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Un contributo all’esegesi transpolitica della storia contemporanea (8)
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Ottava Parte
Cattolicesimo sociale: genesi e breve storia alla luce delle tragiche prospettive dell’oggi


Abbiamo detto che il fascismo è stata la forma novecentesca della rivoluzione dei ceti medi. Ora i ceti medi, storicamente, non sono stati affascinati solo dalla soluzione fascista ma anche da quella cattolico-sociale. Si può dire che tra fascismo e cattolicesimo sociale c’è stata una sorta di concorrenza sul terreno della conquista del consenso dei ceti medi. Sia il cattolicesimo sociale sia il fascismo sono culture politiche che si oppongono contemporaneamente tanto al capitalismo liberista quanto al comunismo. Per questo motivo non possono non avere attenzione massima proprio verso quei ceti medi che incastrati tra capitalismo e comunismo sono portati naturalmente sia all’anticapitalismo che all’anticomunismo.

Il cattolicesimo sociale, per quanto radicato nella Dottrina Sociale Cattolica, non coincide perfettamente, né potrebbe data la transitorietà delle cose umane, con Essa, ma ne costituisce soltanto, per così dire, l’“incarnazione” politica, storicamente sempre condizionata e transeunte. La Dottrina Sociale Cattolica, in quanto ramo della Teologia Morale, non è una ideologia, e resta sempre al di sopra del mero momento politico per essere piuttosto connessa all’Eterno, ma le soluzioni che, avendo Essa per riferimento, le forze politiche di ispirazione cattolica hanno avanzato, nel corso degli anni e nelle diverse circostanze storiche, quelle sì sono state, in certi momenti, ben accolte dalla piccola borghesia. Quest’ultima si è sempre sentita l’avanguardia del popolo minuto e, nei Paesi di tradizione cattolica, laddove essa non ha accolto, o ha rifiutato, per particolari contingenze storico-sociali o nel caso dei singoli per particolari predisposizioni spirituali, educative o personali, le soluzioni fasciste ha sempre guardato alle soluzioni proposte dal cattolicesimo sociale, magari similari a quelle fasciste ma spiritualmente e culturalmente basate su fondamenti assolutamente diversi.

In situazioni di convivenza con regimi di tipo fascista, poi le forze cattolico-sociali, proprio rendendosi conto da un lato della similarità delle soluzioni proposte dal nazionalismo sociale ma anche della fondamentale differenza spirituale che veniva da quest’ultimo posta alla base di quelle soluzioni, hanno perlomeno tentato di, criticamente, correggerle. Questo è stato, come diremo tra breve, massimamente il caso dell’Italia, negli anni ’30.

Se la Dottrina Sociale Cattolica – nella sua forma moderna, perché Essa in realtà coincide con lo stesso Vangelo e dunque non è nata con la Rerum Novarum ma con tale epocale enciclica ha soltanto assunto la sua forma, appunto, moderna – ha trovato una codificazione ufficiale con il magistero di Leone XIII, è pur vero che l’apostolato sociale cattolico, in età moderna, ha avuto inizio ben prima, all’indomani immediato della Rivoluzione Francese e del processo di industrializzazione.

Quando, oggi, un liberista come Mario Monti – che tanto assurdamente piace a certo mondo cattolico infatuato di liberalismo “sussidiario” – se la prende con le “resistenze corporative”, egli non fa altro che ricalcare lo stesso linguaggio dei fisiocrati settecenteschi i quali auspicavano l’abolizione delle arti e dei mestieri nonché delle terre demaniali comuni e degli usi civici sui domini signorili. Naturalmente, ieri come oggi, in nome della crescita. Ma Monti dimentica che quegli artigiani e quei contadini, privati delle loro tutele corporative e comunitarie di villaggio, non appena trasformati in impiegati ed operai delle industrie nonché in lavoratori autonomi dei servizi e del terziario immediatamente si riorganizzarono nelle nuove forme corporative imposte e sollecitate dall’industrializzazione, ossia i sindacati.

Se un Alberto De Stefani, che guidò la politica economica liberista del primissimo fascismo, prima che la vera natura politica ed ideale del fascismo venisse fuori, seguiva la stessa idea per la quale i corpi intermedi sono soltanto intralci per il libero mercato, sicché lo Stato deve eliminarli, ciò significa solo che il ministro dell’economia del primo governo Mussolini, educato alla scuola liberista ed elitarista di Maffeo Pantaleoni e di Vilfredo Pareto, mirava non allo Stato sociale ed organico, ossia corporativista, che più tardi il fascismo tentò di realizzare, ma al liberismo autoritario, modello, per capirci, Pinochet e friedmaniana “Scuola di Chicago”. Non a caso, Alberto De Stefani rappresentava l’ala liberista del movimento nazionalista italiano cui si contrapponeva la corrente, maggioritaria, nazional-statualista di Alfredo Rocco ed Enrico Corradini, la quale, come si è visto, non misconosceva il fenomeno sindacale quanto piuttosto voleva inquadralo in uno Stato organico e popolare, secondo una concezione dirigista dell’economia che poco spazio lasciava al liberoscambismo ed al mito della mano invisibile e che, alla lunga, avrebbe finito per fare dei capi dell’industria gli organi preposti all’attuazione delle direttive di politica economica dello Stato. Un po’ come, all’epoca, succedeva, sin dai tempi dell’era Meiji (1866-1869), nel Giappone imperiale e come, nonostante l’apertura liberaldemocratica del dopoguerra, continua a verificarsi anche oggi nella terra del Sol Levante.

I liberisti come Monti non capiscono, nel loro astrattismo utilitaristico, che la natura umana è portata alla libertà quanto alla protezione, sin dal fatto familiare che protegge la vita nascente in sviluppo verso la maturità, e non solo alla concorrenza. Anzi, la concorrenza rappresenta piuttosto la parte oscura dell’autentica natura umana che depone invece a favore delle solidarietà. Ecco perché solidarietà corporative tendono sempre a ricrearsi in qualunque contesto sociale: giacché esse tali sono, ossia “solidarietà”, e non egoismi di gruppo, per quanto possano diventarlo e lo diventano in assenza di uno Stato, di una Auctoritas Publica, che sappia concertare e mediare tra gli interessi rappresentati dai corpi intermedi. Tutto sta nello stabilire il limite oltre il quale la legittima protezione corporativa non può andare perché diventerebbe dannosa per le altre realtà sociali e per la Comunità Politica in genere. Laddove la tendenza alla tutela della propria appartenenza sociale dovesse diventare assoluto auto-centrismo, chiusura ermetica verso l’altro, come ad esempio nelle limitazioni immotivate all’accesso a questo o a quel corpo intermedio professionale, saremmo, certo, di fronte ad una patologia sociale. Ma lo Stato, l’Autorità Politica super partes, serve proprio a questo, ad impedire tali degenerazioni, mediando tra i diversi corpi sociali intermedi per conciliare i rispettivi interessi nell’ambito del più grande, preminente e superiore Bene Comune.

Quando le sirene del liberalismo cantano il solito motivetto contro i “corporativismi” – oltretutto cambiando artatamente il contenuto di significato di un termine che, nel suo vero senso, sta ad indicare esattamente il contrario del lobbismo egoistico, ossia sta ad indicare la filosofia sociale organicista, comunitaria, cui si ispira il corporativismo – i cattolici dovrebbero immediatamente alzare il proprio livello di guardia perché si tratta di sirene che, come quelle di Ulisse, portano la Barca della Chiesa al naufragio nel mare magnum del nichilismo liberale e liberista. Purtroppo, visto l’accreditamento che soggetti ambigui come Mario Monti godono attualmente presso una parte della Gerarchia e gran parte del laicato organizzato, dobbiamo prendere atto dell’epocale smarrimento del cattolicesimo politico.


Al contrario, il movimento sociale cattolico, nel XIX secolo, nei suoi maggiori rappresentanti e nelle sue proposte aveva ben chiaro che la realtà sociale naturale è sempre organica e mai meccanica e che la persona umana è sempre inserita in una pluralità di contesti comunitari, dalla famiglia al sindacato, dal comune allo Stato, e non si da mai isolata, non si da mai come individuo astratto. Da qui l’essenza corporativista delle elaborazioni teoriche e della prassi sociale del cattolicesimo sociale ottocentesco impegnato in una lotta senza quartiere contro il liberalismo e, soltanto quali sue conseguenze, anche contro il socialismo ed il comunismo. Il cattolicesimo politico e sociale nasce come antagonista sia del liberalismo che del socialismo, ma innanzitutto del primo perché il secondo era solo un derivato del primo, giunto in un momento successivo e postulato sugli stessi errori filosofici del liberalismo (razionalismo, individualismo: la collettività è solo la somma degli individui).

