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Cattolicesimo, liberalismo, tolleranza (parte I)
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Problematicità dei raporti tra cattolicesimo e pensiero liberale

Una gentile lettrice ci muove la critica di aver frainteso il pensiero di von Mises. Vediamo, allora, se davvero il nostro è un fraintendimento.

«
Tra tante cose» – lamenta la lettrice, in questione, in margine al nostro precedente intervento “Tra Salamanca e Vienna”che sono state scritte a seguito del mio commento, devo dire che mi ha sorpreso leggere che von Misessoleva dire che liberalismo e cattolicesimo sono incompatibili’. Una tipica citazione di von Mises al riguardo è: ‘Liberalism limits its concern entirely and exclusively to earthly ife and earthly endeavor. The kingdom of religion, on the other hand, is not of this world. Thus, liberalism and religion could both exist side by side without their spheres touching’. In parole povere, la posizione di von Mises rispetto alla religione era: ‘Io mi occupo di unaltra cosa, fuori dagli ambiti che riguardano la religione. Mi occupo solo del benessere materiale degli uomini. Più in là non arrivo. Non perché pensi che il benessere materiale sia la cosa più importante, ma perché io sono bravo ad occuparmi semplicemente di economia. Poi ci penseranno gli uomini che si occupano di religione a trattare delle cose che vanno oltre gli aspetti materiali della vita. In altre parole: io dico cosa succede in economia se si prende questa o quella misura, o cosa succede se non lo si fa. Poi è compito degli esperti di morale e religione definire cosa è giusto fare’. Von Mises riteneva che leconomia fosse una scienza e ne studiava le leggi, ponendo estrema cautela a non sconfinare mai nel territorio propriamente religioso; poneva cioè grande cautela a mantenere la completa compatibilità con la religione. Nessuno che conosca bene il pensiero di von Mises può equivocare questa sua posizione, come non può pensare che il suo occuparsi di earthly endeavor significasse che egli attribuiva suprema importanza agli aspetti materiali della vita. Daltra parte, la sua vita e quello che ha scritto stanno lì a dimostrare cosa era importante per lui (portare avanti le idee che, dopo studio serio e accurato, si ritengono giuste, costi quel che costi). A forza di leggere autori americani, ho forse finito per sottovalutare quello di cui ero in realtà ben avvisata: in Italia e in generale in Europa, si presuppone che chi sostiene posizioni liberiste in economia sostenga in generale posizioni ostili alla religione; negli USA, vale lesatto contrario. Sapendo di qualcuno che sostiene il libero mercato, negli USA si immagina immediatamente che sia su posizioni ultraconservatrici ad esempio sullomosessualità. Per ironia della sorte (o chi per lei) e nella grande confusione delle parole, i meno liberisti in economia negli USA (i democratici progressisti, favorevoli ad aborto, matrimoni omosessuali, ecc.), al tempo doggi si chiamano liberal’ (se ho capito bene, nel senso che non sono come i totalitaristi sovietici)».

Avvertiamo, però, che l’oggetto principale della nostra analisi è, più che il pensiero di von Mises, il pensiero liberale e liberista, del quale, nonostante ogni sua peculiarità, quello di von Mises è parte integrante ed espressione di prim’ordine.

Nello statuto di fede cristiana è riconosciuta l’autonomia della ragione. La ragione indaga nel campo dei «preambula fidei» ed è, se ben usata, «trampolino» verso la metafisica. Lo sforzo del cristiano – tale fu quello di Aurelio Agostino e di Tommaso d’Aquino – è di vagliare alla luce della Rivelazione le acquisizioni della ragione. Nel rispetto dell’autonomia di quest’ultima, senza dubbio, ma anche nella certezza che, essendo una la Verità, sono solo apparenti le contraddizioni tra fede e ragione. Spesso per superare tali apparenti contraddizioni si richiede un approfondimento esegetico della Rivelazione, come ebbe a dire il cardinal Bellarmino a proposito della questione eliocentrica quando affermò che, se tale ipotesi – all’epoca, infatti, era solo una ipotesi senza prove decisive che vennero due secoli dopo – fosse stata provata, si sarebbe trattato di meglio intendere quei passi della Scrittura che fino a quel momento erano stati interpretati sulla base della teoria geocentrica.

