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La copertina di Time
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Gli umori statunitensi attraverso le copertine di Time

Mario Monti
  Mario Monti
Da pochi giorni sulla copertina del settimanale Time è comparsa la faccia di Monti. Non è una faccia esaltante, si potrebbe dire che ha un’espressione dimessa che tuttavia sembra voler esprimere il tentativo di alludere ad un retro pensiero sulla cui esistenza non si può giurare. Come si vede quando uscì la copertina dedicata all’avvocato Agnelli si trattò di una immagine generosa, mediata da un ritrattista che esaltò oltre ogni limite la figura del nostro capitano dindustria, rappresentato con uno sguardo acuto, rivolto a mete lontane. Sguardo che tuttavia non ha voluto vedere come la preferenza accordata ai funambulismi finanziari di Romiti avrebbero portato la Fiat in pessime acque.

Giovanni Agnelli
  Giovanni Agnelli
L’opera dell’avvocato Gianni Agnelli rappresenta la sconfitta della gestione italica delle imprese private (1). Egli incarnò la tendenza a trascurare la produzione di beni reali per imboccare la strada della speculazione finanziaria. Per anni la stampa ha tuonato contro le attività economiche dello Stato italiano, attività che soprattutto con l’IRI, con l’ENI e con l’ENEL detenevano la maggior parte delle imprese industriali sino al controllo di molte banche. Gli americani vedevano nell’avvocato un alfiere delle imprese private perché aspiravano ad impossessarsi di quelle pubbliche. Come infatti alla fine ottennero. Allora potevano ben dedicargli l’omaggio di una esaltante copertina di Time.

Se vogliamo trovare un trattamento simile a quello riservato a Monti dobbiamo guardare il ritratto di Obama in cui si vorrebbe qui profetizzare la sua rielezione. Obama è stato effigiato con una espressione particolarmente felice e spensierata, senza una particolare eccessiva intelligenza. Ma il timbro sulla fronte non glielo leva nessuno.

Barack Obama
  Barack Obama
Nella copertina dedicata ad Agnelli il titolo Time viene messo in bianco dietro il ritratto, per molti altri sembra si sia voluto stampare il titolo sulla fronte, una specie di marchio. Forse tutto questo è successo involontariamente, forse è stata solo una esigenza grafica, ma qualche dubbio si può anche avere. La dedica di una copertina di Time è una sorta di consacrazione alla notorietà universale, qualche cosa di simile al trionfo che veniva concesso ai condottieri nell’antica Roma. Ma sembra che gli anglosassoni non sappiano resistere alla loro tendenza a mettere spesso una punta di ironia. Per Monti l’epitaffio è: può quest’uomo salvare l’Europa? Agli americani il salvataggio dell’Europa interessa meno di nulla se non fosse che un’Europa in recessione trascinerebbe definitivamente a fondo anche gli Stati Uniti, che poi alla crisi hanno dato inizio. Infatti a questa domanda dovrebbe seguirne un’altra: salvare l’Europa da che cosa? A questa domanda intenzionalmente non viene concessa una risposta credibile.

Quando si è trattato di illustri generali che, secondo l’opinione ufficiale, avevano bene meritato della patria, i ritratti sulla copertina sono stati molto diversi.


Frank Andrews (2)                                                                          Thomas Hart (3)


Dal 1929 questa è la seconda volta che gli Stati Uniti creano una crisi economica globale e questa seconda volta la crisi è più globale della prima, ma intanto cercano qualcuno da indicare come colpevole. C’è da chiedersi se le alte gerarchie della finanza sanno quello che stanno facendo. Un uomo come Monti viene glorificato perché si pensa che migliorerà la situazione dell’Italia oppure perché la ridurrà alla fame in modo che sarà costretta ad accettare di lavorare per le grandi ditte tedesche ed americane con stipendi indiani o cinesi? Negli Stati Uniti è sempre esistito il bisogno di trovare lavoratori sottopagati in grado di sostituire gli schiavi con cui iniziarono la loro storia. La tragedia è che Monti è sinceramente convinto di operare per il bene dell’Italia ovviamente seguendo le sue teorie economiche.

Anche Berlusconi ha ricevuto l’onore di una copertina di Time in edizione europea, ma è una dedica che lo indica come simbolo della crisi. L’Economist, concorrente britannico dell’americano Time, è meno ironico ma non meno severo fin dal titolo: «Luomo che sta dietro alleconomia più pericolosa del mondo», cioè quella italiana con il suo debito. Più diretto sulle responsabilità attribuite a Berlusconi il sottotitolo: «Come il Primo Ministro uscente ha messo in pericolo lUnione europea- e perché non è dispiaciuto».