L’ottocento vide figure luminose di cattolici sociali, dai “santi sociali” alla don Bosco al beato Federico Ozanam, fondatore delle Conferenze Vincenziane, dai teorici del solidarismo per ceti come René de La Tour du Pin, al quale Alcide De Gasperi dedicherà un saggio riconoscendolo come maestro benché con qualche riserva critica (1), fino al vescovo cristiano-sociale Wilhelm Emmanuel von Ketteler, da Giovanni Battista Paganuzzi dell’Opera dei Congressi a Giuseppe Toniolo dell’Unione Cattolica di Studi Sociali (2).

La Rerum Novarum non fece altro che ratificare questo movimento già in atto quando essa fu promulgata. Leone XIII, che era stato a contatto con la realtà industriale belga, più avanzata di quella italiana, aprendo alle posizioni più moderne, e squisitamente corporativiste, di un Giuseppe Toniolo, affermò la legittimità dei sindacati “anche di soli operai” – così nella Rerum Novarum – superando in tal modo la nostalgia medioevale delle corporazioni miste, formate indifferentemente di datori di lavoro e di lavoratori, verso le quali ancora propendevano certi settori, arretrati rispetto ai tempi, del cattolicesimo sociale della sua epoca. Nella stessa enciclica, Leone XIII tributava allo Stato il riconoscimento di un fondamentale ruolo sociale nel comporre nella giustizia il conflitto di classe. Cosa che naturalmente significava da parte pontificia riconoscere, contro il dogma liberista, la non neutralità dello Stato ed il suo diritto ad intervenire in economia. Qualcuno ha detto che Leone XIII ha anticipato Keynes. Naturalmente il grande Pontefice chiedeva anche che lo Stato riconoscesse, e non assorbisse, i corpi intermedi, lasciando ad essi spazi di autonomia sussidiaria. Ma questa autonomia sussidiaria non era da Leone XIII intesa nel senso liberale come è avvalso oggi, per cui tutto dovrebbe essere gestito solo a livello di “società civile” senza che allo Stato siano riconosciute le proprie competenze naturali. Secondo il principio di sussidiarietà rettamente, quindi cattolicamente, inteso, ovvero in senso esclusivamente verticale, esiste una chiara gerarchia tra i diversi livelli di associazione sociale e lo Stato, che è al vertice di tale gerarchia ed è chiamato a chiudere, in sé, il cerchio dei corpi intermedi, ha sue proprie, naturali, intoccabili, non cedibili, competenze e funzioni. Cosa che – contro il pensiero sia liberista che marxista – esclude ogni “privatizzazione” o “socializzazione” di tali funzioni, naturali e proprie, dello Stato.

Il cattolicesimo sociale, nonostante la crisi modernista e la deviazione murriana di alcune sue frange verso una generica “democrazia”, andò sviluppandosi per giungere ad una piattaforma politica di tipo organicista e neocorporativista proprio con il Toniolo, che morì nel 1918 ossia alla vigilia della nascita del movimento fascista che il corporativismo, ma su tutt’altre basi rispetto a quello cattolico, avrebbe tentato di praticare. Toniolo, però, ebbe il tempo di osservare che analoghe soluzioni di tipo corporativista andavano maturando contemporaneamente sia in campo cattolico che in campo socialista e nazionalista, e comprese che, per i cattolici, era necessario, pur nell’apprezzamento della tendenza all’organicismo sociale che poteva scorgersi in altre culture politiche, tenere fermo sulle differenze teologiche e filosofiche che li distinguevano dagli altri. Pena un assorbimento nel quale la specificità cattolica sarebbe scomparsa. Un effetto questo che, per altri versi, fu l’esito dell’eccessiva apertura sturziana – benché nel PPI convivessero posizioni diverse tra loro, da quelle “neomedioevali” alla Gemelli a quelle “socialiste” alla Bianchi – verso la democrazia moderata di tipo liberale.

Un Magistero sociale rinnovato nella continuità


Negli anni ’30, in pieno regime fascista, anche il Magistero aggiornò le prospettive della Dottrina Sociale Cattolica alla realtà del nuovo secolo, ribadendo, però, i principi cardini del Cattolicesimo in politica ed economia. Tra questi, in primis, la condanna del liberismo economico.

«A quel modo … che l’unità della società umana – scrisse Pio XI nella “Quadragesimo Anno” (1931) – non può fondarsi nella opposizione di classe, così il retto ordine dell’economia non può essere abbandonato alla libera concorrenza delle forze. Da questo capo anzi, come da fonte avvelenata, sono derivati tutti gli errori della scienza economica individualistica, la quale dimenticando o ignorando che l’economia ha un suo carattere sociale, non meno che morale, ritenne che l’autorità pubblica la dovesse stimare e lasciare assolutamente libera a sé, come quella che nel mercato o libera concorrenza doveva trovare il suo principio direttivo o timone proprio, secondo cui si sarebbe diretta molto più perfettamente che per qualsiasi intelligenza creata. Se non che la libera concorrenza, quantunque sia cosa equa certamente e utile se contenuta nei limiti bene determinati, non può essere in alcun modo il timone dell’economia; il che è dimostrato anche troppo dall’esperienza, quando furono applicate nella pratica le norme dello spirito individualistico (qui il riferimento papale è alla crisi che, iniziata nel 1929, era in atto all’epoca, indotta dal liberismo, nda). E’ dunque al tutto necessario che l’economia torni a regolarsi secondo un vero ed efficace suo principio direttivo. (…). Si devono … ricercare più alti e più nobili principi da cui questa … possa essere vigorosamente e totalmente governata: e tali sono la giustizia e la carità sociali. (…) Pertanto, se le membra del corpo sociale saranno così rinfrancate, e ne verrà raddrizzato il principio direttivo quale timone della economia sociale, si potrà dire in qualche modo dell’ordine sociale ciò che dice l’Apostolo del corpo mistico di Gesù Cristo: “che tutto il corpo compaginato e connesso per via di tutte le giunture di comunicazione, in virtù della proporzionata operazione sopra di ciascun membro, prende l’aumento proprio del corpo per la sua perfezione mediante la carità (Ef. 4,16)» (Quadragesimo Anno, paragrafi 89 e 91).

In un’epoca come la nostra, nella quale, a giudizio della maggior parte degli osservatori, quarant’anni di neoliberismo hanno consentito l’aumento della remunerazione del capitale a svantaggio del lavoro, diventa attualissimo questo altro passaggio dell’enciclica di Pio XI che prendeva atto dello stesso fenomeno, anche nella sua epoca causato dal liberismo, e che soltanto l’intervento pubblico dello Stato in economia riuscì a correggere, riequilibrando, per circa sessant’anni, il rapporto tra capitale e lavoro in termini più socialmente equi, fino a quando la “rivoluzione neoliberista” partita dagli Stati Uniti e dall’Inghilterra negli anni ’80, non ha ripristinato l’iniquo disordine liberale. Nello stesso passaggio quel Pontefice chiarisce come il comunismo, pur rimedio peggiore del male, altro non è che una comprensibile reazione degli sfruttati alle ingiustizie del capitalismo liberista.

«Di qui avviene che … – scriveva dunque Pio XI – tanto l’opera altrui quanto l’altrui capitale debbono associarsi in un comune consorzio, perché l’uno senza l’altro non valgono a produrre nulla. Il che fu bene osservato da Leone XIII, quando scrisse: “Non può sussistere capitale senza lavoro, né lavoro senza capitale”. Per cui è del tutto falso ascrivere o al solo capitale o al solo lavoro ciò che si ottiene con l’opera unita dell’uno e dell’altro; ed è affatto ingiusto che l’uno arroghi a sé quel che si fa, negando l’efficacia dell’altro. (…). Per lungo tempo certamente il capitale troppo aggiudicò a sé stesso. Quanto veniva prodotto e i frutti che se ne ricavano, ogni cosa il capitale prendeva per sé, lasciando appena all’operaio tanto che bastasse a ristorare le forze e a riprodurle. Giacché andavano dicendo che per una legge economica affatto ineluttabile, tutta la somma del capitale apparteneva ai ricchi, e per la stessa legge gli operai dovevano rimanere in perpetuo nella condizione di proletari, costretti cioè a un tenore di vita precario e meschino. (…). Perciò agli angariati operai, si accostarono i cosiddetti intellettuali, contrapponendo a una legge immaginaria un principio morale parimenti immaginario: che cioè quanto si produce e si percepisce di reddito, trattone quel che basti a risarcire e riprodurre il capitale, si deve di diritto all’operaio. Questo errore, quanto è più lusinghevole di quello di vari socialisti, i quali affermano che tutto ciò che serve alla produzione si ha da trasfondere allo Stato…» (Quadragesimo Anno, paragrafi 54, 55, 56).

