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Egitto, dietro il bagno di sangue
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Capire cosa muove la carneficina in Egitto, senza essere sul posto, non è facile. Forse un contributo viene da un articolo del giornalista israeliano Ben Caspit su Al Monitor del 13 agosto.

Caspit racconta della forte e rafforzata cooperazione «antiterrorismo» fra l’armata egiziana e l’esercito israeliano. «Questa cooperazione ha cominciato a fiorire esattamente un anno fa, alla fine del Ramadan, nel mezzo di Eid al-Fitr (l’ultimo giorno, ndr). Quel giorno, 5 agosto 2012, estremisti islamici aggredirono un avamposto militare egiziano a Rafah, uccidendo 16 ufficiali e soldati, impadronendosi di un corazzato portatruppe (APC) che usarono per sfondare il confine israeliano. (Costoro) hanno continuato ad impazzare fino a quando un carro armato israeliano non ha distrutto l’APC e i suoi occupanti. (...) L’Egitto fu completamente sconvolto e stupefatto da un brutale massacro dei suoi soldati commesso da militanti islamisti nel Sinai. Per i militari egiziani, fu una presa di coscienza cocente. Gli alti gradi, compreso il generale Abdel Fattah al-Sisi (che ai tempi non era ancora il comandante in capo), di colpo capirono chi era il vero nemico».

Questa frase non suona nuova. L’11 settembre 2001, mentre a New York e Washington era ancora in corso l’attentato di «Al Qaeda», Netanyahu commentò «Molto bene!». E perché?, chiesero basiti dei giornalisti americani. «Perché – si corresse lui – questo attentato rafforzerà i legami fra i nostri due popoli, in quanto sono decenni che noi subiamo il terrorismo, ed ora gli Usa hanno provato il terrorismo». Furono molti gli israeliani, quel giorno, a commentare che «adesso gli Usa capiscono chi è il vero nemico», oppure: «Noi e voi abbiamo lo stesso problema, il terrorismo islamico». Lo dissero anche i ragazzoni della compagnia di traslochi, tutti militari israeliani appena dimessi, che la polizia di New York arrestò perché visti festeggiare e fotografarsi a vicenda sullo sfondo delle Towers in fiamme. Erano probabilmente la manovalanza che aveva portato nelle Towers le tonnellate di termite necessarie per completare il fantasmagorico «attentato di Al Qaeda». (Netanyahu says 9/11 terror attacks good for Israel)

Dunque i generali egiziani hanno capito chi è il vero nemico. Chi saranno stati gli autori, e soprattutto i mandanti, della assurda, immotivata ed enigmatica strage di soldati egiziani a Rafah nell’agosto 2012? È lecito chiederselo. Forse erano davvero beduini terroristi folli e irrazionali: l’Arabia Saudita («nostro alleato») ne produce a volontà nelle sue madrasse wahabite.

Caspit dice che quella strage «a considerarla oggi, fu lo spartiacque che ha portato le due forze armate – Israeliana ed Egiziana – su una posizione totalmente nuova». Sta avvenendo una sorta di controllo congiunto del Sinai, una zona vasta e spopolata che Israele aveva preso e che aveva dovuto cedere di malavoglia nella pace fatta con Sadat. Un ex parlamentare libanese, Nasser Kandil, sottolinea l’enorme importanza geostrategica di questo territorio: «Il Sinai tiene le due rive del golfo di Akaba affacciandosi al terzo della socta saudita sul Mar Rosso e allo stretto di Bab el Mandeb, sbocco marittimo dei Paesi del Golfo verso e coste di Yemen, Somalia, Sudan, di Eritrea ed Etiopia. È adiacente ad una delle due rive del canale di Suez, guarda il Mediterraneo, si apre in profondità sull’Egitto, costeggia Giordania, Gaza e il Negev. L’ideale come base per missile Cruise, antimissili Patriot, basi radar giganti, stazioni d’ascolto e satellitari, base possibile per le forze Usa che potrebbero raggiungere i 100 mila uomini con la garanzia di restare appartati dalla popolazione locale».

