesa cattolica orientale (con i suoi Vescovi e teologi) lesse la frase di Onorio in senso esplicitamente eretico, come se negasse esplicitamente la vera e fisica volontà umana di Cristo; mentre quella latina (S. Massimo di Torino) cercò di salvare Onorio e lesse la sua Epistola in senso ortodosso: una volontà umana fisica e reale, subordinata moralmente a quella fisica divina in Cristo. Papa Giovanni IV (640-642) scrisse nel 641 la famosa Apologia pro Honorio Papa, in cui difese spassionatamente Onorio, che non era formalmente eretico, ma non aveva condannato con decisione l’errore di Sergio e il monotelismo[3]. Infatti implicitamente Onorio ammetteva l’esistenza di un agire e di una volontà (fisica o reale) umana in Cristo.

Ora papa S. Martino I (649-655) in un Concilio romano particolare, riunito in Laterano nel 649, aveva definito la dottrina delle due volontà e della duplice azione in Cristo. Nel III Concilio ecumenico di Costantinopoli (680-681) papa S. Agatone (678-681), il 28 marzo del 681, definì che in Cristo vi sono due volontà e due azioni (la divina e l’umana) e condannò papa Onorio per aver aderito imprudentemente all’eresia (DB 262 ss.). Ma, nel Decreto di ratifica del Concilio Costantinopolitano III, papa S. Leone II (682-683) specificò, il 3 luglio 683 (DB 289 ss.), i limiti della condanna di Onorio, che “non illuminò la Chiesa apostolica con la dottrina della Tradizione apostolica, ma permise che la Chiesa immacolata fosse macchiata da tradimento” (DS 563).

Vale a dire, Onorio non era stato positivamente, esplicitamente e formalmente eretico, ma vittima dei raggiri di Sergio, cui imprudentemente e negligentemente aveva acconsentito senza impegnarsi esplicitamente nella difesa della dottrina cattolica ortodossa. Perciò S. Leone II condannò Onorio più per la sua negligenza che per una consapevole eterodossia.

Inoltre Onorio non aveva definito dogmaticamente né obbligato a credere la tesi di una sola azione in Cristo contenuta nell’ambigua Dichiarazione dell’Epistola di Sergio a lui inviata. Quindi Onorio non aveva voluto essere assistito infallibilmente in tale atto, perciò aveva utilizzato una forma di magistero non dogmatico, ma pastorale e non infallibile[4]. Dunque egli aveva potuto favorire o non impedire l’errore, per ingenuità e mancanza di fortezza, senza errare formalmente ed esplicitamente, e senza infrangere il dogma (definito poi dal Concilio Vaticano I) della infallibilità pontificia, come invece sostennero i protestanti nel XVI secolo e la setta dei “vecchi cattolici” nel secolo XIX. In breve Onorio aveva favorito l’eresia peccando, così, gravemente, ma non era stato eretico formalmente.

Emile Amann, nel Dictionnaire de Théologie Catholique, scrive: “Un Concilio legittimo [il VI Concilio ecumenico di Costantinopoli III, anno 680-681, ndr] ha condannato legittimamente Onorio I. Questo Concilio s’è sbagliato? Lo avrebbe certamente fatto, se avesse affrontato la questione di Onorio da un punto di vista esclusivamente dogmatico, ed avesse dato un giudizio dottrinale e motivato sull’insegnamento di Onorio. Poiché, come ho dimostrato sopra, il pensiero di papa Onorio era ortodosso nella sostanza (dans le fond orthodoxe) ed anche la sua espressione poteva, mettendovi un po’ di buona volontà, accordarsi con la terminologia che il Concilio avrebbe canonizzato. Ma, come ho fatto notare sopra, il Concilio si erigeva a giudice molto meno della teologia che della politica e dei personaggi che l’avevano rappresentata. […]. Ci si ricordi pure che la qualificazione di eretico, la quale oggi si applica a colui che persevera con pertinacia in una dottrina condannata dalla Chiesa, nel VI secolo si era estesa sino a minacciare di eresia tutti quelli che non avessero parlato e pensato come i teologi ufficiali di Bisanzio, qualunque fossero stati i loro meriti e la loro buona fede” (Dictionnaire de Théologie Catholique, col. 119, voce Honorius I).  Per questo motivo oggi chiamare Onorio “eretico” è improprio e non corretto teologicamente, si può soltanto esprimere un giudizio storico sulla mancanza di fermezza di Onorio nel condannare l’errore e nel definire esplicitamente la verità. Mi sembra che le affermazioni di Mons. Schneider su papa Onorio possano essere lette in questo senso storico e non dogmatico.

Emile Amann conclude il suo lungo e esaustivo articolo così: “Nelle sue due Lettere a Sergio, papa Onorio ha propagato un insegnamento eretico nel senso esatto del termine come lo si intende oggi? Certamente no (Non, certainement). […]. Queste due Lettere contengono un certo numero di espressioni e di deduzioni spiacevoli (regrettables) atte a favorire lo svilupparsi di una dottrina eterodossa? Sì, il fatto è incontestabile” (D. Th. C., cit., col. 122, voce Honorius I). In breve Onorio – da un punto di vista storico o pratico – ha favorito o non represso convenientemente l’errore, ma – da un punto di vista dogmatico o teologico – non è stato formalmente eretico[5].

Mi pare che si possa concordare con il professor Antonio Sennis: “È difficilissimo e non utile definire con certezza le reali intenzioni di Onorio” (AA. VV., Enciclopedia dei Papi, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 2000, 1° vol., voce Onorio I, a cura di Antonio Sennis, p. 589).

Un problema analogo a quello di Onorio I si pone per papa Bergoglio, che dice evidentemente delle eresie materiali parlando come dottore privato, ma non è stato sottoposto a processo canonico (ed essendo Papa non vi è un’autorità superiore alla sua che lo possa processare) per stabilire se sia pertinace e quindi eretico in senso stretto, ossia formalmente. Inoltre nel suo insegnamento pubblico egli, al massimo, ha usato del Magistero pastorale e non dogmatico (non avendo voluto definire né obbligare a credere) e in alcuni casi ha evitato anche l’insegnamento magisteriale puramente pastorale, ricorrendo a una semplice “esortazione”, che – come ha spiegato lui stesso – non è e non vuole essere Magistero neppure pastorale (cfr. Esortazione apostolica Amoris laetitia, 19 marzo 2015). Quindi parlare di Bergoglio come Papa formalmente eretico non è teologicamente corretto.  Infine parlando degli errori di papa Onorio o di papa Francesco occorrerebbe specificare la gradualità di essi, ossia – ad esempio – se sono contrari alla “fede rivelata e definita” (si ha una “eresia), a una “verità prossima alla fede” (si ha un “errore prossimo all’eresia”), a una “sentenza teologicamente certa” (si ha un “errore teologico”).  Non tutti gli errori circa la dottrina e i costumi sono eresie.

* * *

2°) Mons. Schneider: vi è una distinzione tra la Sede e il Papa che “siede” o che governa dalla Sede    

«Dom John Chapman, nel suo libro “The Condemnation of Pope Honorius” (Londra 1907), spiega che lo stesso Terzo Concilio Ecumenico di Costantinopoli, che lanciò l’anatema su Papa Onorio, determinò una chiara distinzione tra l’errore di un singolo papa e l’inerranza nella fede della Sede Apostolica come tale».

Rispondo: la Sede e colui che siede

Distinguere, come fa dom Chapman, tra la Sede Apostolica e il Papa può essere pericoloso. Infatti la prima distinzione gallicana fu proprio quella tra “la Sede di Roma” e “il Pontefice Romano, che siede in essa”. I gallicani, poi, aggiunsero che è necessario aderire alla fede della Santa Sede Apostolica, ma non è necessario aderire alla fede definita dal Romano Pontefice, poiché la fede della Chiesa di Roma è diversa dalla fede insegnata da un singolo Pontefice di Roma. Infine conclusero che per aderire alle definizioni del Papa occorre che esse siano state fatte necessariamente con l’adesione della Chiesa universale o riunita in Concilio ecumenico o dispersa nelle varie diocesi di tutto il mondo.