Silvio Berlusconi
  Silvio Berlusconi
Ecco Berlusconi ben marchiato, indicato come il pericolo pubblico numero uno, anche lui con un bel timbro in fronte. La sinistra italiana, dopo essersi valorosamente impegnata a sputtanarlo dentro e fuori d’Italia, adesso trionfa dicendo che, essendo un uomo poco credibile, se ne è dovuto andare. Ma omette di riconoscere che all’estero guardano con favore chi va contro i nostri interessi (come Monti) per favorire i nostri concorrenti (e padroni) stranieri.

Si omette di dire che non è l’entità del debito pubblico italiano la fonte del pericolo. Un pericolo che invece si annida nell’avere esportato quel debito nella finanza globale, mettendolo nel gioco della speculazione internazionale, per azione ostinata anche del padre nobile Ciampi. Il debito giapponese ha un ammontare che è pari al 200% del PIL, eppure sembra che non provochi nessun allarme, essendo questo debito riservato a cittadini giapponesi. Ogni mezz’ora la televisione lancia l’annuncio che si deve pagare il canone televisivo, mai un invito a comprare Buoni del Tesoro italiani. Cito uno dei tanti che hanno inviato commenti pensosi e grondanti buon senso, uno che si firma willer83 (9 febbraio 2012): «Immaginiamo che lItalia sia una famiglia che vive dei prodotti della propria fattoria e del ricavato delle vendite. Se la fattoria è gestita male, non si lavora e cè in famiglia un furbetto che ogni giorno va in magazzino a rubare un po della merce, in paese (nel mondo) si sparge la voce che la fattoria non è affidabile e nessuno vuole più averci a che fare. Così si rischia di finire in rovina. Ora Monti ha detto che è rimasto poco nella dispensa e bisogna che tutti mangino meno. Ha spiegato alla famiglia che ci vorrà un po ma con uno sforzo di tutti a lavoro si riempirà il deposito e si mangerà di più in futuro, ed è andato in paese a dimostrare che ci si può fidare della sua fattoria. Non si può seminare dopo unalluvione e aspettarsi il raccolto il giorno dopo. Bisogna attendere con un podi fame che si asciughi il terreno e poi crescano i frutti. Poi che siano distribuiti a lintera famiglia, per renderla più forte, unita e motivata. Bravo Monti, ma non dimentichi il lieto fine».

Ho molti dubbi che ci sarà un lieto fine. Tutta questa impostazione eticamente è suggestiva e persino convincente ma è molto lontana da una società industriale. Qualsiasi accostamento con un modello produttivo di tipo agricolo è fuorviante. Una società industriale nasce per soddisfare bisogni che vanno ben oltre quelli necessari ad una sopravvivenza determinata dalla sole esigenze dell’animale-uomo. Da oltre due secoli è diventata preponderante la produzione di beni e servizi che dipendono sempre più dalle macchine, quindi svincolata dalla grandezza delle aree messe a cultura, dall’andamento del clima e dai tempi della crescita delle piante. Dopo l’eliminazione quasi totale del lavoro manuale, oggi siamo addirittura nelle fase in cui macchine intelligenti sostituiscono progressivamente anche il lavoro che un tempo richiedeva una forte specializzazione. In questa situazione lo sviluppo, ovvero la non-recessione, esige che il sistema produttivo funzioni e per funzionare si deve consumare (e pagare) ciò che viene prodotto. Se la catena si ferma, o solo rallenta, si creano disastri ai quali è molto difficile mettere riparo. Ma se la catena accelera può aumentare produzione e ricchezza in breve tempo, cosa impossibile con la produzione agricola sottoposta ai vincoli di cui si è detto sopra. Gli aggiustamenti in una economia industriale si possono fare con la macchina in movimento. A macchina ferma è il tracollo con il ritorno, tragico perché improvviso, alla produzione dei soli beni per le esigenze primarie dell’animale-uomo. Beni che poi non possono essere neppure pagati dalla grande massa, che poco tempo prima era addetta al funzionamento della megamacchina industriale.

La sobrietà invocata da Monti, cultore di una paleoeconomia, chiuderebbe i consumi di beni medio-alti che ancora produciamo in Italia, per costringerci ad acquistare beni a basso prezzo, di bassa qualità, quindi ciò che ci arriva dalla Cina, dall’India e da altri Paesi a basso costo del lavoro. In queste condizioni di mercati aperti si realizza il suicidio economico della nazione. Quando la gente comincerà a morire di fame per le strade  gli ospedali manderanno a casa i malati perché non ci saranno più soldi per curarli, il primo che comincerà a gridare, anche se pazzo, troverà seguito e verrà applaudito. Oggi l’antipolitica è già di moda, anche se non ci si rende conto che esprime un bisogno di dittatura. Monti parla di progressiva malattia della politica. Quindi parla di un peggioramento che per essere rilevato necessita di un confronto con una situazione precedente.