Molto umilmente, oggi più di ieri, la scienza, passata la sbornia positivista, ha finalmente dichiarato che il suo metodo di indagine è soltanto probabilistico e che, pertanto, ogni acquisizione scientifica è sempre suscettibile di superamento. Nell’immanente, infatti, nulla può assurgere a carattere di Assoluto.

Ne sono convinti, per quanto riguarda la «scienza economica», persino tre studiosi catto-liberali come Flavio Felice, Fabio Angelini e Maurizio Serio, che hanno recentemente scritto su Il Foglio del 4 agosto 2010:

«In tempi di crisi è diffusa la tendenza a cercare risposte definitive a problemi contingenti, nella convinzione che esistano ricette ultimative che impediscano linsorgere di nuove crisi. La lezione della Caritas in Veritate’, da questo punto di vista, considera il presupposto personalistico anticostruttivistico che non esistono soluzioni definitive ed ottimali proprio perché i problemi economici sono sempre contingenti, relativi, storicamente connotati... la crisi… (deve essere) letta come il segnale che nessun sistema è perfetto, che una metafisica del mercato è tanto dannosa alluomo quanto lo è una metafisica statalistica, e che compito dello scienziato sociale è di operare una continua vigilanza per cogliere lerrore ovunque si annidi e superare lignoranza comunque si presenti. Di qui, linvito ad allargare la ragione e a mettersi allascolto del reale per cogliere quel flebile segnale che ci consenta di intervenire con la conoscenza possibile (limitata e fallibile) nella rilevazione dei singoli fatti e della loro sequenza e dare a questi e alle loro concatenazioni uninterpretazione coerente con la prospettiva antropologica che da cristiani rende ragione del nostro unico interesse per le questioni sociali: promuovere la dignità della persona umana».

Ecco, appunto! Vorremmo che anche i liberisti, non esclusi i catto-liberali che li accompagnano spesso acriticamente, si mettessero, davvero, all’ascolto del reale, nella sua complessità teologica, antropologica e storica, invece di fare «metafisica del mercato».

Von Mises, per quanto ci risulta, non faceva professione di fede cattolica.

Studiava economia, secondo gli schemi del liberalismo classico. Quelli che, ad esempio, ignoravano concetti della teoria economica come la «domanda effettiva». Il liberalismo classico, negli anni in cui von Mises lo studiava con passione, era, travolto dalla crisi del ‘29, universalmente contestato, dopo che Keynes ne aveva dimostrato la fragilità scientifica.

Dobbiamo riconoscere agli «austriaci» il coraggio di aver continuato nella fedeltà ad una tradizione di pensiero politico-economico anche quando questa veniva smentita dai fatti.

Come ci ha ricorda la nostra attenta lettrice, von Mises pensava che tra economia e fede non dovesse esserci nessuna inferenza.

Questo – checché ne pensi la nostra lettrice –, da un punto di vista cattolico, si chiama «indifferentismo».

L’indifferentismo porta inevitabilmente a ritenere, magari sottovoce, senza dirlo esplicitamente, incompatibili i due ambiti della fede e della scienza, nel caso di specie della «scienza economica».

Scienza eonomica?

Domandiamoci, innanzitutto, se possa parlarsi davvero di «scienza economica».

Quale dobbiamo assumere come «scienza economica»: quella classica, verso la quale andavano le preferenze di von Mises, o quella keynesiana?

Senza, poi, parlare delle molte teorie economiche considerate «eretiche», come quelle di Douglass, Gesell, Pound, Polany. E per restare in un ambito accademico, quella di Maurice Allais, che pur si muove, come si muoveva Keynes, in ambito «ortodosso».

Poniamo questa prioritaria domanda per evidenziare la relatività del concetto di «scienza», in particolare di «scienza economica»: più che di scienza economica dovrebbe, infatti, parlarsi di storia economica perché l’economia è essenzialmente esperienza e quando essa, l’economia, pretende, inseguendo modelli matematici, di astrarsi dalla concretezza storica e dai condizionamenti teologici, culturali e sociali, entro i quali pur vive, tutto volendo ridurre a «leggi economiche», intese al modo nel quale in fisica si parla di «leggi» che strutturano il reale, diventa per l’appunto ideologia e produce, per eterogenesi dei fini, evidenti «guasti antropologici».