Già S. Tommaso d’Aquino aveva confutato l’errore ripreso poi dai gallicani. Infatti, secondo l’Angelico, i diritti di ogni sede sia civile che ecclesiastica sono legati alla persona che la occupa. La persona è “un soggetto razionale e libero” (S. Tommaso d’Aquino, S. Th., I, q. 29, a. 1 e 2). Quindi dalla razionalità e dalla libertà della persona procedono gli atti ragionevolmente liberi e ad essa sono imputati gli atti moralmente buoni o cattivi (“Le azioni sono dei suppositi / Actiones et passiones sunt suppositorum”)[6]. Ora la sede non è una persona umana capace di agire, di avere diritti e doveri e senza una persona a suo capo la sede è vacante[7]. Ma i diritti del Papa vengono direttamente da Cristo. Quindi a maggior ragione non si può distinguere la Prima Sede da colui che la occupa e perciò è il Papa e non la sede che ha il Primato di giurisdizione sulla Chiesa universale, la quale giurisdizione gli dà il diritto di insegnare infallibilmente (a certe determinate condizioni) e di governarla (con il Primato di giurisdizione, mediante il triplice potere legislativo, giudiziario e coercitivo) sia per mantenerne l’unità di fede che di carità. Dunque tutti i fedeli, i sacerdoti, i Cardinali e i Vescovi (che sono la Chiesa militante visibile e gerarchica, discente e docente) devono convenire con la fede insegnata e definita dal Papa regnante. Il compito e la natura del Primato pontificio non possono sussistere fuori della persona (Pietro/Papa) cui esso è stato dato da Cristo.

Nella Somma Teologica (II-II, q. 1, a. 10) l’Angelico si chiede “se spetti al Papa stabilire il Credo”. Nel sed contra risponde che la redazione del primo Credo è stata fatta in un Concilio ecumenico[8]. Ora il Concilio ecumenico può essere convocato solo per autorità del Papa, non della Prima Sede senza il Papa (cfr. Decreto di Graziano, dist. XVII, can. 4-5). Quindi la redazione del Credo spetta all’autorità del Sommo Pontefice”.

Nel Respondeo dicendum quod l’Aquinate spiega che “la redazione di un Credo spetta solo all’autorità di colui che ha il potere di determinare con sentenza definitiva quelle verità le quali riguardano la fede, di modo che siano credute da tutti con fede incrollabile. […]. La ragione di ciò sta nel fatto che tutta la Chiesa deve avere un’unica fede (1a Cor., I, 10). Ora ciò può essere assicurato solo se, quando sorge una disputa sulla fede, essa viene risolta da colui che presiede a tutta la Chiesa, in modo che la sua definizione sia tenuta da tutta la Chiesa con fermo assenso. Così spetta solo all’autorità del Sommo Pontefice la promulgazione di un nuovo Simbolo, come anche tutto ciò che riguarda la Chiesa universale, come la convocazione di un Concilio ecumenico, eccetera…”.   Inoltre l’Angelico specifica che “non ogni compendio delle sentenze della fede è un Simbolo” (S. Th., II-II, q. 1, a. 9), bensì solo quella promulgata dal Papa o dal Concilio ecumenico riunito ed approvato dal Papa (S. Th., II-II, q. 1, a. 9) ed esso non è identico alla S. Scrittura perché mutua da essa e dalla Tradizione apostolica il suo contenuto (S. Th., II-II, q. 1, a. 9, ad 1)[9].

Il Papa, inoltre, gode della stessa infallibilità di cui Cristo volle che fosse dotata la sua Chiesa (DB, 1839), ma non per questo vi sono due infallibilità: del Papa e della Chiesa. L’infallibilità data da Cristo alla sua Chiesa è una sola: quella conferita a Pietro e ai suoi successori. Questa infallibilità è finalizzata al bene della Chiesa perciò si dice data alla Chiesa per il suo bene spirituale (causa finale), ma esercitata dal suo capo (causa efficiente secondaria) che è il Papa (cfr. S. Tommaso d’Aquino, Quodlibetum 9, q. 7, a. 16), Vicario in terra di Cristo (Causa efficiente principale) suo Capo primario e invisibile in Cielo.

Per fare un esempio: la vita data all’uomo è una sola, essa pur derivando dall’anima, che è il principio della vita (causa efficiente) si diffonde in tutto il corpo per la sua esistenza, ossia affinché esso viva (causa finale); così l’infallibilità è diffusa e circola in tutta la Chiesa per la sua sussistenza indefettibile (causa finale), ma dipendentemente dal capo che è il Papa (causa efficiente), il quale 1°) la può esercitare da solo (con il Magistero Straordinario o Ordinario Pontificio), in modo tale che le sue definizioni dogmatiche sono infallibili e irriformabili anche senza il consenso della Chiesa (Cardinali, Vescovi, Concilio e fedeli); contro l’errore dei gallicani. Inoltre il Papa 2°) può esercitare l’infallibilità attraverso il Magistero Straordinario Universale nel Concilio ecumenico, (in cui l’Episcopato è riunito sotto il Papa in uno stesso luogo) oppure 3°) mediante il Magistero Ordinario Universale, (in cui l’Episcopato è sparso nelle diocesi di tutto il mondo, ma sempre con il Papa  e sotto il Papa) definendo e obbligando a credere una verità di fede o di morale, come contenuta nella divina Rivelazione, per la salvezza eterna e sotto pena di dannazione.  Come si vede senza il Papa l’Episcopato e il Collegio dei Cardinali non possono nulla, mentre il Papa da solo può definire tutto ciò che è contenuto nella Rivelazione e promulgare leggi obbliganti per la Chiesa universale.

Infatti secondo la dottrina cattolica, espressa mirabilmente dal Gaetano, il Papa è proximus et immediatus Vicarius Christi (De Comparatione, ed. Pollet, 1936, cap. VIII, p. 52, n. 93)[10]. Quindi non c’è nessuna autorità sulla terra né eguale né tanto meno superiore a quella del Papa. Perciò il Papa ha il supremo potere sulla Chiesa universale ed è superiore al Concilio e ai Vescovi sparsi nel mondo.

Ne segue che il Papa non può essere giudicato da nessuna autorità terrena o ecclesiale avendo per superiore solo Gesù Cristo. “La Prima Sede non sia giudicata da nessuno”.

Se nella società civile la sanior pars può, come extrema ratio, rivoltarsi (anche con le armi) contro il tiranno temporale, non ci si può rivoltare neppure giuridicamente contro il Papa dichiarandolo decaduto. Infatti i Vescovi non ne hanno il potere, neppure il Concilio o i Cardinali (Cajetanus, Apologia De Comparata Auctoritate, cit., ed. Pollet, 1936, cap. VII, p. 234, n. 521; cap. XVI, p. 316, n. 795).

La Chiesa è stata istituita in totale dipendenza da Cristo e dopo la sua Ascensione in Cielo deve dipendere dal Vicario di Cristo. Di qui il detto “Prima Sede a nemine judicetur”.

Il Concilio senza il Papa rappresenterebbe solo le pecore senza il pastore. Ora Pietro è stato istituito da Cristo unico pastore universale a cui è affidato l’unico ovile universale che è la Chiesa (Cajetanus, De comparatione, cit., ed. Pollet, 1936, cap. VII, p. 49, n. 85). La Chiesa quindi non è al di sopra del Papa, ma sotto il Papa come l’ovile e il gregge sono sotto il pastore. Se il Concilio, i Vescovi, i Cardinali e i fedeli, invece, pretendessero di essere non gregge ma pastore almeno de facto, non sarebbero il pastore scelto da Cristo, che è solo Pietro e i suoi successori, ma sarebbero un pastore “abusivo” o un lupo travestito da pastore (Cajetanus, De Comparatione, cit., cap. VII, p. 49, n. 86).