La soluzione proposta dal Papa è quella partecipativa, la stessa successivamente codificata, in Italia, nei 18 punti di Verona dalla Repubblica Sociale e nell’inattuato articolo 46 della Costituzione del 1948.

«Per (la) … legge di giustizia sociale non può una classe escludere l’altra dalla partecipazione degli utili. Che se perciò è violata questa legge dalla classe dei ricchi, quando spensierati nell’abbondanza dei loro beni stimano naturale quell’ordine di cose, che riesce tutto a loro favore e niente a favore dell’operaio; è non meno violata dalla classe proletaria, quando, aizzata per la violazione della giustizia e tutta intesa a rivendicare il suo solo diritto, di cui è conscia, esige tutto per sé …» (Quadragesimo Anno, paragrafo 58).

Soluzione partecipativa, cogestionaria, che Pio XI ribadisce e chiarisce anche sotto un profilo tecnico quando afferma che: «… stimiamo che sia cosa più prudente che, quando è possibile, il contratto di lavoro venga temperato alquanto col contratto di società (…). Così gli operai diventano cointeressati o nella proprietà o nell’amministrazione, e compartecipi in certa misura dei lucri percepiti» (Quadragesimo Anno, paragrafo 67).

Al tempo stesso quel grande Pontefice mette il dito sulla piaga che allora come oggi è costituita dal problema della “finanziarizzazione dell’economia”, che giunge fino ad abbassare la dignità e la funzione dello Stato rendendolo servo degli interessi transnazionali della finanza speculativa, anche mediante la politica di potenza delle nazioni egemoni o la rissosità dei nazionalismi aizzati dalla speculazione ad accaparrare, a danno degli altri popoli, quanto più possibile del poco che essa lascia all’economia reale.

«… in primo luogo – continua Pio XI nella sua fondamentale enciclica – ciò che ferisce gli occhi è che ai nostri tempi non vi è solo concentrazione della ricchezza, ma l’accumularsi altresì di una potenza enorme, di una dispotica padronanza dell’economia in mano di pochi, e questi sovente neppure proprietari, ma solo depositari e amministratori del capitale, di cui essi però dispongono a loro grado e piacimento. Questo potere diviene più che mai dispotico in quelli che, tenendo in pugno il danaro, la fanno da padroni; onde sono in qualche modo i distributori del sangue stesso, di cui vive l’organismo economico, e hanno in mano, per così dire, l’anima dell’economia, sicché nessuno, contro la loro volontà, potrebbe nemmeno respirare. Una tale concentrazione di forze e di potere, che è quasi la nota specifica della economia contemporanea, è il frutto naturale di quella sfrenata libertà di concorrenza che lascia sopravvivere solo i più forti, cioè, spesso i più violenti nella lotta e i meno curanti della coscienza (qui il Papa condanna il darwinismo sociale ed il cinismo liberista che si nasconde dietro la retorica alla Adam Smith dei “sentimenti morali”, nda). A sua volta poi la concentrazione stessa di ricchezze e di potenza genera tre specie di lotta per il predominio: dapprima si combatte per la prevalenza economica; di poi si contrasta accanitamente per il predominio sul potere politico, per valersi delle sue forze e della sua influenza nelle competizioni economiche; infine si lotta tra gli stessi Stati, o perché le nazioni adoperano le loro forze e la potenza politica a promuovere i vantaggi economici dei propri cittadini, o perché applicano il potere e le forze economiche a troncare le questioni politiche sorte fra le nazioni. Ultime conseguenze dello spirito individualistico nella vita economica sono poi … la libera concorrenza … si è da se stessa distrutta; alla libertà del mercato è sottentrata la egemonia economica; alla bramosia del lucro è seguita la sfrenata cupidigia del predominio; e tutta l’economia è così divenuta orribilmente dura, inesorabile, crudele. A ciò si aggiungono i danni gravissimi che sgorgano dalla deplorevole confusione delle ingerenze e servizi propri dell’autorità pubblica con quelli della economia stessa: quale, per citarne uno solo tra i più importanti, l’abbassarsi della dignità dello Stato, che si fa servo e docile strumento delle passioni e ambizioni umane, mentre dovrebbe assidersi quale sovrano e arbitro delle cose, libero da ogni passione di partito e intento al solo bene comune e alla giustizia. Nell’ordine poi delle relazioni internazionali, da una stessa fonte sgorgò una doppia corrente: da una parte, il nazionalismo o anche imperialismo economico; dall’altra non meno funesto ed esecrabile, l’internazionalismo bancario o imperialismo internazionale del denaro, per cui la patria è dove si sta bene» (Quadragesimo Anno, paragrafi 105, 106, 107, 108, 109).

Cattolicesimo e fascismo: i nodi di un difficile rapporto

La problematicità del rapporto tra Cattolicesimo e fascismo non stava tanto nelle soluzioni tecniche adottate da quest’ultimo che, pur migliorabili, non erano lontane dall’organicismo della filosofia sociale cattolica e dall’ordinamento corporativista da essa auspicato. Quanto, piuttosto, nei fondamenti filosofici che il fascismo poneva alla base delle sue soluzioni tecniche e che, per questo, contrassegnavano quelle per alcune peculiarità nelle quali si poteva toccare con mano l’immanentismo filosofico del fascismo, nutrito di idealismo gentiliano, di cultura irrazionalista propria al sindacalismo rivoluzionario, trasformatosi in sindacalismo nazionale ossia di Stato, nonché di un certo positivismo sociologico che gli derivava dalla sua componente nazionalista, di destra conservatrice.

Andare direttamente alle fonti, citandole, come abbiamo fin qui fatto, è metodo essenziale per palesare all’intelligenza del lettore le differenze filosofiche che sussistevano, nella declinazione del corporativismo, tra fascismo, di destra come di sinistra, e Cattolicesimo.

Nel discorso del 16 maggio 1925 alla Camera, il giurista di regime, Alfredo Rocco, proveniente dal nazionalismo e quindi da considerare un fiancheggiatore di destra del fascismo, presentava la rivoluzione corporativista secondo il suo pensiero filosofico-giuridico che nello Stato moderno, nazionale ed accentratore, vedeva il superamento del medioevo anarchico.

Una visione, già lo si ricordava, antitetica a quella di Sergio Panunzio, teorico del sindacalismo rivoluzionario e poi rettore dell’Università di Perugia, che nel fenomeno sindacale vedeva, al contrario, una tendenza al decentramento dello Stato moderno e quindi una sorta di ritorno verso forme neomedioevali in  chiave di federalismo sindacale. Una visione molto debitrice verso Proudhon. Nel 1944, poco prima di morire, Panunzio tornò alle originarie posizioni del sindacalismo a-statuale, quasi anarco-liberale, ma durante il regime aveva adattato la sua concezione libertaria accettando la formula del “sindacalismo nazionale”, benché sempre distinguendola sia dal sindacalismo di Stato, auspicato da Rocco, sia dall’ipotesi comunista della “corporazione proprietaria”, prospettata dal gentiliano di sinistra Ugo Spirito, il quale, dal canto suo, nel dopoguerra avrebbe aderito al comunismo per poi tornare, negli anni ’70, al corporativismo collaborando con l’Istituto di Studi Corporativi, diretto da Gaetano Rasi, un centro studi fiancheggiatore del MSI, nato nell’ambito culturale della sua corrente interna di sinistra, mazziniana, più esplicitamente erede, rispetto ad altre correnti, dell’esperienza della RSI.

Alfredo Rocco, nel sopra richiamato discorso alla Camera, affermò senza mezzi termini: «Con il fascismo, superiamo il Medio Evo che rappresenta la disintegrazione politica e sociale. L’Era moderna rappresenta la ricostruzione dello Stato nazionale e il fascismo è una fase della ricostruzione della Stato moderno».

