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Ma cosa diavolo combina Pechino?
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Secondo le ultime notizie, una nave cinese ha deliberatamente speronato ed ha affondato un peschereccio vietnamita al largo di Danang. Secondo quanto riportato, il vascello vietnamita è stato circondato da quaranta navi (da pesca, si dice) cinesi, il 26 maggio, in acque che il Vietnam sostiene di sua esclusiva competenza economica. L’equipaggio (dieci marinai) è stato salvato da navi vietnamite. La situazione è definita «molto tesa», con navi cinesi (a bordo «pescatori armati», sic) e vietnamite che si fronteggiano minacciosamente.

È lo strascico della provocatoria decisione della compagnia petrolifera cinese di stato CNOOC di piazzare una gigantesca piattaforma di trivellazione in mare presso le isole Paracel, un gruppetto di atolli e scogli disputati da tempo dalle due nazioni, anzi anche da Taiwan. Come conseguenza, folle di vietnamiti inferociti (l’odio anticinese è solido, ben motivato e tradizionale) per giorni hanno saccheggiato e incendiato aziende cinesi insediate in varie città vietnamita; nella furia sono state assaltate e distrutte anche aziende di Taiwan, solo perché hanno insegne in cinese. Migliaia di immigrati cinesi che lavoravano in Vietnam sono scappati, o sono stati raccolti da navi cinesi nei porti.



Non sembra un gran risultato per la provocazione deliberata dell’unilaterale posizionamento della piattaforma. Come noto, Pechino ha recentemente re-infiammato numerose dispute del genere, che stavano da anni più o meno raffreddate, fino all’orlo della guerra calda: con il Giappone per le isole Senkaku che Tokio considera sue, e dove la Cina ha esteso unilateralmente sull’intera zona del Mar Cinese Meridionale la propria «air defense identification zone» (per risposta, gli USA hanno mandato due B-52 a violarla); con le Filippine per le secche di Scarborough, che Pechino ha occupato manu militari, assediando una piccola guarnigione filippina e impedendo che la marina filippina portasse rifornimenti. Senza elencare le altre contese dello stesso tipo aperte dalla Cina con Indonesia (isole Natuna), Malaysia, Brunei. Tutta una serie di sfide, provocazioni, gonfiamento di muscoli che apparentemente hanno un esito solo: gettare i Paesi minacciati e provocati nelle braccia americane, sotto il suo ombrello e la sua protezione.

Secondo vari analisti, Pechino calcola che la forza americana nel Pacifico è una tigre di carta, la superpotenza è in declino , il «perno» americano sul Pacifico sta svanendo e dice ai vicini: è inutile che vi alleiate con il potere straniero, gli americani non si batteranno per quattro scogli che non li riguardano; fate alleanza con me, sono io l’egemone nuovo nell’area. Anzi, il presidente cinese Xi Jinping l’ha detto chiaro: la Cina ha intenzione di «risolvere pacificamente i problemi di sovranità marittima, rispettando e tenendo in considerazione le preoccupazioni di sicurezza di ogni nazione», ma «i Paesi che rafforzano le alleanze militari contro un terzo non godranno della sicurezza regionale».

Ma in questo ruolo, Pechino non sembra capace (psicologicamente, culturalmente) di stabilire coi vicini relazioni da egemone cordiale, da fratello maggiore verso i minori; la sua eccessivamente manifesta volontà di predazione, la facilità con cui tramuta le questioni disputate da giuridiche e negoziali in crisi militari, magari anche con l’uso di irregolari (i discutibili «pescatori cinesi armati» sui pescherecci che speronano e minacciano le barche vietnamite) è tale, da far rimpiangere ai vicini l’egemonia USA; per non parlare di conseguenze immediate e molto pericolose, come spingere il Giappone – angosciato per la sua sicurezza – al riarmo, e riarmo atomico.

Anche suscitare il militarismo vietnamita non pare una mossa intelligente: se provocato, il piccolo Vietnam s’è dimostrato ampiamente in grado di infliggere umilianti batoste alla superpotenza cinese in passato. L’India – dov’è andato al potere il nazionalista Modi – può costituire il nucleo futuro e prossimo di una alleanza anti-cinese di spaventati asiatici. Insomma, i Pechino si fa una quantità di nemici non necessari, e nel mare asiatico di suo interesse sta provocando crisi armate che possono davvero produrre un conflitto mondiale, trascinandovi gli USA: a Washington continuano a dominare la politica estera i neocon (s’è visto in Ucraina) col loro programma di aggressione e suprematista mondiale (il Project for a New American Century); costoro ardono dalla tentazione di regolare bellicamente i conti con la Cina finché sono in tempo, approfittando della «finestra di opportunità» che – lo sanno – sta rapidamente chiudendosi: la loro indiscussa, schiacciante superiorità militare.

«Può Pechino stabilire legami con Tokio su un piede di parità?», si domandava qualche settimana fa Francesco Sisci.

Sisci è un’importante analista e sinologo ( è Senior Researcher associato al Center for European Studies alla People’s University di Pechino). La sua domanda è cruciale, e la risposta, purtroppo, tende ad essere «No». Non è solo che nell’estremo Oriente pare vigere un millenario, immutabile «ordine di beccata» in cui la Cina è da sempre il maschio alfa; è che il potere, in quell’area, deve essere letteralmente «fatto pesare» sui sudditi e i sottoposti; pare che non possa esercitarsi se non come oppressione e umiliazione, spesso ostentata, dei soggetti.

Sfugge alla dottrina politica cinese che un Impero è essenzialmente un processo politico di associazione ed integrazione, più che di assoggettamento. Lo stesso errore lo commisero i giapponesi quando salirono nell’ordine di beccata militare, negli anni ’30-40: partirono offrendo agli altri di una comune «zona di co-prosperità», e finirono con le stragi di Nanchino, e l’uso di un milione di donne coreane come schiave sessuali per i soldati. In Tibet, i cinesi si sono comportati anche peggio.