Base americana, o base israeliana? L’esercito egiziano non ha mai controllato il Sinai; è una forza troppo piccola – 500 mila uomini – per una popolazione di 85 milioni; la polizia egiziana ne conta il triplo – 1,5 milioni – un nulla rispetto alla potentissima, armatissima e aggressiva Israeli Defense Force. Nel Sinai avrebbe una posizione subalterna.

In questo senso, la decisione Usa di nominare ambasciatore al Cairo Robert S. Ford, attualmente ambasciatore americano in Siria (ma con base in Turchia) suscita i più alti sospetti sia di Thierry Meyssan (Réseau Voltaire) sia di Michael Chossudowsky, due analisti di notevole credibilità.

Robert S. Ford
  Robert S. Ford
Il fatto è che Robert Ford è uno specialista nell’accendere guerre civili con false flag e squadroni della morte. A Bagdad nel 2004, come assistente dell’ambasciatore Usa Negroponte (un altro specialista, con vasta esperienza di destabilizzazione in Sudamerica), Ford è riuscito a spezzare la resistenza irachena contro gli invasori, inizialmente unitaria, organizzando gruppi di «Al Qaeda» dedite ad attaccare gli sciiti e le loro moschee, innescando così il ciclo di rappresaglie contro i sunniti che ha portato alla divisione settaria e sanguinosissima che dura ancor oggi. Tipicamente, un camionista iracheno veniva pagato per trasportare un carico presso un mercato sciita; il camion esplodeva, e il camionista diventava «un kamikaze» a sua insaputa. Nel febbraio 2006, ignoti fecero saltare la moschea d’oro al Askari a Samarra, dopo che le truppe americane l’avevano completamente circondata... 200 morti se non ricordo male.

Come ambasciatore in Siria, Robert Ford ha organizzato le prime manifestazioni anti-Assad mobilitando le diplomazie europee contro il regime. La tv siriana ufficiale ha mostrato e dimostrato che, durante le manifestazioni, dei professionisti appostati sui tetti, in uniformi nere, hanno cominciato a sparare senza motivo contro i dimostranti; questi cecchini davano la sensazione di essere soldati siriani che sparavano sui cittadini. Altri specialisti, da altri tetti, diedero l’impressione di rispondere al fuoco; ben presto le forze di Assad e gli anti-Assad effettivamente si sparavano, dando il via alla guerra civile – guerra civile che deve essere continuamente alimentata da combattenti stranieri pagati, sauditi, wahabiti, libici e ceceni («per la democrazia», si capisce). (US government targeting Egypt for destabilization, eventual destruction?)

Se l’ambasciatore Ford oggi viene spedito in Egitto, è forse per fare le stesse cose? A questo punto, vuol dire che Washington – o certi settori a Washington, non si sa se col beneplacito di Obama o a sua insaputa (lui gioca a golf a Marta’s Vineyard) – abbandona le esitazioni vere o presunte, e vuol attivamente provocare la devastazione dell’Egitto, probabilmente per arrivare allo smembramento della popolosa nazione secondo il «Piano Oded Yinon» di disarticolazione di tutti i potenziali nemici d’Israele in staterelli etnico-religiosi senza peso politico.

Ciò non toglie che le forze egiziane in campo stanno facendo la loro parte per questo scopo, rovinando sé e il Paese. I Fratelli Musulmani hanno vinto le elezioni presidenziali e legislative con una buona maggioranza relativa (47%) ma con il 32% di astensioni. Invece di fare un governo di coalizione – che avrebbe stemperato e diffuso le responsabilità – Morsi e i Fratelli hanno governato con tanta ottusa incapacità e arroganza, da suscitare il movimento di protesta Tamarod: gente che «rifiutava l’accentramento nelle mani del presidente Morsi di alcune prerogative tipiche del potere giudiziario e che contestavano l’aumento della corruzione, la disastrosa e incompetente gestione economica, l’occupazione sistematica da parte della Fratellanza di ogni posizione di potere, centrale o periferica, la crescente intolleranza nei confronti di quanti non intendessero conformarsi al nuovo “puritanesimo ufficiale”, e la natura settaria e illiberale della nuova Costituzione».