A distanza di quasi un secolo dobbiamo però riconoscere che se, nell’immediato, la realtà sembrava dar ragione a Rocco, in effetti le forze della destatualizzazione – forze, come si è detto, economiche e finanziarie – erano già all’opera senza che egli se ne accorgesse. Sicché, nel lungo periodo, possiamo dire che ha vinto il “neomedievalismo” di Sergio Panunzio, benché non nel senso da lui auspicato. Panunzio, infatti, non ha affatto previsto che la destatualizzazione federale sarebbe avvenuta – forse anche attraverso lo specchio per le allodole costituito dalla sua cultura anarcosindacale – nel segno del mercato transnazionale e della finanziarizzazione dell’economia e non in quello del socialismo o del sindacalismo.

Al momento però, negli anni venti e trenta del secolo scorso, la concezione statualista di Rocco fu quella ufficialità del regime, benché fortemente discussa dall’intellighenzia critica del miglior fascismo.

«La dottrina fascista – scriveva nel 1931 il guardasigilli di Mussolini – rifiuta la concezione dello Stato agnostico, privo di propria sostanza, di fini particolari ed estraneo alla vita del cittadino. A differenza dello Stato democratico lo Stato fascista non può consentire che le forze sociali siano abbandonate a loro stesse. Il fascismo ha compreso che le masse, rimaste così a lungo estranee ed ostili allo Stato, devono essere inquadrate nello Stato, questi assume una funzione ed una missione personale in tutti gli aspetti della vita collettiva, dirigendo, incoraggiando ed armonizzando tutte le forze della nazione. Il coordinamento unitario sviluppa ai massimi livelli le energie nazionali, indirizzandole efficacemente verso la realizzazione dei loro fini, nell’interesse della prosperità del paese. Per questa ragione lo Stato fascista è non soltanto uno Stato autoritario ma anche uno Stato popolare come nessun’altro lo fu mai. Non è uno Stato democratico, nel vecchio senso della parola, perché non concede la sovranità al popolo, ma è uno Stato eminentemente democratico nel senso che aderisce strettamente al popolo, che è costantemente in contatto con esso, che permea le masse per mille strade, le guida spiritualmente, ne interpreta i bisogni, vive la loro vita, ne coordina l’attività. A differenza delle vecchie organizzazioni, che vivevano fuori dello Stato, i nostri sindacati fanno parte dello Stato. Il fenomeno sindacale è un aspetto della vita moderna che non può essere soppresso. Lo Stato non può ignorarlo, ma deve dirigerlo con assoluta imparzialità … Secondo la concezione totalitaria del fascismo, lo Stato deve presiedere e dirigere l’attività nazionale in tutte le sue branche. Nessuna organizzazione, né politica, né morale, né economica, può esistere al di fuori dello Stato. E’ per questo che il fascismo s’è avvicinato al Popolo, lo ha educato politicamente e moralmente e lo ha organizzato non soltanto dal punto di vista professionale ed economico, ma anche dal punto di vista militare, culturale, educativo e ricreativo» (3).

Per situare filosoficamente la concezione statualista del nazional-sindacalismo che il grande giurista nazionalista avanzava come dottrina ufficiale del regime bisogna risalire alle radici filosofiche che la sorreggono. Esse si identificano, da un lato, nel filone squisitamente giacobino, secondo quanto ha spiegato Jacob Talmon circa le “Origini della democrazia totalitaria”, e, dall’altro, nel positivismo sociologico che, comtianamente, guardava alla nazione come al “Grande Animale” organizzato a Stato. Senza dimenticare l’influsso immanentistico dell’idealismo tedesco nella traduzione italiana dei fratelli Spaventa dalla quale presero, poi, le mosse sia Giovanni Gentile sia Benedetto Croce, con i loro giovanili trascorsi marxisti che, nel caso del filosofo di Castelvetrano, torneranno a riproporsi alla fine della sua esistenza.

Se, da destra, Rocco invocava lo statalismo autoritario, da sinistra, dalla sinistra gentiliana, Ugo Spirito, come già ricordato, prospettava, criticato però dai sindacalisti fascista più a sinistra, l’esito comunista del corporativismo, inteso quest’ultimo quale superamento filosofico-sociale, definitivo, perseguito dal fascismo, della dicotomia “pubblico-privato”, “capitale-lavoro”, “socialismo-liberalismo”.

«Il punto di partenza – scriveva Spirito nel 1932 – deve essere il riconoscimento delle esigenze inalterabili dell’individualismo (libertà, personalità) e di quelle dello statalismo (autorità, organismo sociale). Nella fase pre-corporativa del fascismo, nella quale l’ideologia liberal-nazionalistica era egemone, e il programma economico corrispondeva quasi letteralmente a quello del nazionalismo d’anteguerra (III Congresso dell’Associazione nazionalista, Milano, maggio 1914), l’intuizione di questa duplice esigenza si espresse nella forma empirica della giustapposizione … al contrario nella fase più propriamente corporativa del fascismo, a partire dall’Istituzione del Consiglio Nazionale delle Corporazioni, e che si chiarisce e si precisa con sempre maggior evidenza …, il superamento della antinomia viene cercato in una concezione che vada al di là del liberalismo e del socialismo … Tra lo Stato e l’individuo si crea, così il gruppo, collettività parziale, che può più facilmente accordarsi nell’unità del tutto … Tale è l’essenza del corporativismo, di questo comunismo gerarchico che, come l’individualismo anarchico, rifiuta lo Stato egualitario, rifiuta la gestione burocratica, burocratizzando l’intera nazione oppure facendo di ogni individuo un funzionario e rifiuta anche la gestione privata, riconoscendo invece a ciascuno un valore e una funzione di carattere pubblico: le volontà si accordano in un’unica volontà; i fini in un unico fine, e tutta la vita sociale si razionalizza» (4).

Da notare che la concezione di Spirito, nonostante l’apparente pubblicizzazione delle funzioni sociali, dal momento che essa – secondo lo schema idealista e gentiliano – immanentizza privato e pubblico, individuo a Stato, si risolve in realtà in una abolizione dello Stato, che non ha più consistenza sovraordinata al sociale, alla società, ma coincide del tutto con essa. Spirito, quindi per via idealista, ripropone l’idea antistatualista di Marx per il quale il vero autentico esito del comunismo compiuto sarebbe stata l’abolizione dello Stato, oppressiva trascendenza egemonica, nel dinamismo di una società autogestita dalle forze della produzione finalmente liberate (5). Non a caso Giovanni Gentile riprendeva da Marx le esigenze fondamentali del “noi” collettivo per spiritualizzarle, nel senso della filosofia idealista, e proporre così un comunismo spirituale avulso dal materialismo storico.

Orbene, l’impianto immanentista, “panteista”, che soggiace al corporativismo fascista, nelle sue varie concezioni – sia in quella federativa del sindacalismo rivoluzionario/nazionale alla Panunzio, sia in quella autoritaria/statualista di Rocco, sia in quella totalitario/comunista di Spirito – e che legittima la fagocitazione dei corpi intermedi nello Stato, per poi, in una fase successiva, dissolvere quest’ultimo in essi, è ciò che fa la differenza, fondamentale, con la concezione cattolica del corporativismo come si era andata delineando, sulla base della memoria dell’antico comunitarismo cetuale pre-moderno, nella rielaborazione, tomisticamente fondata, ma gradualmente riformulata in modo più consono alla modernità, effettuata dal pensiero e dalla prassi politica del movimento sociale cattolico tra XIX e XX secolo. La concezione cattolica del corporativismo poggia su una visione della realtà aperta alla Trascendenza che ne impedisce ogni riduzione/involuzione totalitaria che finisca per assorbire i corpi intermedi nello Stato e per dissolvere poi quest’ultimo nella “società civile”.

Per rendersene conto basta confrontare il pensiero, sopra esaminato, di Rocco, di Panunzio e di Spirito, con il giudizio che Pio XI dava dell’esperimento corporativista in atto. Un giudizio espresso nella Quadragesimo Anno, scritta nel 1931, ossia negli stessi anni nei quali all’interno della cultura politica e sindacale fascista si scatenava il dibattito sui diversi modi di concepire il corporativismo del regime e su come ulteriormente riformarlo.