Per quanto riguarda l’ipotesi della deposizione del Papa che insegna errori, il Gaetano (Apologia de comparata auctoritate Papae et Concilii, Roma, Angelicum ed. Pollet, 1936, p. 112 ss.) scriveva che il rimedio ad un male così grande (come “un Papa scellerato”) è la preghiera e il ricorso all’onnipotente assistenza divina su Pietro, che Gesù ha promesso solennemente. Gaetano cita il De regimine principum dell’Angelico (lib. I, cap. V-VI), in cui il Dottore Comune insegna che normalmente i più propensi a rivoltarsi contro il tiranno temporale sono i “discoli”, mentre le persone giudiziose riescono a pazientare finché è possibile e solo come extrema ratio ricorrono alla rivolta. Quindi ne conclude che, se occorre aver molta pazienza con il tiranno temporale e solo eccezionalmente si può ricorrere alla rivolta armata e al tirannicidio, nel caso del Papa indegno o “criminale”[11] non solo non è mai lecito il “papicidio” e la rivolta armata, ma neppure la sua deposizione da parte del Concilio, che non ne ha il potere.

Oltre al Gaetano molti altri Dottori hanno esposto la medesima dottrina. Per esempio, il valente teologo della seconda metà del Novecento, don Rodolfo Dall’Osta, ritiene che Teodoro De’ Lelli nel Quattrocento[12], quanto alla dottrina del Primato di giurisdizione e dell’Infallibilità papale (assieme al Torquemada), abbia superato i teologi suoi contemporanei ed abbia precorso i tempi, avanzando la dottrina che sarà esposta nei secoli successivi dal Gaetano, dal Bellarmino, dal Suarez, dal Ballerini e quindi la definizione dogmatica del Concilio Vaticano I, anche se non ne ha tutta la precisione terminologica.

Come farà il Ballerini nel Settecento, il De’ Lelli già nel Quattrocento si fonda soprattutto sul Vangelo di San Luca (XXII, 31-32), in cui Gesù dice a Pietro: “Ho pregato per te, affinché non venga meno la tua fede, ma tu quando ti sarai convertito conferma i tuoi fratelli”. Quindi commenta che la preghiera di Gesù è stata fatta per Pietro e non per gli Apostoli, i quali, anzi, da Pietro dovevano essere “confermati”, e che questa preghiera non poteva non essere infallibile e non sortire il suo effetto, essendo Gesù vero Dio e vero uomo (Contra supercilium, lib. II, cap. V, p. 71). Quindi, se è stata fatta solo ed esclusivamente per Pietro, significa che egli è bastante ex sese ad assicurare l’unità e la stabilità di fede e di comunione della Chiesa universale, anche senza il consiglio del Collegio cardinalizio o del Corpo episcopale (Contra supercilium, lib. II, cap. V, pp. 71-72).

Constatata l’esistenza della prerogativa del Primato di giurisdizione e dell’Infallibilità in Pietro e nei suoi successori (i Papi), il De’ Lelli ce ne dà la causa efficiente, che è l’aiuto e l’assistenza divina solennemente promessa da Gesù Cristo. Quindi il Papa non è tenuto a sentire il consiglio del Cardinalato o dell’Episcopato; se vuole, può farlo ma non ne è necessitato. Monsignor Teodoro De’ Lelli cita San Tommaso d’Aquino che insegna: “il Papa può definire questioni di fede e interpretare il Credo o Simbolo della fede senza il consiglio del Sinodo” (S. Th., II-II, q. 1, a. 10). Quindi De’ Lelli asserisce con fermissima sicurezza, appoggiandosi al Dottore Ufficiale della Chiesa, che il Papa da solo “sine et ante Synodum potest definire dogmata fidei” (Contra supercilium, lib. II, cap. VI, p. 78). Egli è superiore all’Episcopato (riunito in Concilio ecumenico o sparso nel mondo) e al Cardinalato. Perciò non è obbligato né a chiederne né a seguirne i consigli e le decisioni.

Secondo il De’ Lelli per attribuzione lo Spirito Santo, che è “Spirito di Verità” (Gv., XIV, 17; XV, 26; XVI, 13), è la causa efficiente dell’Infallibilità papale. Il Nostro Autore è molto esplicito a proposito affermando che esiste una speciale Provvidenza divina, la quale “governa e dirige l’attività del Pontefice Romano e lo preserva dall’errore nelle definizioni dogmatiche per la virtù docente dello Spirito Paraclito, in contrapposizione ai Concili ecumenici e al Collegio cardinalizio” (Contra supercilium, lib. II, cap. VI, pp. 77-78).

* * *

3°) Mons. Schneider: a) il Papa non è il centro della Chiesa; b) no al “centralismo papale”; c) l’Episcopato supplisce il Papa eventualmente eretico

a) Il “centralismo papale” come “papolatria”

Mons. Schneider scrive: «Perdita dell’ufficio papale per deposizione o ipso facto implicitamente identifica il papa con tutta la Chiesa o manifesta l’atteggiamento malsano di un “centrismo papale”, in ultima analisi, della papolatria. I sostenitori di tale opinione (specialmente alcuni santi) manifestavano un esagerato ultramontanismo o “centrismo papale”».

b) Il Papa non è il centro della vita della Chiesa

Mons. Schneider insiste: «Un altro errore consiste nell’identificazione indiretta o subconscia della Chiesa con il papa o nel fare del papa il punto focale della vita quotidiana della Chiesa. Ciò significa in definitiva e subconsciamente un cedimento a un ultramontanismo malsano, al papo-centrismo e alla papolatria, cioè un culto della personalità papale».

c) L’Episcopato supplisce il Papa eretico

Ancora Mons. Schneider: «La supplenza ministeriale dei rappresentanti dell’episcopato e l’invincibile sensus fidei dei fedeli. In questa materia il fattore numerico non è decisivo. È sufficiente avere anche solo un paio di Vescovi che proclamino l’integrità della fede e correggano in tal modo gli errori di un papa eretico».

Rispondo: Papato monarchico ed Episcopato subordinato

Il principio secondo cui l’unità di fede è mantenuta dal Primato del Papa, successore di Pietro e Vicario visibile in terra di Cristo asceso in Cielo, lo si trova anche nella S. Scrittura oltre che nella Tradizione e nel Magistero, come abbiamo già visto nelle pagine precedenti.

I Padri, i Dottori scolastici, i teologi recenti e i Santi hanno visto nel Papa il centro, il fondamento, il capo della Chiesa e, dunque, lo hanno venerato come tale, senza adorarlo.

Nel Vangelo di San Luca (XXII, 31-32) Gesù dice solennemente: “Simone, Simone, ecco che Satana ha chiesto e ottenuto[13] di vagliarvi come si fa con il grano. Ma Io ho chiesto e pregato per te, affinché la tua fede non venga meno. E tu una volta convertito conferma i tuoi fratelli nella fede”.

In questo discorso Gesù predice il triplice rinnegamento di Pietro (ivi, vv. 33-34). Da principio il discorso è rivolto a Pietro e a tutti gli Apostoli   ed espone il pericolo comune a tutti loro: “Satana ha chiesto [e ottenuto] di mettervi alla prova e di tentarvi” (v. 31); poi si indirizza al solo Pietro: “Io ho chiesto e pregato per te…” (v. 32).

Come mai questa improvvisa mutazione da Pietro agli Apostoli e poi di nuovo al solo Pietro? Nel pericolo comune Gesù volle far capire di aver pregato specialissimamente per Pietro e di aver dato al solo Pietro la cura, l’ufficio e l’incarico di “confermare” nella fede tutti gli altri Apostoli contro tutte le tentazioni e persecuzioni sataniche avverse alla fede. Infatti Gesù come rimedio dice di aver pregato perché Pietro conservi la fede e confermi in essa anche gli altri Apostoli.

Padre Marco Sales commenta: “Il diavolo cerca di trascinare al male [perdita della fede, ndr] tutti gli Apostoli, Gesù prega per ottenere loro il soccorso da Dio. Si osservi però che mentre tutti gli Apostoli sono tentati, Gesù prega in particolare solo per Pietro; il che suppone che la fermezza di S. Pietro nella fede basti a mantenere fermi tutti gli altri. Pietro è, infatti, il fondamento di tutta la Chiesa, il Capo degli Apostoli e di tutti i fedeli, e coloro che stanno con lui son certi che Satana non riuscirà a strappar loro la fede. L’oggetto della preghiera di Gesù è la stabilità o l’infallibilità di Pietro nella fede. Ora Gesù fu certamente esaudito dal Padre, e perciò si deve ritenere che la fede di Pietro non è mai venuta e non verrà mai meno. Anche nelle tre negazioni del suo Maestro, Pietro non perdette la fede, ma solo sentì mancarsi il coraggio per professarla pubblicamente[14]. ‘E tu una volta ravveduto dalle negazioni in cui tra poco cadrai, conferma, cioè rendi forti nella fede i tuoi fratelli: gli Apostoli. […]. A ragione da questo passo di S. Luca si deducono le grandi verità dogmatiche del Primato e dell’infallibilità del Romano Pontefice definite dal Concilio Vaticano I” (Vangelo secondo San Luca, Proceno di Viterbo, Effedieffe, II ed., 2015, p. 123, nota 32).