Mohamed Badie
  Mohamed Badie
I generali egiziani a questo punto hanno spazzato via Morsi, con l’approvazione di questa parte della popolazione: componente soprattutto urbana. Il fatto è che i Fratelli hanno un forte seguito nelle campagne arretrate, e – rifiutando di ammettere la loro perdita di legittimità – hanno fatto appello alle masse rurali, chiamandole al conflitto anche armato, e non peritandosi di eccitarle al «martirio». In questo, una parte sinistra va addossata a Mohamed Badie, «guida spirituale suprema del movimento islamico, ha insistito sulla necessità di scendere in strada e ottenere il reinsediamento del presidente Mohamed Morsi. In passato Badie è l’uomo che ha sempre impedito qualsiasi compromesso o concessione alle opposizioni, quando Morsi era presidente. Per molti versi è il principale responsabile del fallimento dell’anno di potere della Fratellanza, e uno dei principali degli avvenimenti di questi giorni. Più che una guida spirituale, Badie è l’anima nera del movimento». Così un commento su 24 Ore.

Quanto alla reazione pesantissima dell’esercito, non c’è che da copiare il commento di un competente arabista francese, Jean-Yves Moisseron, redattore capo della rivista Maghreb-Machrek, espresso prima ancora del bagno di sangue : «L’esercito interviene troppo presto ad interrompere un processo che stava conducendo i Fratelli Musulmani ad una forma di fallimento che, alla lunga, avrebbe ridotto la loro influenza. L’armata fa delle vittime. I Fratelli Musulmani potranno scaricarsi della loro incompetenza e della loro incapacità di risolvere i problemi della povertà. I loro fallimenti saranno occultati dal colpo di Stato, ciò che contribuirà a mantenere la loro legittimità».

Due poteri che hanno perduto legittimità si combattono, rifiutando ogni idea di compromesso con l’altro; semplicemente, l’uno per l’altro «non ha il diritto di esistere». Patetica, l’Europa invoca il ritorno ai negoziati e propone le solite camomille: democrazia, diritti dell’uomo, mettete dei fiori nei vostri cannoni, con qualche vago senso di aver sbagliato clamorosamente analisi: il festeggiato ritorno alla democrazia ha dato democraticamente il potere a un partito i cui valori non hanno nulla di democratico e il vacuo calcolo che «il colpo di Stato di al-Sisi sembra voler indirizzare la rivoluzione, piuttosto che fermarla» (Parsi su 24 Ore), e che è dunque una necessità democratica, viene un tantino rinnegato dal numero enorme di ammazzati. Ammazzati che una parte notevole della popolazione del Cairo non trova intollerabili, come prezzo per «la sicurezza del Paese» e per fermare gli islamisti sulla «falsa via» che avevano preso.

Eradicatori da una parte, jihadist dall’altra, sangue e rovina, esperti americani ed israeliani di false flags nel mezzo. Il bagno di sangue è proprio di un popolo dove il 70% della popolazione ha meno di 40 anni; l’Egitto è gonfio di giovani pieni di testosterone, nell’età in cui, per far trionfare la propria parte e le proprie idee, si uccide e si viene uccisi, irriducibili ad ogni compromesso e ad ogni invito alla «moderazione» e alla «democrazia». Cose che noi, popoli demograficamente esangui, non riusciamo a capire. Ma non capiamo nemmeno che qualcosa è radicalmente cambiato, qualcosa di brutale e potente che non siamo in grado di analizzare coi nostri metri, nell’altra sponda del Mediterraneo.

A lungo si è ironizzato dei teologi che discutevano sul sesso degli angeli nella Costantinopoli assediata dai Turchi; chissà cosa diranno i posteri di noi, che discutevamo del diritto degli omosessuali al matrimonio.


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