Il problema, in realtà, è soltanto un aspetto di una ben più ampia questione: quella della pretesa «neutralità» della scienza in generale.

Abbiamo già detto, altrove, che dietro ogni paradigma scientifico si nasconde, quasi sempre, una opzione preventiva di tipo teologico-filosofico.

Analogamente a come, secondo quanto rilevava Donoso Cortés, dietro ogni forma del Politico si nasconde una teologia: alla monarchia tradizionale corrisponde il Dio trascendente, alla democrazia il dio panteista.

Così, ad esempio, in ambito scientifico, da più parti è stato rilevato che il darwinismo altro non è che l’applicazione del liberismo manchesteriano alla biologia e che la selezione naturale corrisponde all’idea liberale del mercato concorrenziale.

Se la «scienza economica» (ciò vale per ogni scienza), assolutizzando, mediante l’indifferenza al sovra-immanente, il proprio ambito di autonomia, crede di poter definire quel che è utile fare in campo economico tralasciando, anche indirettamente, cosa è invece giusto eticamente, ossia se essa crede di poter trattare di economia in astratto senza tener conto di tutti i fattori sovra-economici che incidono nell’economia - fattori che pertanto non possono essere esclusi dal suo studio - e riducendo quelli morali alla «moralità utilitaria» dello scambio contrattuale, il passo, per affermare che la fede è irrilevante per la «scienza economica», è facilissimo.

Questo si chiama riduzionismo. Ed anche se von Mises non lo afferma esplicitamente, tuttavia egli, proprio nel momento in cui segue la logica liberale che è logica riduzionista per definizione, pone le basi per giungere, o far giungere altri, a questa conclusione. Ed infatti, molti, proprio sulla base delle idee degli «austriaci», sono giunti e giungono a tale conclusione.

Le aporie morali della «scienza economica liberale»

La scienza economica liberale, della quale la Scuola Austriaca è stata la grande esponente nel XX secolo, ci ricorda, realisticamente, che comportamento economico virtuoso, cui gli operatori economici e gli imprenditori devono attenersi, pena il fallimento, è quello di ridurre i costi per aumentare gli utili.

Però, può poi ritenersi cristianamente accettabile il fatto che, da questo assunto, applicato anche al lavoro inteso come una qualsiasi merce o un qualsiasi fattore di produzione, si deduca che obiettivo dell’imprenditore sarebbe quello di comprimere, quanto più possibile, il costo del lavoro?

Paradossalmente, assolutizzando un tale assunto, si dovrebbe ritenere virtuoso ripristinare la schiavitù, ossia il lavoro umano a costo quasi zero!

La tecnica, senza dubbio, migliora il lavoro umano ma al tempo stesso espelle dal ciclo produttivo esseri umani, vuoi perché con mezzi tecnici migliori necessitano meno lavoratori, vuoi perché non tutti i lavoratori, soprattutto se anziani e poco «flessibili», riescono a mettersi al passo con le innovazioni tecnologiche. Di fronte a questo problema, la «scienza economica liberale» si limita a dire che si tratta di un processo «naturale» alla fine vantaggioso per tutti.

Ma cristianamente è possibile ammettere questa conclusione, senza tener conto dei costi umani e sociali, a volte tremendi, prodotti dalle innovazioni lanciate sul mercato solo per il conseguimento immediato di maggiori profitti?

E, soprattutto, è moralmente giusto lasciare che le trasformazioni tecniche ed economiche siano gestite soltanto dalla «mano invisibile» che tutto, teoricamente, dovrebbe alla fine aggiustare?!