A noi, il motivo è evidente: nell’Asia estrema non hanno avuto mai avuto esperienza dell’impero romano (che fu «una chiamata a genti diverse e originariamente ostili a fare qualcosa di grande assieme», secondo la definizione di Ortega y Gasset), né dunque possono tenerlo a modello. Ed è molto indicativo che sia un italiano a segnalare alla classe dirigente cinese che «Beijiing falls short of international vision», Pechino manca di visione internazionale, e questo mette in pericolo le sue stesse ambizioni imperiali. Sisci invita i dirigenti cinesi a studiare l’impero spagnolo, «il primo impero globale cresciuto nel ‘500», intimamente animato nella sua espansione dal «concetto di salvezza universale e dalla nozione, nei cattolici spagnoli, dell’eguaglianza universale di tutti gli uomini senza riguardi alla razza o all’origine».

Ma anche queste, ahimè, sono idee estranee all’Asia. E solo impropriamente tendiamo a chiamare «impero cinese» quello che fu, per millenni, una vastissima provincia chiusa, isolata in sé e nella sua (supposta) superiorità, più spesso invasa che conquistatrice, intimorita del mondo di fuori, come rivela la Grande Muraglia. E la Cina d’oggi porta la sua ritrovata potenza in beghe dopotutto provinciali, come sono queste questioni di scogli e di provocazioni, indegne del suo status di potenza candidata a succedere alla superpotenza.

Il provincialismo è apparso evidente anche nella stretta dell’accordo gigantesco con Putin per la fornitura trentennale di gas e greggio russi: Pechino ha approfittato bassamente del bisogno del presidente russo di un successo diplomatico e di un cliente alternativo all’Europa per contrastare l’offensiva occidentalista in Ucraina, per strappare condizioni di favore da bottegaio sui prezzi, e mettendo in forse l’accordo fino all’ultimo (dopo aver tratto in lungo le trattative per ben dieci anni); indifferente e sorda alla grandiosità della sfida lanciata da Putin: sta cercando di creare un’area di scambio de-dollarizzata nel cuore dell’Asia, sottratta al potere geopolitico USA — e il cui fallimento colpirebbe anche la Cina. Eppure Pechino vede che gli USA stanno circondando il suo enorme corpo, in una accanita politica di «contenimento» non meno aggressiva di quella usata contro Mosca .

Eppure Pechino coltiva ed esibisce chiare (e legittime ) ambizioni imperiali, anzi le proclama: dopo firmato l’accordo con Putin, Xi ha rilanciato a Shanghai la sua «New Silk Road Vision», un visionario mega-progetto di collegamento marittimo e ferroviario transcontinentale, più un immane reticolo di oleodotti e cavi ottici per telecom alla velocità della luce, che dovrebbe unire la Cina all’Europa attraverso la Siberia (Putin s’è detto d’accordo, e ha proposto di integrarla nella sua Unione Economica Eurasiatica, il «mercato comune» deboluccio che ha creato con le ex repubbliche sovietiche dell’Asia continentale): ciò a sviluppare l’interscambio con questi Paesi. La Cina ha già una quota nello sfruttamento del vasto giacimento di Kashagan in Kazakstan e contratti per greggio, gas e uranio con l’Uzbekistan per 15 miliardi di dollari.

Non contenta, Pechino sogna di unire il mondo intero con ferrovie ad alta velocità: «Ha annunciato il proprio interesse nella costruzione del collegamento stabile sotto lo Stretto di Bering, tra Russia e Stati Uniti, come pure in altre tre linee ferroviarie che congiungano la Cina all'Europa e al Sud Est asiatico»: 13 mila chilometri di strada ferrata per collegare Usa e Cina via Canada! (difficile gli USA accettino...).

E non basta: «L’8 maggio ad Abuja, in Nigeria, il Primo ministro Li Keqiang ha proposto di collegare tutte le capitali africane con moderne linee ad alta velocità, la cui costruzione verrebbe finanziata dai cinesi senza condizioni politiche...Sul suo territorio, inoltre, Pechino pianifica di costruire 80 mila nuovi chilometri di linee ad alta velocità entro il 2020».

E il tutto, senza spese per i Paesi raggiunti: paga tutto la Cina, ha promesso. Lo fa perché ha le casse e i forzieri strapieni di dollari USA che non sa più come impiegare prima che si liquefino come gelati a ferragosto; il progetto è davvero grandioso.

Ma non bastano i soldi per fare un impero. Ed è strano che Xi non riesca a vedere il danno che alla sua «vision» fanno le dispute da cortile e le aggressioni ai pescherecci del Vietnam, e le prove di forza contro il Giappone per gli scogli Senkaku: d’accordo che sotto c’è un mare di petrolio, ma una proposta di sfruttamento congiunto, ad un cordiale tavolo di trattativa, otterrebbe migliori risultati. E non pregiudicherebbe i progetti imperiali con litigi da provincia, di corta visione, che non fanno altro che ridar vita ad antichi sentimenti anti-cinesi nell’area, e paventare agli altri Paesi la crescita di un impero cinese dopo quello americano.

Sisci ha ragione: Pechino «non capisce la grammatica e la logica delle relazioni internazionali presenti» e dovrebbe imparare in fretta, altrimenti perderà la storica occasione, e trascinerà la sua parte di mondo in guerricciole senza sbocco — se non nell’Armageddon con i neocon americani: altri che (essendo ebrei) hanno cancellato dall’America la nozione che un impero è «la chiamata a genti diverse a fare qualcosa di grande insieme», non oppressione, disfatta ed umiliazione.



 

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