Se le tentazioni di Satana riguardano la fede conseguentemente anche il compito dato a Pietro di “confermare” gli Apostoli riguarda la fede. Ora ciò Pietro (e il Papa) lo può fare definendo autoritativamente le verità di fede e obbligando a credere alle sue definizioni dogmatiche, ossia impegnando l’infallibilità[15].

Ora confermare nella fede significa decidere con autorità, definire e obbligare a credere quale sia la vera dottrina e quale sia quella falsa. Perciò Gesù ha dato a Pietro tale autorità la quale obbliga la Chiesa (Vescovi, preti e fedeli) ad aderire alle sue definizioni (cfr. P. Ballerini, De vi ac ratione primatus Romanorum Pontificum, Verona, 1766, cap. XII, nn. 54 ss.).

Quindi è dovere del Papa confermare i “fratelli” nella fede, definendo e obbligando ed è dovere dei fedeli, chierici e Vescovi farsi confermare o illuminare nella fede dal Papa nelle questioni dubbie chiedendogli di definire ed obbligare a credere. In breve nessuno può far parte della Chiesa se non vuole essere nutrito con la fede definita da Pietro, come è rivelato nel Vangelo di San Giovanni (XXI, 15-17) “Pasci i miei agnelli e le mie pecorelle”, ossia Pietro ha il compito, affidatogli da Gesù, di nutrire (“pascere”)[16] fedeli, chierici (agnelli) e Vescovi (pecore)[17] con la dottrina della fede (P. Ballerini, De vi ac ratione…, cap. XII, nn. 59-63).

I giudici di grado inferiore sono soggetti, per loro natura, ai giudici di grado superiore, senza per questo cessare di essere veri giudici; così i Vescovi sono soggetti al Papa senza cessare di essere Vescovi, Pastori e giudici nelle loro diocesi, come il Papa lo è in tutta la Chiesa. Quindi i Vescovi (come i giudici inferiori) non possono emanare una sentenza contraria a quella del Papa nel caso che egli si sia già pronunciato, ma il loro giudizio deve conformarsi a quello del Papa per essere veramente un buon giudizio (De vi ac ratione…, cap. XIII, n. 13).

La natura del vero giudizio legale consiste nel fatto che il giudice pronunci la sentenza con una sufficiente cognizione di causa. Ora quando i Vescovi, in Concilio o sparsi nelle loro diocesi in tutto il mondo, approvano una dottrina definita dal Papa, pronunciano una sentenza con sufficiente cognizione di causa sia perché hanno di dovere di studiarla sia perché sanno che il Papa quando 1°) parla di fede e di morale, 2°) come supremo Pastore della Chiesa universale, 3°) definisce e 4°) obbliga non può errare nella fede[18] (P. Ballerini, De Potestate ecclesiastica summorum Pontificum et Conciliorum generalium, Verona, 1765, cap. II)[19].

I Vescovi, come è rivelato nel Vangelo di San Matteo, in quanto successori degli Apostoli hanno ereditato i loro tre poteri, ossia il Magistero, il Ministero sacro o Sacerdozio e l’Imperio o Governo: “Andate e ammaestrate tutte le genti, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo e facendo loro osservare quanto vi ho comandato” (Mt., XXVIII, 28). Essi, quindi, sono 1°) “veri doctores seu magistri” (CIC, 1917, can. 1326), che prolungano nel tempo l’insegnamento divino/apostolico e sono, col Romano Pontefice e sottomessi a lui, gli autentici custodi e interpreti  della divina Rivelazione, che debbono predicare ai loro fedeli; 2°) hanno il potere sacro di santificare (v. Pontificale Romano: “Il Vescovo deve consacrare, ordinare, offrire il sacrificio, battezzare e cresimare”); 3°) hanno, infine, il potere di giudicare con autorità giurisdizionale: “Lo Spirito Santo  ha posto i Vescovi a governare la Chiesa di Dio” (Act., XX, 28)[20].

La storia della Chiesa lo conferma. Infatti, per fare alcuni esempi, 1°) nel Concilio di Gerusalemme (anno 50) gli Apostoli agirono da veri giudici aderendo alla definizione di S. Pietro sulla salvezza mediante Cristo e non tramite l’osservanza dei cerimoniali della Vecchia Alleanza. 2°) Nel Concilio di Calcedonia (451) i Vescovi condannarono l’errore monofisista di Eutiche, il quale insegnava che in Cristo vi è una sola natura teandrica o ibridamente mista (umana e divina, in cui prevale soprattutto quella divina, che assorbe in sé quella umana), il quale già era stato condannato nel 448 da papa San Leone Magno. 3°) Papa S. Martino I nel Concilio particolare del Laterano (anno 649) e papa S. Agatone nel 680 condannarono i monoteliti, che ritenevano esistere in Cristo una sola volontà (quella divina) e Agatone definì il dogma della duplice volontà (divina e umana) in Cristo. 4°) I Vescovi al III Concilio di Costantinopoli nel 681 aderirono alla definizione e all’anatema di papa Agatone esercitando un ufficio di veri giudici.

Tuttavia bisogna mantenere ben fermo che tra l’autorità la quale compete al Papa in virtù del Primato e quella dei Vescovi sussiste una differenza radicale: 1°) l’autorità dei Vescovi viene loro da Dio tramite il Papa, invece quella del Papa viene a lui direttamente da Dio; 2°) l’autorità dei Vescovi si limita alle loro singole diocesi, quella del Papa alla Chiesa universale. Ora non ripugna che una singola diocesi possa cadere nell’errore. Quindi i Vescovi non necessitano dell’assistenza infallibile di Dio quando insegnano su cose di fede e di morale, mentre la Chiesa universale è il Corpo Mistico di Cristo[21], la Sposa Immacolata di Gesù. Dunque essa, mediante il suo Capo visibile e Vicario di Cristo in terra[22], deve gioire dell’assistenza infallibile di Cristo quando definisce e obbliga a credere.

Pierre D’Ailly († 1420) – occamista, conciliarista e gallicano convinto – riteneva con Corrado di Gelnhausen che la Chiesa fosse fondata su Cristo e non su Pietro e perciò il Papa non sarebbe essenziale alla Chiesa. Quindi la giurisdizione deriverebbe ai Vescovi direttamente da Cristo e non tramite il Papa e i Vescovi uniti in Concilio ecumenico sarebbero la massima autorità della Chiesa. Il Papa sarebbe solo ministerialmente esercitando il potere nella Chiesa e lo dispenserebbe amministrativamente e, siccome potrebbe anche cadere in eresia formale, potrebbe essere in tal caso deposto. Solo la Chiesa universale, ovvero i Vescovi uniti in Concilio ecumenico sarebbero infallibili e «nel caso che anche tutto il clero cadesse nell’errore, vi sarà sempre qualche anima semplice e qualche pio laico che saprà custodire il deposito della divina Rivelazione» (Antonio Piolanti, voce “Conciliarismo”, in “Enciclopedia Cattolica”, Città del Vaticano, 1949, vol. III, col. 165).

Perciò si evince che senza Papa non c’è Chiesa: infatti, l’Autorità è l’essenza di ogni società temporale e spirituale e quindi anche della Chiesa, che è una società perfetta d’ordine spirituale, onde il Papa non è accidentale, ma essenziale e necessario alla sussistenza di essa. Senza un Papa che regni, il Corpo mistico sarebbe simile ad un corpo senza forma o anima, ossia morto. Essendo l’Autorità il principio di unità e di essere della società, questa non sarebbe più una né esisterebbe (“ens et unum convertuntur”) senza Autorità. Quindi, il Papa non è accidentale, ma essenziale per la sussistenza della Chiesa (cfr. San Tommaso d’Aquino, C. Gent., IV, c. 76). Senza un Papa che regni in atto non sussiste il Corpo Mistico. L’unità è una nota essenziale della Chiesa ed è essenzialmente concentrata nell’unico Capo visibile della Chiesa, il Pontefice Romano, al quale rimonta il principio della successione apostolica (o apostolicità formale)[23].