Già un confronto rispetto a cosa e a quando? Forse Monti già debole in economia è ancor più debole nella storia? Infatti tornando indietro ancora un poco si finisce negli anni dell’esecrato fascismo, quando rubare era veramente proibito, quando la moglie di Mussolini morì in povertà, quando la commissione parlamentare, incaricata di cercare gli indebiti arricchimenti sotto il regime, non trovò nulla.

Monti è già sulla strada per costruire una dittatura e Napolitano ne è il mentore ed è questa la vera ragione per cui trovano consenso. Questo desiderio di dittatura ancora non ha il coraggio di esprimersi apertamente ma il cammino è già iniziato con il proliferare di enti ed istituzioni, messe al riparo dalle ingerenze della politica, cioè della democrazia, realizzando piccole dittature circoscritte che per ora fanno solo danni. Si pensi all’autonomia delle banche e persino delle Banche Centrali sino al culmine dell’autonomia (apparente) della BCE. Monti in un lapsus la chiamò banca tedesca.

Persino si trova chi ricorda come Hitler risanò l’economia disastrata della Germania in pochi mesi, togliendo l’autonomia alle banche, come sconfisse la Francia potentemente armata perché, contro il parere di molti suoi generali, impiegò i carri armati sostenuti dall’aviazione e non dalla fanteria, come invece facevano i francesi. Ma il personaggio era ritenuto pazzo ed alla fine venne gettato nella pattumiera della storia. Tuttavia la democrazia non può continuare su questa strada perché altrimenti nella pattumiera ci finisce lei tra canti di giubilo delle popolazioni.