«Recentemente – scriveva Papa Ratti –, come tutti sanno, venne iniziata una speciale organizzazione sindacale e corporativa, la quale, data la materia di questa Nostra Lettera enciclica, richiede da Noi qualche cenno e anche qualche opportuna considerazione. Lo Stato riconosce giuridicamente il sindacato e non senza carattere monopolistico, in quanto che esso solo, così riconosciuto, può rappresentare rispettivamente gli operai e i padroni, esso solo concludere contratti e patti di lavoro. L’iscrizione al sindacato è facoltativa, ed è soltanto in questo senso che l’organizzazione sindacale può dirsi libera; giacché la quota sindacale e certe speciali tasse sono obbligatorie per tutti gli appartenenti a una data categoria, siano essi operai o padroni, come per tutti sono obbligatori i contratti di lavoro stipulati dal sindacato giuridico. Vero è che venne autorevolmente dichiarato che il sindacato giuridico non esclude l’esistenza di associazioni professionali di fatto. Le Corporazioni sono costituite dai rappresentanti dei sindacati degli operai e dei padroni della medesima arte e professione, e, come veri e propri organi ed istituzioni di Stato, dirigono e coordinano i sindacati nelle cose di interesse comune. Lo sciopero è vietato; se le parti non si possono accordare, interviene il Magistrato. Basta poca riflessione per vedere i vantaggi dell’ordinamento per quanto sommariamente indicato; la pacifica collaborazione delle classi, la repressione delle organizzazioni e dei conati socialisti, l’azione moderatrice di una speciale magistratura» (Quadragesimo Anno, paragrafi 92, 93, 94, 95, 96).

Fin qui, come si vede, il Papa elogia l’esperimento (6) ma subito dopo – ed è un passaggio cruciale! – esprime le critiche cattoliche al corporativismo del regime.

«Per non trascurare nulla in argomento di tanta importanza – continua Papa Ratti – , ed in armonia con i principi generali … sopra richiamati, … dobbiamo pur dire che vediamo non mancare chi teme che lo Stato si sostituisca alle libere attività invece di limitarsi alla necessaria e sufficiente assistenza ed aiuto, che il nuovo ordinamento sindacale e corporativo abbia carattere eccessivamente burocratico e politico, e che, nonostante gli accennati vantaggi generali, possa servire a particolari intenti politici piuttosto che all’avviamento ed inizio di un migliore assetto sociale» (Quadragesimo Anno, paragrafo 96).

La critica cattolica al corporativismo statualista del fascismo, suscettibile come si è visto di rovesciamento in una forma societaria destatualizzata, sta proprio nel fatto che, secondo la concezione cattolica, i sindacati all’interno dell’organizzazione corporativista dello Stato devono rimanere liberi, ossia non devono essere sindacati pubblici, monopolisti ed obbligatori. Negli stessi anni trenta, il Congresso cristiano-sociale di Malines (Belgio), allo scopo di distinguere la proposta cattolica da quella fascista ma anche nell’intento di offrire spunti per una sua correzione, approvava come principio ispiratore del sindacalismo cristiano quello compendiato nello slogan «Libero sindacato nella professione corporativisticamente organizzata». E’ il tema della libertà ed autonomia sindacale che – si badi bene – , pur senza mettere in discussione le realizzazioni del regime ma con l’intenzione di migliorarle, era caro anche al miglior sindacalismo fascista, impegnato quotidianamente nella lotta contro i limiti all’azione sindacale che l’irreggimentazione corporativa imponeva e dei quali approfittava a man bassa la controparte padronale.

Uno dei quadri del sindacalismo fascista dell’epoca, Francesco Grossi, cattolico di provenienza sindacalista rivoluzionaria, racconta, in un libro intervista (7), come in più di una occasione, con grande rischio personale ma sempre coperto dal suo federale provinciale, anch’esso di estrazione sindacalista, e da altri gerarchi ad iniziare da Balbo e Bottai, fu costretto allo sciopero contro la protervia padronale. In una di queste occasioni, durante una trattativa sindacale (si discuteva della, a suo tempo, convenuta riassunzione di decine di lavoratori licenziati da una azienda per motivi di mancanza di commesse e che successivamente a commesse sopraggiunte, accampando pretesti, la direzione aziendale non volere riassumere), dovette mettersi d’accordo con un collega sindacalista in servizio presso il Ministero delle Corporazioni, in quel momento formalmente retto da Mussolini, per fingere un intervento diretto del duce mediante un falso telegramma, inviato dall’amico ministeriale. Solo di fronte al presunto intervento di Mussolini il patronato abbassò la cresta e riassunse i lavoratori licenziati. Episodi come questi erano, purtroppo, all’ordine del giorno a causa dell’atteggiamento sabotatore degli industriali favorito dall’apparato burocratico del sistema corporativo come era stato realizzato, sicché il sindacato fascista riusciva ad imporsi solo laddove era in grado di conquistare o conservare spazi di autonomia. Anche un Bottai sapeva bene di queste difficoltà e per questo tentò fino all’ultimo di democratizzare le nomine sindacali che avvenivano dall’alto, su base fiduciaria ossia di fedeltà politica al regime.

Tuttavia, nonostante questi evidenti limiti, il principio ispiratore sociale dell’esperimento corporativista fu apprezzato e variamente imitato in tutto il mondo industrializzato. Fu apprezzato, come già ricordato, anche da molti socialisti, ad esempio da Bruno Buozzi, e, pur con tutte le dovute critiche, dal mondo culturale e politico cattolico. L’articolo 39 della Costituzione del 1948, come si è detto, con le sue rappresentanze sindacali unitarie in regime di libertà sindacale, è un tentativo di liberalizzazione e democratizzazione delle strutture corporativiste ereditate dal regime. La storia delle relazioni sindacali nel nostro Paese – a differenza della Germania che a seguito la via della codeterminazione – ha poi preso altre strade, da quella indicata nella stessa costituzione repubblicana.

Ma attenzione! La critica cattolica al sindacalismo di Stato non deve essere intesa come una critica di tipo liberale ossia antistatualista. Lo stesso Pio XI, come si è visto, lamentava nel paragrafo 109 della sua enciclica sociale l’abbassamento dello Stato a strumento di pressioni lobbistiche di parte (i “poteri indiretti” avrebbe detto Carl Schmitt, strenuo difensore della forma moderna del Politico, ossia dello Stato).

Come nota Ennio Innocenti: «La politica sociale di Mussolini è la conseguenza della sua volontà di attuare lo Stato partecipativo. Fu la “Carta del Lavoro”, anzitutto, la concretizzazione dei diritti del cittadino, con effetti pratici riconosciuti anche dagli avversari e perfino da Togliatti, in piena guerra. Se Mussolini fu eccessivamente statalista (in uno Stato monopartitico) è anche vero che una concezione troppo passiva della sussidiarietà è deresponsabilizzante. Lo Stato “deve” intervenire quando corpi intermedi, gruppi e individui non fanno la loro parte per il bene comune. (…) Basti pensare all’urgenza (che si aveva) di combattere le malattie: si poteva forse aspettare gli indugi dei corpi intermedi? … il lavoro era mortificato da troppe cancrene nell’Italia liberale: non si poteva aspettare i comodi della sussidiarietà» (8).

Se è vero – ed oggi dovrebbe valer ancora di più dal momento che la sussidiarietà verticale, l’unica conosciuta dal Magistero Sociale Cattolico (si vedano in proposito gli espliciti ed inequivocabili paragrafi 79, 80, 81 della Quadragesimo Anno, che parla di “ordine gerarchico tra le varie associazioni”), è artatamente mistificata con la reticolare, contrattualista e liberista, sussidiarietà orizzontale – che la sussidiarietà troppo passiva è deresponsabilizzante, è altrettanto vero che, nella ricerca di un giusto equilibrio, bisogna anche chiarire i limiti dello Stato i quali sono tutti nel dovere di non assorbimento, che tuttavia non significa anche non libero inserimento, dei corpi intermedi nella sua compagine amministrativa.

«A prima vista – scrive Guido Zagheni – questo testo (la Quadragesimo Anno) può essere interpretato come un elogio del corporativismo fascista: il fascismo, come terza via tra comunismo e liberalismo, era un sistema guardato con curioso interesse da ampi settori dell’opinione pubblica internazionale. Tuttavia, per comprendere adeguatamente la posizione di Pio XI ed emettere un giudizio equilibrato, è necessario prima interrogarsi sulle differenze esistenti tra la concezione corporativa cristiana e quella fascista: … il corporativismo fascista imponeva la collaborazione sociale a tutti i costi, negando il diritto di autodifesa o di sciopero, mentre il corporativismo cristiano, pur respingendo il principio marxista della lotta di classe, ammetteva la liceità del ricorso alle agitazioni e allo sciopero, seppure con delle regole. Il corporativismo fascista concepiva ogni cosa in funzione degli interessi dello Stato, per il quale si doveva sacrificare ogni particolarismo dei singoli e delle categorie, mentre l’ideologia e l’azione del corporativismo cristiano era tutta ordinata alla tutela e al bene della persona umana. Se queste sono le differenze tra corporativismo fascista e corporativismo cristiano, perché Pio XI usò, seppure con alcune riserve, parole di elogio nei riguardi del corporativismo fascista? (…) la vera ragione (sta) nel fatto che il corporativismo fascista sembrava allora essere complessivamente nella linea dell’ormai consolidato corporativismo cristiano di Toniolo e dei cristiano-sociali (A. Bernareggi, “L’eredità di Giuseppe Toniolo”, in SC, 56, 1928, II, pp. 241-267, in modo particolare p. 258, ove si afferma “è precisamente nel corporativismo e nell’organizzazione corporativa dello Stato che l’idea del Toniolo trionfa”. Pio XI ben conosceva Bernareggi e le sue pubblicazioni). (…). Attraverso quest’enciclica, Pio XI ha ipotizzato uno Stato corporativo e sussidiario, acquisendo il merito di proporre l’instaurazione di un’economia esplicitamente ordinata secondo il superiore principio etico della giustizia sociale» (9).