Si rimprovera a Papa Gregorio XVI di aver definito la locomotiva, che vedeva per la prima volta, «un’invenzione di Satana». Il nostro professore liceale di storia e filosofia, marxista, insisteva su questo aneddoto ridacchiando della stupidità dell’oscurantismo cattolico, che si opponeva alle «magnifiche sorti e progressive» dell’umanità incamminata verso il «sol dell’avvenire». Oggi possiamo dire che quel «sole» non è mai spuntato e, tuttavia, i motivi per i quali quel professore ridacchiava vengono ora riproposti in chiave liberal-liberista.

In realtà, Gregorio XVI non si opponeva alle novità tecnologiche in quanto tali ma pensava alla sorte dei vetturini di carrozza che sarebbero rimasti, nell’immediato, disoccupati.

Si dirà, non senza ragione, che Gregorio XVI non poteva immaginare che, invece, la locomotiva avrebbe prodotto nuovi posti di lavoro e che al posto dei vecchi vetturini avremmo avuto moderni macchinisti e fuochisti. Rimane il fatto che Papa Gregorio, da bonus pater familias, pensava alla sorte di coloro che nelle more del processo sarebbero stati travolti dalle novità. In questo senso Papa Gregorio non aveva tutti i torti. Infatti, il mercato, quando prevale la logica utilitaria della massimizzazione immediata del profitto, tende a non farsi carico della sorte di coloro che per qualsiasi motivo – a maggior ragione se trattasi di motivi connessi con la poca flessibilità alla riconversione professionale delle generazioni più anziane – vengono espulsi dal processo produttivo. Problemi come questi rappresentano, in una lettura riduzionista come quella liberista, soltanto costi, la cui risoluzione viene affidata preferibilmente alla mano pubblica (il fatto che quest’ultima sia oggi spesso inadempiente rispetto ai suoi doveri è questione di sicura rilevanza che, però, è strettamente collegata al generale venir meno del senso dello Stato).

I liberali assegnano alla legge un ruolo fondamentale nel creare le condizioni di un libero mercato.

Ma, cristianamente, la legge civile, per quanto sempre distinta dalla fede e sempre imperfetta rispetto al diritto naturale, deve limitarsi a «ratificare» la presunta naturalità di certi processi economici e la presunta inviolabilità di certi assunti «scientifici», oppure deve tenere conto in primis di istanze morali, di origine religiosa, sovra-economiche?

Dunque, se fosse vero che non esiste inferenza tra il religioso e l’economico e che i due ambiti viaggiano, in qualche modo, in parallelo, senza mai incontrarsi neanche sul piano scientifico, come ritenere neutrale la «scienza economica», che indaga l’utile, senza invece necessariamente constatare che, nonostante questa pretesa neutralità, si arriva, prima o poi, ad un inevitabile conflitto tra ciò che, in astratto, è utile e ciò che, in concreto, è giusto?!

Proprio la pretesa, iper-specialistica, di astrattezza dell’economia dal concreto della storia e della pluridimensionalità dell’essere umano («Non di solo pane vive l’uomo ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio»!), è l’errore dei liberisti.

Mercato e politico

Quando mai il mercato è esistito al di fuori della Città Politica?

Quando mai l’economia non è stata, nei secoli, plasmata dalle culture religiose e filosofiche con le quali e nelle quali essa vive?

Nella storia moderna non è stato il mercato ma lo Stato a costruire strade, ferrovie, scuole, impianti di produzione energetica. Sia perché si tratta di compiti propri della Comunità Politica in favore del bene comune, sia perché il mercato, pur traendone beneficio, in quelle infrastrutture vede solo costi senza vantaggi immediati, salvo poi, quando esso inizia ad intravvedere possibili vantaggi economici anche nei naturali compiti statuali, invocare, mediante assillanti campagne mediatiche, privatizzazioni e liberalizzazioni dei beni e servizi pubblici.

L’esistenza di un ambito economico propriamente e naturalmente statuale era ammesso persino da un liberale come Einaudi, il quale riconosceva che ci sono alcune competenze economiche, i monopoli naturali, (non solo, dunque, quelle tradizionali, extraeconomiche, dell’ordine interno, della difesa e della giustizia), proprie dello Stato e che il mercato, checché ne pensino, ad esempio, i «libertarians», non può pretendere di assorbire nel suo alveo.