L’unità della gerarchia cattolica consiste nell’unione col successore di Pietro (cfr. Bernard Schultze in “Enciclopedia Cattolica”, Città del Vaticano, 1954, vol. XII, voce “Unità”). Unità della Chiesa significa che la Chiesa è indivisa in sé (se fosse divisa in se stessa sarebbe morta come quando l’anima lascia il corpo e l’uomo si divide, decompone e muore) ed è distinta da ogni altra “chiesuola” o setta. Ora la Chiesa senza Papa (come l’uomo senza anima, che è principio di vita, essere e unità intrinseca) sarebbe morta. Noi, però, sappiamo per fede che la Chiesa perdurerà sino alla fine del mondo e non cesserà di esistere un istante prima. San Tommaso d’Aquino riassume così mirabilmente questa verità: «La fermezza o unità (firmitas) della Chiesa è analoga a quella di una casa che si dice solida se ha un buon fondamento. Ora il fondamento principale della Chiesa è Cristo, mentre il fondamento secondario sono gli Apostoli (con Pietro a capo). Per questo si dice che la Chiesa è apostolica» (Exp. in Symbol., a. 9). “Ubi Petrus ibi Ecclesia”. Togli il Papa e crolla la Chiesa.

Il gallicanesimo o Conciliarismo, invece, tende ad assegnare al Concilio ecumenico una funzione suprema eguale se non superiore a quella del Papa. Alla fine del XIII secolo il domenicano Giovanni da Parigi († 1306) insegnava che il Concilio può deporre il Papa qualora egli cada in eresia o abusi del suo potere (H. Jedin, Breve storia dei Concili, Brescia-Roma, Morcelliana-Herder, 1978, p. 96). Il principio speculativo da cui parte il Conciliarismo è quello secondo cui “il Papa può personalmente errare, la Chiesa o il Concilio, no” (H. Jedin, ibidem, p. 97); la firmitas Ecclesiae non può risiedere nella infirmitas Petri, ma solo nella soliditas Concilii e il legame di Cristo con la Chiesa o il “collegio episcopale” è indissolubile, con il Papa no (H. Jedin, ibidem, p. 104). Quindi anche il Papa deve obbedienza al “collegio dei Vescovi” e alla sua riunione in Concilio. “Il Concilio ecumenico radunato rappresenta l’intera Chiesa, il suo potere gli viene immediatamente da Cristo” (H. Jedin, ivi). A Costanza si gettò la base della teoria di rendere il Concilio ecumenico “un’istituzione ecclesiastica stabile e per conseguenza una specie di istanza di controllo sul Papato” (H. Jedin, ibidem, p. 107). Per affermare la “libertà del Concilio” non si esitò a “ridurre il più possibile la pienezza dei poteri del Papa” (ibidem, p. 108). Con il Grande Scisma d’Occidente e la crisi del Papato “il ristabilimento dell’unità della Chiesa fu gravata da una pesante ipoteca. La teoria conciliarista, nata dallo stato d’emergenza in cui si trovava la Chiesa [con tre Papi, ndr], continuò a prosperare, benché incompatibile con la struttura gerarchica della Chiesa” (ibidem, p. 112). Il conflitto tra primato del Papa e Conciliarismo è inevitabile, sia pure un Conciliarismo mitigato quale la collegialità episcopale. Papa Martino V ha condannato solo indirettamente il Conciliarismo sostenuto al Concilio di Costanza, per evitare un secondo scisma; storicamente non poteva fare di più (ibidem, p. 113). Vi sono epoche in cui la Chiesa non può esplicitare tutta la sua dottrina per evitare mali maggiori; queste epoche vi sono sempre state (Costanza, Basilea e Vaticano II) e ci potranno essere sempre sino a che il mondo non finisca. Molto spesso “l’ottimo è nemico del buono” e in certe contingenze occorre prendere atto dei fatti come si presentano realmente e non come li vorremmo noi. Sarebbe ottimo essere sempre in clima di Vaticano I, ma certe volte si è nel clima di Costanza, Basilea o Vaticano II. “C’è un tempo per ogni cosa. Un tempo per piangere e uno per ridere, uno per tacere e uno per parlare, uno per far la guerra e uno per la pace”.

Storico è lo scontro (8 novembre 1963) che ebbe il card. Frings con il card. Ottaviani sulla collegialità. Ottaviani rispose a Frings, che perorava la causa della Collegialità episcopale: “Chi vuol essere una pecora di Cristo deve essere condotto al pascolo da Pietro che è il Pastore, e non sono le pecore [i Vescovi] che debbono dirigere Pietro [pastore], ma è Pietro che deve guidare le pecore [i Vescovi] e gli agnelli [i fedeli]. Infatti Gesù disse a Pietro: «pasci i miei agnelli [i fedeli], pasci le mie pecorelle [gli Apostoli]” (Gv., XXI, 15-16)». È dunque chiaro che per il Prefetto del S. Uffizio la Collegialità faceva del pastore (Papa) una semplice pecorella (Vescovo), mentre – per la S. Scrittura (Gv., XXI, 15-16), la Tradizione apostolica, il Magistero (Conc. Vat. I, Pastor Aeternus, DB 1821 ss.) e l’insegnamento unanime dei teologi approvati – il Papa è il capo dei Vescovi, è il pastore che conduce le pecorelle (Vescovi) e gli agnelli (fedeli) al pascolo (cielo).

Quando Pietro (Mt., XVI, 18) confessa, divinamente ispirato, che Gesù è il Messia, a sua volta Gesù Cristo, che come Messia è la pietra e il fondamento annunziati da Isaia (XXVIII, 18), dice solo a Pietro: “Tu sei Pietro e su questa pietra Io fonderò la mia Chiesa”.

San Leone Magno commenta: “Essendo Io (Cristo) la Pietra inviolabile o per essenza, anche tu (Simon Pietro) sei Pietra (per partecipazione), poiché sei rafforzato dalla mia potenza”[24].

Questa è la novità della Chiesa di Cristo. Il suo fondatore, Gesù, nell’atto di fondare la sua Chiesa, dà a Pietro il medesimo suo ufficio e lo rende partecipe di esso. Gesù è capo per essenza e Pietro per partecipazione.  Ciò cambia l’essenza della Ekklesìa del Vecchio Testamento che era una teocrazia, governata direttamente da Jaweh, mentre nella Chiesa del Nuovo testamento Cristo dà o partecipa a Pietro il posto che per essenza aveva Jaweh e Pietro diviene per partecipazione il capo visibile sulla terra, in senso vero e proprio, della Chiesa con Cristo come capo invisibile in cielo per essenza. Quindi il Papa è veramente capo visibile della Chiesa militante anche se subordinatamente a Cristo.

Tuttavia non avviene una trasmissione di poteri da Cristo a Pietro poiché Gesù resta permanentemente capo invisibile della Chiesa per essenza e in maniera infinita. Quindi Gesù non ha designato un successore che lo rimpiazzi totalmente, ma un capo visibile che partecipi il Suo potere.

Cristo ha dato a Pietro non una generica autorità sulla Chiesa (come avviene ai Prìncipi temporali), ma gli ha trasmesso o partecipato la sua propria autorità. Gesù pone Pietro al posto Suo come Suo sostituto e Suo rappresentante nella Chiesa.

Giuridicamente questa costituzione di governo viene definita in maniera propria con il termine “Vicario di Cristo”. Infatti San Pietro (partecipante/effetto) sostituisce in terra Gesù con la stessa pienezza di potere, ma nello stesso tempo è subordinato a Cristo (Partecipato/causa), capo principale e invisibile della Chiesa, nella quale perciò sussistono due poteri che non interferiscono vicendevolmente perché uno è il principale (per essenza) o la causa e l’altro è il consociato (per partecipazione) o l’effetto. Alla teocrazia della Vecchia Alleanza, che era il governo diretto di Dio sul popolo eletto, succede il consorzio di Gesù e Pietro. Pietro è nominato per partecipazione a quel posto di capo della Chiesa che per essenza spetta solo a Gesù.