Scontro o incontro? Era possibile un fascismo “cattolico”?


Il fascismo è stato il tentativo di percorrere una strada nuova alla ricerca di una terza via distante sia dal liberalismo che dal comunismo. Tale tentativo affascinò intellettuali e uomini di cultura, delle più svariate estrazioni, anche di sinistra. Ma non era solo l’esperimento di una nuova concezione dell’economia ad affascinare. Era soprattutto il progetto fascista, di eredità giacobina, di creare l’“uomo nuovo” ed una “civiltà nuova”. Come è tipico di ogni progetto rivoluzionario moderno, anche il fascismo si inventò un calendario nel quale l’anno zero era l’anno della rivoluzione, quello da cui partiva la “nuova era”. Un progetto titanico realizzabile soltanto attraverso la fabbrica del consenso della propaganda di massa. In questo senso era inevitabile per il fascismo non mostrare il suo carattere “religioso”, di religione mondana, politica. Nonostante ogni pur cercata convergenza, strumentale, da parte del regime, lo scontro con la Chiesa era inevitabile proprio perché la sfida era portata sul terreno teologico, religioso. Chiesa e regime, come dimostrò la questione dell’Azione Cattolica, si contendevano l’educazione della gioventù e l’adesione spirituale del popolo italiano, inquadrati l’una e l’altro nelle organizzazioni di massa del fascismo ma radicati spiritualmente nella bimillenaria tradizione cattolica.

Se un Bottai – ma abbiamo visto che in lui tuttavia già operava una forza che lo avrebbe condotto alla fede cattolica – poteva scrivere che: «La superiorità della rivoluzione fascista su quella bolscevica è rappresentata dal carattere storico della prima in rapporto alla natura di astrazione ideologica della seconda. Quest’ultima nasce dalla distruzione e dalla negazione e costruisce il suo materialismo su delle rovine: la prima, invece, si esprime attraverso il superamento storico, e si arricchisce confermando valore a tutto ciò che è tradizione spirituale» (10), questo non deponeva, ancora, nel senso di una adesione alla Tradizione cattolica, di per sé, quanto piuttosto ad una certa confusione tra spiritualità cattolica, aperta alla Trascendenza, e spiritualismo idealista o fascista, chiuso, come tutte le culture moderne, nell’immanenza. Questo il motivo per il quale, coincidendo il totalitarismo innanzitutto con l’immanentismo, tutte le culture moderne, non escluse il fascismo, sfociano immancabilmente in qualche forma totalitaria. In tal senso anche il liberalismo, in quanto negatore o indifferente alla Trascendenza, è essenzialmente totalitario.

Eppure proprio negli anni trenta, per un momento – solo, purtroppo, per un momento –, la possibilità concreta di una trasformazione del fascismo in senso “cattolico sociale e nazionale” ci fu effettivamente e questo spiega i motivi del consenso che si registrò da parte cattolica nei confronti dell’esperimento corporativista del regime.

La stampa cattolica del tempo, in particolare dopo l’enciclica di Pio XI, fu prodiga di elogi al regime, nella speranza che si fosse agli albori di una sua trasformazione nel senso voluto dalla scuola cristiano-sociale. Regimi corporativisti come quello cattolico sociale di Dolfüss in Austria, alleati di Roma, confermavano tale speranza.

Il presidente dell’Istituto Cattolico di Attività Sociali, certo avvocato Colombo, durante un pellegrinaggio internazionale che faceva tappa in Vaticano, così si espresse in un discorso ufficiale: «La nuova disciplina dei rapporti collettivi (fascisti) di lavoro è orientata verso alcune finalità da noi cattolici propugnate, quali la collaborazione delle classi in contrasto con la lotta delle classi, la giustizia sociale messa a base dei rapporti tra le classi, l’eliminazione della violenza come mezzo di soluzione delle controversie di lavoro, il riconoscimento dei valori morali».

Lo stesso Colombo, in occasione del XXXV anniversario della Rerum Novarum, il 15 maggio 1926, in qualità di presidente generale dell’Azione Cattolica, affermava: «… secondo le dichiarazioni del legislatore, non ci troveremo di fronte ad un sindacato regolarmente riconosciuto con esclusione degli altri sindacati, ma a un vero e proprio organismo di diritto pubblico. Stando così le cose, occorre tener presente che il nuovo ordinamento del lavoro segna un notevole passo verso la collaborazione propugnata dalla scuola cattolica e che sarà efficace e vitale se alimentato dalla solidarietà cristiana. Certo, tale ordinamento non risponde appieno al programma sociale cattolico; ma ad ogni modo straordinaria è l’importanza dell’odierno fenomeno storico, a cui si aggiunge l’Istituto della Magistratura del Lavoro. È pertanto dovere dei cattolici non estraniarsi di fronte ala nuova legge, per il motivo che non devesi togliere ai lavoratori l’esercizio della tutela dei propri diritti in seno al Sindacato. Non sembra e non è sufficiente motivo il non veder appagati in pieno i nostri voti per respingere un appello alla collaborazione delle classi padronali e lavoratrici, collaborazione che noi dobbiamo raggiungere secondo i nostri ideali» (11).

Nei riguardi della Carta del Lavoro, promulgata il 21 aprile 1927, “La Civiltà Cattolica” (i cui numeri, ricordiamo, escono solo dopo l’approvazione della Segreteria di Stato sui contenuti), attraverso alcuni scritti del gesuita padre Brucculeri, prese, non senza però non rilevare le diverse basi teologiche e filosofiche sussistenti tra Cattolicesimo e fascismo, una posizione favorevole sostenendo che: «in fondo cattolicesimo e fascismo, pur movendo da punti diversi, confluiscono in uno stesso giudizio di condanna del regime economico odierno … Pio XI riconobbe l’odierno regime economico come profondamente guasto. Non molto dissimile è l’apprezzamento che ne dà l’on. Mussolini» (12).

Sempre padre Brucculeri, sul quaderno 2091 del 7 agosto 1937 de “La Civiltà Cattolica”, tornava sull’argomento per rilevare che: «Il Fascismo ha, in pochi anni, creato un ordine nuovo, che nessuno avrebbe mai potuto immaginare. La “Carta del Lavoro” ha spazzato via dalla nostra palestra economico-sociale i segni malefici che portano i nomi ben noti: lotta di classe, leggi inflessibili della natura, serrata, sciopero, concorrenza sfrenata, individualismo utilitario, anarchia economica. Un ordine nuovo è ormai sorto, che lascia dietro a sé, e a ben lunga distanza, i programmi ventilati dal socialismo riformista. Anche là dove i profeti della palingenesi collettivista hanno potuto fare e strafare come in Russia, non troviamo nulla di costruttivo che il Fascismo non abbia attuato con migliori risultati e senza l’enorme prezzo di costo che tutti riconoscono nell’esperimento sovietico» (13).

Nel successivo quaderno 2102 del 15 gennaio 1938 de “La Civiltà Cattolica”, ancora padre Brucculeri mette, questa volta, in rilievo le affinità tra la concezione cattolica e quella fascista dell’economia: «… Ambedue si muovono alla luce dell’etica; ambedue valorizzano il carattere individuale e, soprattutto, sociale del lavoro; ambedue tutelano e consolidano la sorgiva autentica d’ogni sociale grandezza, la famiglia; ambedue riconoscono la supremazia dell’interesse pubblico, ed in esso il correttivo indispensabile delle aberranti tendenze egocentriche dei singoli membri …» (14).

Come si può constatare, nel corso degli anni trenta, si assiste da parte cattolica ad un crescendo di consensi all’esperimento corporativista del regime che, pur senza mai dimenticare le basilari differenze filosofiche, tende a sorvolarvi sopra nell’auspicio di quella che si riteneva una svolta imminente del fascismo verso una finale sua conformazione al Cattolicesimo, come anche l’evento della Conciliazione faceva ben sperare.