Professor Raffaele Giovanelli




1
) Giuseppe Turani, La crisi della Fiat, La Repubblica, 11 ottobre 2002. «Se uno vuole una data precisa dell’inizio della crisi Fiat non deve guardare agli anni recenti, al 2002 o al 2001, ma deve spingersi più indietro, esattamente al 1990. L’anno prima la Fiat aveva avuto i più alti guadagni della sua storia: il 10,7% di utile corrente sul fatturato. Un vero e proprio record. Nel 1980, tanto per fare un confronto, l’utile corrente sul fatturato era stato di appena l’1,4%. Nel giro di dieci anni i profitti, insomma, si moltiplicano per dieci. Basta conoscere un po’ di storia interna Fiat per accorgersi che i mitici anni Ottanta, gli anni in cui ogni anno gli utili sono più alti dell’anno precedente, fino a arrivare a quell’incredibile 10,7%, sono gli anni di Vittorio Ghidella. Sono gli anni in cui sopra l’auto Fiat comanda il tecnico preso dalla Riv, più tardi conosciuto come il papà della Uno. Ma se nel 1989 la Fiat tocca i massimi della sua storia recente, quanto a guadagni, nel 1990 comincia subito la crisi. L’utile corrente sul fatturato si dimezza infatti di colpo e scende al 5,6%. Nel 1993, cioè sùbito dopo, siamo già alla catastrofe: la Fiat perde il 4,4% sul fatturato. Rispetto allo straordinario risultato del 1989 c’è una perdita di redditività di oltre il 15%: da più 10,7% a -4,4%. Dopo, ci sarò ancora un anno discreto, il 1997, con utili pari al 4,6% del fatturato. Ma per il resto sarà solo un lento declino. Fino al primo trimestre del 2002 in cui la Fiat torna a perdere il 4,1% rispetto al fatturato. Fino a quando, cioè, la Fiat torna agli anni bui. Ma che cosa succede nel 1990? La risposta è semplice: dalla Fiat se ne va (o meglio: viene spinto fuori) Vittorio Ghidella. E il declino dell’auto, complice anche un po’ di cattiva congiuntura, è quasi immediato. In proposito c'è un aneddoto che spiega bene come siano andate le cose. Nel 1988 l’auto Fiat registra il suo maggior successo storico. Nell’insieme guadagna infatti 4 mila miliardi (di vecchie lire, ovviamente). Ghidella va dall’avvocato Agnelli e gli illustra i risultati, comprensibilmente orgoglioso. E avverte: ‘Tutti questi soldi vanno immediatamente reinvestiti nell’auto perché sono in arrivo tempi brutti’. L’avvocato Agnelli sorride e consola Ghidella: ‘Lei è il solito allarmista’. Dietro questo semplice scambio di battute c’è tutto il dramma successivo. La Fiat è una holding e nelle holding è evidente che i capi dei vari settori tirano a avere la quota maggiore di stanziamenti. Poi sta ai capi della holding dividere i denari. Nella Fiat il capo dell’auto era Ghidella, il capo della holding Cesare Romiti. E quindi, se Ghidella voleva i soldi per l’auto, Romiti, invece, vedeva l’auto come una delle tante attività della Fiat globale. Probabilmente, pensava anche, come fanno tutti i capi della holding, che era meglio fare anche dell’altro, invece di mettere tutti i soldi in uno stesso cesto. Nel caso della Fiat, comunque, questa dialettica interna dura poco perché Ghidella alla fine degli anni Ottanta viene mandato via e i pieni poteri passano a Romiti, che di fatto diviene anche il capo dell’auto. E Romiti non è uno che capisce molto di auto. È un amministrativo, è uno abituato a contare gli incassi e a lesinare, se si può, sulle spese. Soprattutto se si vede una congiuntura non troppo buona. E quindi si sta molto attenti ai soldi. E l’auto comincia a essere gestita al risparmio. Si deve fare una nuova Uno, ma nessuno la vedrà mai perché non viene fatta. Si deve fare un’Alfaromeo con trazione posteriore (usando i pianali della Maserati), ma anche questa non la vedrà mai nessuno perché non verrà mai fatta. Insomma, si cerca di fare il bilancio con quello che c’è, stando molto attenti a risparmiare. Per di più ci si accorge che Ghidella non aveva un vero e proprio staff all’altezza di una casa come la Fiat Auto: era un accentratore e faceva tutto lui. Quando se ne va, si lascia alle spalle poco, come uomini di prodotto. ‘I suoi numeri due – si racconta – sarebbero stati i numeri 20 in qualsiasi altra industria automobilistica’. Ma a lui andava bene così. Romiti, invece, un po’ cerca di fare un mestiere che non è il suo (il fabbricante di automobili), un po’ dentro Fiat Auto effettivamente non trova persone e strutture valide. E così l’auto Fiat, poco a poco, deperisce, si attorciglia intorno agli stessi modelli, invecchia insieme a Romiti e all’Avvocato. Il risultato netto di tutto ciò è che gli utili Fiat si riducono drasticamente e che nel 1993 si rischia un vero e proprio collasso dell’azienda torinese. La crisi (e la fine) dell’auto Fiat nasce, insomma, in quei 7-8 anni in cui Cesare Romiti è l’unica guida della Fiat, auto compresa. Al punto che quelli che arrivano dopo (e in particolare Paolo Cantarella, che diventerà amministratore delegato della casa torinese) sono certo colpevoli per quello che è successo, ma più che altro sono colpevoli di non essersi accorti che Romiti aveva passato loro un cerino acceso. Cerino che nella primavera del 2002 ha cominciato davvero a bruciare e a scottare le mani del vertice Fiat. Insomma, la crisi è scoppiata adesso, ma le sue origini vanno ricercate negli anni Novanta, nel dopo-Ghidella, negli anni di Cesare Romiti. Dopo è successo semplicemente quello che era inevitabile che accadesse».
2
) Frank Andrews fu un famoso generale statunitense. Nato a Nashville nel Tennessee nel 1884. Dopo l’accademia di West Point percorse tutta la carriera militare passando dalla Cavalleria all’Aviazione sin dall’inizio. Durante la Prima Guerra Mondiale non partecipò ad azioni di guerra ma si recò in Germania a guerra finita con il corpo di occupazione. Quando entrò nella carriera militare le forze armate degli Stati Uniti erano inferiori a quelle della Bulgaria. Fu un sostenitore accanito dell’impiego delle fortezze volanti B-17 contro il parere di altri generali. Dall’inizio del 1943 fu comandante di tutte le forze aeree americane in Europa, quindi responsabile diretto dei massacri di civile perpetrati dai bombardamenti sulle città europee. Il 3 maggio nello stesso anno, insieme ad altri ufficiali dello Stato Maggiore, morì durante un atterraggio di un Liberator nella base della RAF in Islanda. Venne sepolto nel cimitero di Arlington. Al suo nome vennero intitolate basi militari e luoghi della memoria.
3
) Thomas Charles Hart (1877-1971) è stato un ammiraglio della Marina statunitense, che servì dalla guerra contro la Spagna sino alla Seconda Guerra Mondiale. Infine fu anche senatore del Partito Repubblicano per il Connecticut. Si prodigò per dotare gli Stati Uniti di sottomarini. Andò in pensione nel 1942, ma rimase come consigliere a lato dello Stato Maggiore della Marina. Figura di scarso rilievo che ha avuto tuttavia l’onore di una copertina di Time.


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