In Matteo (XVI, 19) Gesù dice a Pietro: “A te darò le chiavi del Regno dei cieli”. Con ciò Gesù vuol farci capire che nella Chiesa Pietro assumerà per partecipazione il posto di padrone di casa che ha per essenza Cristo, l’originario e principale possessore delle chiavi, rappresentanti il possesso e la piena proprietà dell’edificio[25]. Pietro e solo lui avrà per partecipazione il possesso delle chiavi che gli danno il supremo potere nella Chiesa.

Tuttavia Cristo asceso in cielo mantiene per essenza il perenne possesso delle medesime chiavi, ma le affida per partecipazione a Pietro qui sulla terra. Non vi sono due padroni per essenza nella Chiesa, possessori indipendenti delle chiavi. Ma Pietro è elevato da Gesù al posto di suo sostituto e quindi di suo Vicario. Cristo ha la chiave della Chiesa in quanto Dio, ma questa chiave ossia questa autorità Egli la rimette nelle mani di Pietro poiché, dovendo ascendere in cielo, vuol lasciare sulla terra un suo rappresentante o Vicario (cfr. San Tommaso d’Aquino, Summa contra Gentiles, IV, 76), che oltre il possesso delle chiavi ha anche il “potere di aprire o chiudere” (Mt., XVIII, 18), ossia la pienezza di esercizio dell’autorità su tutta la Chiesa.

In breve Pietro è il Vicario visibile di Cristo nella Sua Chiesa; Pietro possiede per partecipazione nella Chiesa il potere che per essenza è proprio di Cristo, suo divino fondatore; inoltre siccome agere sequitur esse Pietro può esercitare in concreto la medesima autorità che Cristo-Dio ha in cielo.

Nel Vangelo di Giovanni (XXI, 15) Gesù rende Pietro Pastore supremo delle pecore (Apostoli/Vescovi) e degli agnelli (sacerdoti/fedeli). Alla fine della sua missione in terra Cristo, dopo aver insegnato agli Apostoli che Egli è per essenza il Pastore delle anime per condurle in cielo, dichiara solennemente davanti ai Dodici che solo Pietro è per partecipazione il Pastore supremo della Chiesa. Agnelli, pecorelle e pecore indistintamente sono sottoposti alla giurisdizione di Pietro, ma agnelli, pecorelle e pecore non cessano di essere di Cristo. Infatti Gesù ripete per tre volte “meos/meas”. Quindi Gesù mantiene il suo potere di Pastore, ma costituisce Pietro suo Vicario in terra, che rappresenta e fa le veci visibilmente su questa terra di Cristo Pastore invisibile, perenne e principale.

Sant’Ambrogio, commentando il versetto di San Giovanni, usa il termine Vicario di Cristo riferito a Pietro[26]. Ecco l’elemento nuovo che caratterizza la Chiesa di Cristo e la distingue sostanzialmente dalla Sinagoga dell’Antico Patto: Pietro partecipa alla divina autorità di Gesù sulla Sua Chiesa, come capo visibile per partecipazione, che rappresenta Gesù asceso in cielo, capo invisibile per essenza della Chiesa. Come in Gesù vi è una natura divina e una umana, così la Chiesa ha un elemento divino e uno umano[27].

Ora la societas Petri cum Christo, l’essere Pietro Vicario di Cristo non è un privilegio transitorio concesso solo alla persona fisica di San Pietro, ma è un elemento proveniente da Dio come costitutivo essenziale della Sua Chiesa. La Chiesa di Cristo ha ricevuto dal suo fondatore una forma di governo costituita da un Vicario in terra di Cristo in cielo e quindi tale forma non può essere mutata dagli uomini, ma deve perpetuarsi nella Chiesa.

“L’ufficio di Vicario di Cristo affidato all’Apostolo è essenziale e perenne nella Chiesa: esige pertanto che sia trasmesso, con la stessa pienezza di potere, ai suoi successori, i quali come San Pietro saranno Vicari di Cristo”[28].

Non si può diminuire la pienezza del potere e l’autorità del Papa, scemando la devozione verso di esso a causa degli errori di Bergoglio o di Onorio. Il Papa è sempre il Vicario di Cristo, il fondamento e il capo visibile della Chiesa anche se la sua vita privata non è conforme alla carica che rappresenta e se il suo insegnamento, eccezionalmente, non è conforme alla Tradizione apostolica e al Magistero pontificio costante e tradizionale.

Parlare di “papolatria” è pericoloso. Infatti certamente non si può adorare il Papa che è una creatura, ma non si può negare che egli sia il Vicario di Cristo, che è Dio. Quindi si può fare una certa analogia tra il ruolo del Papa e la Madonna, che è una creatura, ma vera madre fisica di Cristo. Ora non si può adorare la Madonna, ma le si può prestare il culto di iperdulia in quanto madre di Dio e Corredentrice secondaria e subordinata del Redentore principale: Gesù Cristo. “De Maria numquam satis”, si può tributare ogni lode a Maria tranne la Divinità. Così, tranne l’Onnipotenza divina, si può attribuire al Papa il gran potere di fare per la Chiesa tutto ciò che Cristo può fare per Essa, senza dimenticare che egli è veramente in terra il Vicario di Dio, del quale partecipa il potere riguardo alla Chiesa, senza equipararlo all’Episcopato o al Collegio dei Cardinali, che sono subordinati e dipendenti dal Papa.

4°) Mons. Schneider: il Decreto di Graziano, canone 6, “Si Papa”

9) «“Papa a nemine est iudicandus, nisi deprehendatur a fide devius”, cioè “il papa non può essere giudicato da nessuno, a meno che non sia stato trovato deviante dalla fede” (Decretum Gratiani, Prima Pars, dist. 40, c. 6, 3. pars). Il Codice di Diritto Canonico del 1917 tuttavia, eliminò la norma del Corpus Iuris Canonici, che parlava di un papa eretico. E nemmeno il Codice di Diritto Canonico del 1983 prevede tale norma».

Rispondo: Il Decreto di Graziano (I pars, dist. 40, can. 6)    

Il canone 6 (“Si Papa”) I pars, distinzione 40 del Decreto di Graziano (composto attorno al 1140) attribuito a S. Bonifacio Vescovo di Magonza († 754) è spurio ed è proprio su questo canone 6, ritenuto autentico da Ivo di Chartes († 1115) e dal monaco camaldolese Graziano del XII secolo che molti teologi hanno affrontato la questione puramente ipotetica dell’eresia del Papa, a causa della quale potrebbe essere giudicato e deposto. Secondo tale teoria fondata su questo canone spurio del Decreto di Graziano il Concilio ecumenico sarebbe superiore al Papa. Quindi il Papa potrebbe essere giudicato dal Concilio ecumenico ‘imperfetto’ (sine Papa) in caso di eresia e poi deposto. Purtroppo nel Trecento, con le lotte tra Bonifacio VIII († 1303) e Filippo IV il Bello († 1314), il prestigio del Papato scemò e il vecchio principio del canone 6 del Decreto di Graziano (I pars, dist. 40) fu arricchito: il Papa poteva essere giudicato e deposto non solo in caso di eresia, ma anche quando esorbitava nell’esercizio del suo potere[29]. È per questo motivo che il CIC del 1917 (e quello del 1983) non ha ripreso tale canone ed ha insistito sul principio secondo cui “la Prima Sede non è giudicata da nessuno”, altrimenti non sarebbe la “prima”.

* * *

5°) Mons. Schneider critica l’Assolutismo papale equiparando Pio X e Pio XII a Paolo VI e Francesco

Mons. Schneider: «Negli ultimi cento anni, ci sono stati alcuni esempi spettacolari di un assolutismo papale. Quando consideriamo la lex orandi, furono drastici e radicali i cambiamenti operati dai Papi Pio X, Pio XII e Paolo VI e, riguardo alla lex credendi, da papa Francesco. Pio X divenne il primo papa nella storia della Chiesa latina a compiere una riforma tanto radicale dell’ordine della salmodia (cursus psalmorum), che portò alla creazione di una forma di un nuovo Ufficio Divino riguardo alla distribuzione dei salmi. Poi ci fu Papa Pio XII, che approvò per l’uso liturgico una versione latina radicalmente modificata del millenario e melodioso testo del Salterio della Vulgata».