C’era in questo, in effetti, sin troppa ingenuità. Ma questo possiamo dirlo solo con il senno del dopo. All’epoca invece la possibilità di una cattolicizzazione del fascismo non era affatto illusoria, come ha ritenuto anche Augusto Del Noce (15).

Lo schema esegetico, intracattolico ed intraecclesiale, secondo il quale la Chiesa di Pio XI fu, nelle sue alte gerarchie, favorevole al fascismo mentre il basso clero ed il popolo fedele resistette su posizioni antifasciste che, nel dopoguerra, avrebbero aperto la Chiesa stessa alla democrazia progressista, pur avendo avuto, soprattutto negli anni immediatamente post-conciliari, una eco di massa, risente, come è evidente, del “mito” resistenziale (16).

Lo schema predetto, modulato su quello più generale “fascismo/antifascismo”, non permette affatto una autentica comprensione, né filosofica né storica, della posizione della Chiesa negli anni trenta come pure di quella del mondo culturale cattolico del tempo, molto lontano dalle precedenti esperienze pre-fasciste del cattolicesimo politico.

Lo stesso Jacques Maritain, che, cedendo anche lui al “primato del temporale” che più tardi avrebbe, o avrebbero i suoi seguaci, rimproverato come peccato ai cattolici conservatori, proprio in quegli anni andava maturando il suo passaggio dal tradizionalismo, vicino all’Action Francaise, alla democrazia, era prodigo, all’epoca, di apprezzamenti per certi “valori”, ossia quelli dell’identità e della comunità, che i fascismi esprimevano.

La generazione intellettuale cattolica italiana degli anni trenta guardava al vecchio Partito Popolare come ad una formazione priva di effettivi ideali e pertanto destinata inevitabilmente, come i fatti si erano incaricati di dimostrare, alla sconfitta. Non difforme era, in proposito, il giudizio di alcuni maestri di quella generazione, come padre Agostino Gemelli, Papini, Giuliotti, mons. Olgiati.

Alla luce di quanto il regime aveva fatto per avvicinarsi alla Chiesa, innanzitutto il Concordato, persino personalità, insospettabili del dopoguerra, come Alcide De Gasperi e mons. Angelo Roncalli ebbero espressioni di elogio per il regime. Il primo, esule in Vaticano, pur tra mille riserve e distinguo, ammise, nei suoi scritti giornalistici firmati con lo pseudonimo, molto significativo, di “Spectator”, che la politica modernizzatrice del fascismo aveva aspetti di elevazione del popolo che non potevano non trovare simpatia, se non consenso, da parte dei cattolici (17). Il secondo ha lasciato detto e scritto, anche in alcune pagine, di solito censurate, del suo diario, “Il giornale dell’anima”, che con la Conciliazione, Mussolini aveva acquisito il merito di porre fine all’opera nefasta della Massoneria in Italia.

Agli occhi della generazione cattolica degli anni trenta e della Chiesa di Pio XI il fascismo appariva da un lato “provvidenziale”, per le sue aperture dopo la stagione del giurisdizionalismo risorgimentale (18), ma dall’altro come un movimento politico che sorgeva da una cultura filosofica pregna di irrazionalismo ed i cui capi, ad iniziare proprio da Mussolini, erano stati legati alle posizioni più accesamente anticattoliche fino ad allora comparse sul proscenio della storia.

L’evidenza di queste due anime del fascismo faceva in modo che nella Chiesa di quel tempo non ci fossero, se non in minoranze esigue, cattolici pienamente ed acriticamente aderenti al regime ma neanche cattolici pienamente aderenti all’opposizione antifascista.

La posizione della Chiesa e dei cattolici del tempo era piuttosto attendista, pur nella speranza pubblicamente dichiarata, e quindi spesso vicina al consenso aperto, di una “conversione “ del regime. Si aspettava in attesa di verificare quale delle due anime del fascismo avrebbe prevalso. Ora, proprio il Concordato e l’esperimento corporativista spingeva l’opinione pubblica ecclesiale verso la convinzione che in qualche modo la storia, per un intervento provvidenziale, stava trascendendo le intenzioni stesse dei capi del fascismo e che si fosse agli albori di una “restaurazione cattolica”. Questa convinzione si spiega solo con il quadro esegetico del percorso storico della modernità che era proprio alla cultura cattolica dell’epoca. Una esegesi storica che assegnava alla Chiesa il ruolo di resistenza contro la modernità atea avanzante. Era, grosso modo, la posizione del Maritain, prima versione, quello di “Antimoderno” (1922) e di “Tre Riformatori” (1923).

La modernità era globalmente considerata – con ampie ragioni – un processo storico e filosofico che, partendo da Lutero e Cartesio, si dirigeva, ineluttabilmente, verso la dissoluzione atea e nichilista. Nell’ambito di tale percorso di dissoluzione due erano, fino a quel momento, le tappe principali: il liberalismo, quale espressione politica del naturalismo e del razionalismo, e il socialismo. Quest’ultimo era preso in considerazione non come il nemico principale ma soltanto come il figlio del liberalismo, legittimo, per quanto imprevisto dai liberali, e ribelle al padre.

Come osserva Augusto Del Noce, questa lettura faceva da contraltare a quella, eguale nei contenuti ma diametralmente opposta nelle valutazioni, che la cultura laicista esprimeva nello stesso periodo e della quale Benedetto Croce aveva dato un saggio, di notevole spessore, nella sua opera “Storia d’Europa nel secolo XIX”, del 1932. Il Croce, leggendo il cammino della modernità a rovescio rispetto alla lettura cattolica, giungeva alla conclusione che nei secoli moderni si erano affrontate sostanzialmente due religioni, quella cattolica e quella liberale. Alla “religione della libertà”, ossia al liberalismo inteso come religione dell’età nuova, si era opposto il Cattolicesimo romano, «la più diretta e logica negazione – scriveva Benedetto Croce – dell’idea liberale … prototipo o forma pura di tutte le altre opposizioni e, insieme, quella che col suo odio irremissibile mette in luce il carattere religioso, di religiosa rivalità, del liberalismo. Alla concezione per la quale il fine della vita è nella vita stessa, e il dovere nell’accrescimento ed innalzamento di questa vita, e il metodo nella libera iniziativa e nell’inventiva individuale, il cattolicesimo oppone che, per contrario, il fine è in una vita oltremondana, alla quale la mondana è semplice preparazione, che si deve adempiere con l’osservanza di ciò che … Dio … per mezzo del suo vicario in terra e della sua chiesa comanda di credere e di fare» (19).

Benedetto Croce, nel 1932, scrivendo queste cose, polemizzava da buon liberale contro il Concordato che, anche nella sua prospettiva rovesciata rispetto a quella cattolica ma convergente nell’esegesi degli avvenimenti, sembrava preludere alla “restaurazione cattolica”, al ritorno dell’“antimodernità”. In realtà, come si ampiamente visto, il fascismo non era un movimento restauratore, o reazionario. Esso era nato dall’interventismo socialista, di sinistra, incrociatosi con quello nazionalista, di destra, nel momento in cui, con la prima guerra mondiale, venne l’ora dell’abbattimento di quanto restava in Europa, sotto forma della Monarchia asburgica, del medioevo e con il fine ultimo di colpire al cuore la Chiesa cattolica (20).

Il trionfo, nel primo dopoguerra, di questi movimenti interventisti e radicali apparve ai contemporanei come un evento imprevedibile e non semplicemente spiegabile quale uno sviluppo del liberalismo (in realtà noi sappiamo che, in quanto espressione anch’essi del principio di immanenza, anche questi nuovi movimenti irrazionalisti erano debitori del processo di secolarizzazione innescato dal liberalismo).

Quel che, tuttavia, impressionò gli osservatori cattolici era il fatto che questi movimenti socialisti e nazionalisti, coagulatisi nella formula ideologica e politica del “fascismo”, pur avversi al Cattolicesimo, si proponeva come avversari degli stessi nemici storici della Chiesa, liberalismo, massoneria, socialismo, comunismo. Il fascismo insorgeva contro tutte le mistificazioni umanitarie del Cristianesimo, contro gli slogan moderni della “libertà”, della “pace”, della “giustizia”, della “socialità”, che erano appunto la mistificante traduzione umanitaria, senza riferimenti alla Trascendenza, della Rivelazione. Dunque, il fascismo era il segnale che il mondo moderno era giunto alla sua crisi finale e stava, ormai, scivolando, data l’inconsistenza dell’umanitarismo, nell’irrazionalismo che pur essendo l’esito ultimo del razionalismo si presentava come negatore dei “valori moderni” (21) .