Del resto, all’inizio dell’industrializzazione – di ogni industrializzazione – i processi di modernizzazione sono sempre stati realizzati all’insegna del protezionismo e dell’interventismo statuale e non del libero scambio. Persino gli Stati Uniti del XIX secolo allorquando, tramite l’istituzione di una banca nazionale di Stato, la modernizzazione infrastrutturale della giovane nazione americana fu finanziata, diretta e gestita dallo Stato federale.

E’ vero che il capitalismo europeo è storicamente diverso da quello americano: «sociale» il primo, «individualista» il secondo. Alain Minc parlava, a ridosso del 1989, di «capitalismo contro capitalismo»: finito il comunismo, restavano – diceva l’analista francese – solo due modelli, quello del capitalismo renano (le cui origini storiche sono nella Baviera cattolica) e quello del capitalismo liberista di tipo anglosassone. Il Minc profetizzava – fu purtroppo buon profeta – che in un mondo globale, iper-concorrenzialista e individualista, il secondo avrebbe vinto sul primo.

Ciò però non rende il modello liberista moralmente e socialmente migliore del modello renano-europeo.

Forse, nel medio-lungo periodo, non lo rende migliore neanche economicamente, come sta dimostrando la sua crisi iniziata nel 2008.

Infatti, se si accettano passivamente i postulati della «scienza economica liberale» non si vede come si possa poi – in nome di che?! – impedire all’economia finanziaria di separarsi da quella reale e di parassitare quest’ultima, fino alle estreme conseguenze nichiliste della finanziarizzazione.

Se la legge inviolabile del comportamento economico virtuoso è sempre e solo quella del profitto individuale, che dovrebbe produrre «magicamente» il benessere generale, come è possibile impedire a chi ha capitali, da far fruttare, di cercare l’utile immediato speculando in azzardati giochi finanziari anziché investire in concrete attività reali che, per loro natura, comportano limitazioni, e «rogne», morali, normative, sindacali, sociali, territoriali, ambientali, etc.?

Certamente, gli speculatori, liberisticamente, ossia rivendicando la pretesa di non essere sottoposti a limitazioni e regole, non raccolgono le esigenze morali cui richiama un Benedetto XVI quando, nella Caritas in Veritate (pagine 106-107), scrive:

«Bisogna… che la finanza in quanto tale, nelle necessariamente rinnovate strutture e modalità di funzionamento dopo il suo cattivo utilizzo che ha danneggiato leconomia reale, ritorni ad essere uno strumento finalizzato alla miglior produzione di ricchezze ed allo sviluppo’ (…). (Sicché) Tanto una regolamentazione del settore tale da garantire i soggetti più deboli e impedire scandalose speculazioni, quanto la sperimentazione di nuove forme di finanza destinate a favorire progetti di sviluppo, sono esperienze positive che vanno approfondite ed incoraggiate (…). (Come) ‘lesperienza della microfinanza’, che affonda le proprie radici nella riflessione e nelle opere degli umanisti civili - penso soprattutto alla nascita dei Monti di Pietà – …».

Il fatto che, come ci fa notare la nostra interlocutrice, i democratici americani, non liberisti in economia (fino a che punto?), siano poi liberal, ossia permissivisti, in ambito morale dimostra solo – come in «Rapporto sulla Fede» (a cura di Vittorio Messori) affermava l’allora cardinal Ratzinger – che esiste una stretta relazione tra «liberismo economico» e «liberismo etico».

Nel modello politico americano, ormai importato anche da noi, la destra liberal-conservatrice è liberista in economia e rigorista in ambito morale, mentre la sinistra liberal-progressista, al contrario, è tendenzialmente interventista in economia ma eticamente permissivista.

In Italia sono i radicali a rappresentare la cultura liberale nella sua unitarietà, sia sotto il profilo economico che etico. Ed, infatti, essi non fanno altro che oscillare, nelle loro alleanze politiche, tra destra e sinistra.

Come cattolici auspichiamo una formula politica che sia esattamente l’antitesi di quella dei radicali italiani, ossia «antiliberista» sia in economia che in ambito etico.

(continua)

Luigi Copertino



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