Inoltre Mons. Schneider asserisce che «Papa Pio XII cambiò anche la liturgia della Settimana Santa, un tesoro liturgico millenario della Chiesa, introducendo rituali inventati parzialmente ex novo. […]. Un cambiamento teologicamente rivoluzionario è stato fatto da papa Francesco in quanto egli approvò le norme in alcune chiese locali che prevedano di ammettere alla Sacra Comunione in casi singolari e eccezionali adulteri sessualmente attivi (che convivono nelle cosiddette “unioni irregolari”). Anche se queste norme locali non rappresentano una norma generale nella Chiesa, tuttavia costituiscono una negazione pratica della verità dell’assoluta indissolubilità del matrimonio sacramentale rato e consumato. Altro cambiamento radicale nelle questioni dottrinali è la modifica della dottrina biblica e del Magistero bimillenario della Chiesa riguardo alla legittimità in via di principio della pena di morte».

Rispondo

Mi sembra oggettivamente eccessivo e  azzardato paragonare la rivoluzione dogmatico/morale di Francesco (Esortazione sinodale, Amoris laetitia, 19 marzo 2015) alle riforme di S. Pio X (sulle rubriche riguardanti l’ordine della recitazione dei Salmi del Breviario Romano durante l’anno liturgico) e di Pio XII (sulle rubriche della Settimana Santa e sull’autorizzazione della nuova versione del Salterio tradotto in latino dai Gesuiti del Pontificio Istituto Biblico, che non fu resa obbligatoria nella Chiesa universale, potendosi recitare il Salterio della Vulgata di S. Girolamo o il nuovo-Salterio).

Tutti i manuali classici di Ecclesiologia (Bellarmino, Passaglia, Mazzella, Franzelin, Billot, Zapelena, Salaverri, Journet, Vellico, Lattanzi, Parente…) – trattando “l’oggetto secondario dell’infallibilità” – spiegano che quando il Papa promulga una legge universale in materia liturgica essa non è necessariamente la migliore possibile, ma è garantita dall’assistenza divina in modo da non essere neppure cattiva in sé, ossia non può essere contraria alla fede, essendo la liturgia la fede pregata: “lex credendi lex orandi”. Essi qualificano questa tesi come “sentenza certa, teologicamente certa, comunemente insegnata”. Quindi una riforma liturgica cattiva equivarrebbe ad un errore nella fede.  Ora le riforme di S. Pio X e Pio XII potrebbero essere le non migliori assolutamente parlando, ma non possono venire rigettate e non applicate come se fossero nocive per le anime.

Accusare, esagerando, di “Centralismo papale” Pio X e Pio XII per le loro riforme delle rubriche del Breviario Romano e del Triduo Sacro del Messale Romano, dovendo giustamente arginare il cataclisma dogmatico/morale di papa Bergoglio con delle “Ammonizioni filiali”, è pericoloso: equivarrebbe a gettare con “l’acqua sporca” (gli errori di Bergoglio) anche “il bambino lavato” (Pio X e Pio XII), ossia si rischia di giungere ad una sorta di Conciliarismo o  Episcopalismo, che erge l’Episcopato a giudice del Papa e pensa di poterlo rimpiazzare come suo “supplente” quando non promulga leggi non conformi ai nostri gusti.

Spero che Mons. Schneider come ha corretto le esagerazioni di coloro che, vedendo (giustamente) gli errori di Francesco lo avrebbero voluto far deporre (illecitamente) dai Cardinali o dall’Episcopato; così spieghi meglio le sue tesi in modo da evitare ogni rischio di un errore per eccesso (Episcopalismo) per evitare quello per difetto sulla fede e la morale di papa Francesco.

d. Curzio Nitoglia



[1] Mons. Umberto Benigni, Storia sociale della Chiesa, Milano, Vallardi, 1922, vol. III, pp. 436-437.

[2] In questa seconda Epistola il testo originale latino di Onorio è andato smarrito, si possiede solo la traduzione in greco e una ritraduzione postuma in latino del 680 (AA. VV., Enciclopedia dei Papi, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 2000, 1° vol., pp. 585-590, voce Onorio I, a cura di Antonio Sennis).

[3] M. Greschat – E. Guerriero, Il grande libro dei Papi, Cinisello Balsamo, S. Paolo, 1994, 1° vol., pp. 121-125; AA. VV. I Papi, Milano, Tea, 1993, pp. 34-37.

[4] Cfr. Enciclopedia dei Papi, cit., Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 2000, 1° vol., pp. 585-590, voce Onorio I, a cura di Antonio Sennis.

[5] Cfr. Pio XII, Enciclica Sempiternus Rex, 8 settembre 1951; G. Voisin, L’Apollinarisme, Lovanio, 1901; M. Jugie, in D. Th. C., voce Monothélisme; Id., in D. Th. C, voce Monophisisme; E. Amann, in D. Th. C., voce Honorius I; J. Lebon, Le monophisisme sévérien, Lovanio, 1909; P. Parente, L’Io di Cristo, III ed., Rovigo, Istituto Padano di Arti Grafiche, 1981; IV ed., Proceno di Viterbo, Effedieffe, 2019, in fase di ristampa).

[6] Cfr. G. Gonnella, La persona nella filosofia del diritto, Milano, 1938; F. Carnelutti, La persona umana e il delitto, Roma, 1945.

[7] Per esempio un tribunale senza un giudice non può giudicare, un ospedale senza un medico chirurgo non può operare chirurgicamente, una scuola senza un maestro non può insegnare agli allievi; così la Chiesa senza il Papa, che ne è il Capo, non può insegnare, governare e santificare mediante il Magisterium, l’Imperium e il Sacerdotium. Sino a che il tribunale, l’ospedale, la scuola e la Chiesa restano senza il loro capo esse sono “sedi vacanti” e non possono far nulla tranne che attendere l’arrivo di una nuova persona occupante legittimamente la sede.

[8] «Il Credo più antico e più importante è il “Simbolo degli Apostoli”. Rufino d’Aquileia (345-410) ne ha fatto un “Commento” nel 400 circa, accennando ad un’antica tradizione [riportata dalle “Catechesi” di S. Cirillo di Gerusalemme (348-350) e al “De mysteriis” (390-391) di S. Ambrogio (334-397)], secondo la quale il “Simbolo apostolico” sarebbe stato composto per ordine di Gesù dagli Apostoli sul punto di separarsi per l’evangelizzazione del mondo. […]. Da questi dati alcuni critici sono d’opinione che il primo Simbolo di fede è nato a Roma, probabilmente per opera di S. Pietro e di S. Paolo. […]. Il “Simbolo romano” e il “Simbolo niceno-costantinopolitano” hanno valore dogmatico come espressione del Magistero infallibile della Chiesa» (P. Parente, Dizionario di Teologia Dommatica, Roma, Studium, IV ed., 1957, p. 391, voce “Simbolo”). Cfr. P. Batiffol, in “D. Th. C.”, voce Apotres (symbole des); E. Vacandard, in “D. A. F. C.”, voce Apotres (symbole des).

[9] Cfr. L. Billot, De virtutibus infusis, Roma, Gregoriana, 1928; R. Garrigou-Lagrange, De virtutibus theologicis, Torino, Marietti, 1949.

[10] Cfr. M. Maccarrone, Vicarius Christi, Roma, Lateranum, 1952, p. 276, n. 181; V. Mondello, La dottrina del Gaetano sul Romano Pontefice, Messina, 1965, p. 116ss.

[11] V. Mondello, La dottrina del Gaetano sul Romano Pontefice, Messina, Arti Grafiche di Sicilia, 1965, p. 65.

[12] Cfr. Rodolfo Dell’Osta, Un teologo del potere papale e i suoi rapporti col Cardinalato nel secolo XV. Teodoro De’ Lelli Vescovo di Feltre e Treviso (1427-1466), Belluno, Tipografia Silvio Benetta, 1948. Il libro è una sintesi della Tesi di Dottorato discussa da don Rodolfo Dell’Osta nel Pontificio Ateneo Urbaniano de Propaganda Fide con l’allora don Pietro Parente il gennaio del 1948; cfr. A. Piolanti, in Enciclopedia Cattolica, Città del Vaticano, 1950, vol. IV, coll. 1351-1353, voce De’ Lelli Teodoro; H. Jedin, Storia del Concilio di Trento, Brescia, 1949, vol. I, pp. 65-79. Sia il Cardinal Parente che Monsignor Piolanti, nell’Enciclopedia Cattolica, citano lodevolmente il libro di Rodolfo dell’Osta sul De’ Lelli come “uno dei pochi difensori del Primato pontificio rispetto al Cardinalato nel XV secolo”.

[13] Expetivit in latino suggerisce l’idea di una richiesta che è stata fatta a Dio e che Egli ha concesso come avvenne a Giobbe, il quale fu tentato e scosso da Satana dopo che questi aveva chiesto a Dio il permesso di metterlo alla prova, ma Giobbe non perse la fede e la speranza in Dio (Job., I, 12; II, 6).

[14] S. Tommaso d’Aquino nella sua Catena Aurea commentando il Vangelo di San Luca cita S. Giovanni Crisostomo, che scrive: “Gesù non dice ho pregato per te affinché tu non cada negandomi, ma affinché tu non abbandoni la fede in Me”.  Poi cita Teofilatto, il quale insegna: “Il germe del bene resterà in te [Pietro]. Lo spirito della tentazione scuoterà la pianta, ma nella radice resterà la vita”. In breve Pietro non ha perso e negato la fede, ha avuto paura di confessarla pubblicamente, è stato scosso come il tronco di una pianta che è agitata dal vento, ma le radici non hanno ceduto e la virtù della fede è rimasta in lui. Così non è esatto dire che solo la Madonna aveva mantenuto la fede e che tutti gli Apostoli l’avevano persa dal Giovedì Santo sino alla Domenica di Resurrezione, ma è più esatto asserire che gli Apostoli avevano perso il coraggio di professare pubblicamente la fede e per paura dei giudei si erano eclissati, mentre Maria SS. non solo aveva la fede, ma anche la carità assieme alla confessione pubblica della sua fede immacolata. Padre Gabriele Roschini (Vita di Maria, Roma, Fides, 1959; II ed. Proceno di Viterbo, Effedieffe, 2107) scrive che la Maddalena “tentennava” e che le apparizioni fatte agli Apostoli erano ordinate a “corroborare la loro fede” (p. 276 e 282) poiché “la debolezza della loro fede costituiva la forza della loro testimonianza” (p. 283) e Mons. Pier Carlo Landucci (Maria Santissima nel Vangelo, Roma, Paoline, 1945), parla di “fede debole e barcollante” degli Apostoli, cui Gesù apparve per “rafforzare la loro fede” (pp. 436-437). Quindi non si può affermare che gli Apostoli avessero perso totalmente la fede.

[15] È quello che Mons. Brunero Gherardini nel suo libro Concilio Ecumenico Vaticano II. Un discorso da fare (Frigento, Casa Mariana Editrice, 2009) aveva chiesto a papa Benedetto XVI riguardo ai Decreti del (pastorale e quindi non infallibile) Concilio Vaticano II, ossia di definire e obbligare a credere, impegnando l’infallibilità, i punti controversi (Collegialità episcopale, pan-ecumenismo, libertà delle false religioni in foro esterno e in pubblico, rapporti tra Cristianesimo e giudaismo post-biblico, antropocentrismo, le due fonti della Rivelazione…), in cui il Gherardini riscontrava e dimostrava una rottura oggettiva dell’insegnamento del Vaticano II con la Tradizione apostolica, però non ha ricevuto nemmeno una risposta, ma solo la ripetizione dell’assioma: “il Concilio va letto alla luce della Tradizione nell’ermeneutica della continuità”, sempre affermato e mai provato, pur avendo presentato il libro suddetto accompagnato da una supplica firmata da due Vescovi, ai quali se chiedono di essere “confermati nella fede” il Papa normalmente dovrebbe rispondere, dato il suo ufficio di “confermare i fratelli nella fede” e specialmente i Vescovi, che sono successori degli Apostoli.

[16]Evangelizare pascere est” (S. Bernardo di Chiaravalle, De Consid., lib. IV, cap. 3).

[17] “Prima Gesù confida a Pietro gli agnelli, poi gli affida le pecorelle poiché lo ha costituito non solo Pastore, ma Pastore dei Pastori. Quindi Pietro pasce gli agnelli e le pecorelle; pasce i figli e le madri; conduce e nutre i fedeli e i prelati. Dunque è il Pastore di tutti perché al di fuori dei fedeli/agnelli e dei Vescovi/pecorelle nella Chiesa non c’è null’altro” (S. Bruno di Asti, Homilia in vigilia festi Sancti Petri). Infatti i Vescovi per rapporto ai fedeli e ai preti sono Pastori, ma per rapporto al Papa sono pecorelle. Quindi Pietro è “Pastor pastorum” e i Vescovi sono “Pastores particularium gregum” (S. Bernardo, Consid., lib. II, cap. 8).

[18] Cfr. Concilio Vaticano I, DB, 1792-1839.

[19] Cfr. L. Billot, De Ecclesia Christi, Roma, Gregoriana, 1898, vol. I, q. 14, thesis 31, § 4.

[20] Cfr. Concilio di Trento, sess. XXIII, cap. 4, DB, 960; Concilio Vaticano I, sess. IV, cap. 3, DB, 1828; S. Pio X, Decreto Lamentabili, 3 luglio 1907, DB, 2050; Id., Motu proprio Sacrorum Antistitum, 1° settembre 1910, DB, 2147; CIC, 1917, can. 3329, § 1. Tutti questi documenti del magistero insegnano che l’Episcopato è stato istituito da Dio per continuare l’opera degli Apostoli, che i Vescovi fanno parte della gerarchia apostolica e sono formalmente successori degli Apostoli. Cfr. A. M. Vellico, De episcopis iuxta doctrinam catholicam, Roma, 1937.

[21] S. Paolo, Col., I, 18; Pio XII, Enciclica Mystici Corporis Christi,1943.

[22] L’infallibilità deriva alla Chiesa (Vescovi riuniti in Concilio o sparsi nel mondo, cum Petro et sub Petro) dal suo Capo visibile (il Papa), come la vita e l’agire giunge al corpo fisico a partire dalla sua testa.

[23] «Pietro è la ‘pietra’ che conferisce saldezza, [compattezza e unità] alla Chiesa» (A. Lang, Compendio di Teologia fondamentale o di Apologetica, Torino, Marietti, 1960, p. 310; II ed. Proceno di Viterbo, Effedieffe, 2018). Ora senza unità non c’è essere (ens et unum convertuntur). Quindi la Chiesa, senza Papa, cesserebbe di esistere (sine Petro, nulla Ecclesia). Quod repugnat. Infatti è di fede cattolica definita che la Chiesa dovrà durare sino alla fine del mondo, onde non è possibile che manchino assieme il Papa ed un Collegio cardinalizio capace di supplire il Papa deceduto, governando con autorità e mantenendo così l’unità e l’esistenza della Chiesa in attesa dell’elezione di un nuovo Papa. In tal caso i Cardinali mantengono in vita la Chiesa poiché fungono da autorità o principio di vita della medesima (sono un collegio “vicario” del defunto “Vicario di Cristo”).

[24] Sermo IV de natali ipsius, cap. II; PL 54, 150 B.

[25] Cfr. Is., XXII, 20; Apoc., III, 7.

[26] PL 15, 1942 AB.

[27] Cfr. P. Parente, De Ecclesiae charactere theandrico, in Theologia fundamentalis, Torino, Marietti, 1946, p. 141-145.

[28] M. Maccarrone, Vicarius Christi. Storia del titolo papale, Roma, Lateranum, 1952, p. 19.

[29] Cfr. F. Roberti – A. Van Hove – A. Stickler, Graziano. Testi e studi camaldolesi, Roma, 1949.

 
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