Ma, ecco il punto della questione come appariva al mondo cattolico del tempo, proprio perché fenomeno di dissoluzione del mondo moderno, del mondo inaugurato dal liberalismo, il fascismo, se voleva sfuggire alla dissoluzione nichilista, doveva passare dal suo momento negativo, iconoclasta degli idoli della modernità, al momento positivo della costruzione non solo di un regime ma, come pretendeva, di una “nuova civiltà”. E per effettuare questo passaggio doveva per forza incontrarsi con il Cattolicesimo nella direzione di una “restaurazione cattolica”. Proprio l’apparente convergenza tra il corporativismo cattolico e quello fascista, sollecitava gli studiosi cattolici ad aprirsi al fascismo nella speranza di una sua trasformazione restauratrice.

Fu solo un’illusione? Con il senno del poi dobbiamo rispondere sì e cercare le motivazioni della risposta nella natura di “religione politica”, al modo giacobino, proprio del fascismo, preso nella sua pura essenza ideologica ossia al di là delle contingenti e momentanee convergenze con la prospettiva cattolica del suo tempo. E tuttavia bisogna riconoscere che se illusione era essa aveva dalla sua molte buone motivazioni.

«La lealtà storica – scrive in proposito Augusto Del Noce – ci obbliga a riconoscere che questa illusione era possibile. Durò sino al momento in cui il carattere anticristiano del nazismo si rivelò appieno e a quello in cui il nazismo prevalse sulla maggior parte di questi movimenti (fascisti). Il termine “fascismo cattolico” è qui equivoco e ingiustificato. Si deve parlare piuttosto della permanenza di quella veduta che padre Gemelli aveva espresso, nel 1914, nell’articolo inaugurale della rivista “Vita e Pensiero”, intitolato “Medioevalismo”: “Noi siamo medioevalisti e lo siamo perché riconosciamo che la così detta cultura moderna è il nemico più fiero del cattolicesimo e perché riconosciamo che è vano parlare di adattamenti, di penetrazione. Tutto questo è vano. Tutto questo si riduce, in ultima analisi, a rinunciare a ciò che è l’elemento fondamentale e caratteristico del cattolicesimo”. Di questa cultura moderna il fascismo sembrava rappresentare la crisi terminale, entro cui affioravano, per la forza stessa della storia, i primi lineamenti della ricostruzione. Saranno pur stati motivi nazionalistici quelli che portavano Mussolini a difendere la cattolica repubblica austriaca di Dollfuss o a fornire un appoggio decisivo alla causa di Franco; ma il risultato sembrava essere un’intesa che si estendeva da Lisbona a Budapest, che aveva un ampio retroterra coloniale nell’impero etiopico, e che poteva arginare insieme comunismo e nazismo. Il cemento di quest’intesa non poteva in definitiva che essere cattolico e i regimi fascisti erano portati a una politica sociale corporativistica, con cui la dottrina sociale cristiana sembrava accordabile. La considerazione delle due anime del fascismo definisce pure i limiti del consenso anche in quegli anni, tra il 1931 e il 1938, per cui qualcuno, con termine non felice, ha parlato di “idillio”. Il punto su cui la Chiesa si mostrò intransigente fu il rispetto del Concordato, in modo da garantire alla gioventù cattolica una formazione rigorosamente autonoma da influenze estranee; né va dimenticato che fu proprio il Concordato a rendere impossibile al fascismo di realizzarsi come regime effettivamente totalitario» (22).

Ora, l’illusione del mondo cattolico circa il possibile esito “restauratore” del regime stava in uno strabismo culturale che si è rilevato esiziale ossia il ritenere il fascismo privo di una sua effettiva valenza filosofica autonoma. Invece il fascismo era, in ordine di tempo, l’ultima manifestazione, e perciò stesso radicale, del principio di immanenza. Nel suo sviluppo – e la cosa è chiarissima nel percorso stesso di Mussolini – era insita una evidente linea culturale, che attraversava lo stesso sindacalismo rivoluzionario e tutte le altre correnti immanentistiche che portarono il loro contributo genetico al fascismo, costituita dall’idea della rivitalizzazione rivoluzionaria del marxismo mediante la sua rilettura alla luce del pensiero di Nietzsche. Anche il leninismo, con il suo acceso volontarismo che faceva dell’avanguardia politica del Partito l’anima della rivoluzione bolscevica – concetto che sarà mutuato da Gramsci nell’idea del Partito come novello “Principe” –, si dimostrerà influenzato dal niccianesimo. In questo senso Ernst Nolte ha potuto individuare in Mussolini il vero iniziatore del comunismo europeo.

Mussolini, in effetti, considerò Lenin come il rivale da superare in termini di radicalismo rivoluzionario proprio perché ne aveva intuito il debito, a lui comune, verso Sorel e, soprattutto, verso Nietzsche.

Il Nietzsche dell’inizio del XX secolo non è certo il Nietzsche come viene letto ed apprezzato oggi, soprattutto dalla sinistra intellettuale,  benché nell’una lettura come nell’altra quel che emerge, pur nella differenza esegetica, è il dato comune della posizione irriducibilmente antimetafisica del pensatore tedesco nella quale l’umanitarismo – che al di là della facciata “pacifista” e “solidarista” è in realtà essenzialmente prometeismo – trova il suo trionfo nell’oltreumanismo proprio perché quest’ultimo fa cadere ogni velo apparentemente “cristiano” dell’umanesimo. L’odierno, postmoderno, “transumanismo” si colloca perfettamente su questa linea nicciana propria all’umanitarismo che supera sé stesso portando a coerente esito il prometeismo di cui si nutre.

«… è un fatto – scrive Augusto Del Noce – che Nietzsche possa venir letto in due modi del tutto diversi. Come colui che, in quanto fu il più acuto fenomenologo dell’ateismo, ha pure enunciato la veduta profetica di quel che sarebbe accaduto nel nostro tempo; sotto questo rapporto guida interpretativa insuperabile (e oggi viene generalmente letto in questo modo). Ma è pur vero che nella sua opera vi è anche un altro aspetto, quello per cui si propone come maestro di azione; e non si può negare il fatto che in questi termini fosse letto nel primo Novecento e che in questo senso lo leggessero, anche se in modo diverso, così D’Annunzio come Mussolini» (23).

Questo spiega perché mai, nonostante ogni potenziale aspettativa da parte cattolica, il fascismo evolse in un senso contrario a quelle aspettative fino a subordinarsi al nazismo da cui pure lo separavano differenze notevoli ad iniziare dall’assenza di ogni concezione biologica e razziale nel concetto di nazione, che nel fascismo era esclusivamente culturale (24).

Ma spiega anche perché la disillusione dell’aspettativa cattolica verso il fascismo non poteva non toccare, fino a rovesciarla, la lettura cattolica del processo storico iniziato con la modernità. Infatti, a causa della sconfitta storica della possibilità di un fascismo “cattolico”, la lettura antimoderna, propria alla cultura cattolica preconciliare, è stata radicalmente rovesciata nel senso che all’attesa della restaurazione antimoderna si sostituì, già negli anni quaranta e cinquanta del secolo scorso, l’attesa della palingenetica del “mondo nuovo” che stava sorgendo, sulle macerie della reazione morente (ora identificata con il nazifascismo sconfitto). Questo mondo nuovo era in procinto di nascere partorito da una rivoluzione, già in atto nella sua forma socialista e comunista, alla quale i cristiani erano chiamati, per emendarsi dal peccato di fornicazione con il fascismo, a partecipare attivamente. Qui, in questo rovesciamento esegetico che però è dialetticamente debitore dell’esegesi antimoderna, sta l’origine del cattolicesimo progressista. La sinistra cattolica nasce attraverso il rovesciamento della prospettiva antimoderna della cultura cattolica tradizionalista. E pertanto ne è debitrice. Fenomeno, questo, non nuovo. Per convincersene, basta rammentare che il Lamennais cattoliberale era stato allievo dei reazionari Joseph De Maistre e Louis De Bonald ed era giunto all’idea della “nuova cristianità” democratica – che Jacques Maritain, facendo un analogo percorso che lo condusse dal nazionalismo maurrassiano alla democrazia cristiana, avrebbe ripreso più tardi – proprio rovesciando la concezione tradizionalista dell’“antica cristianità”.

Come per i giovani della sinistra fascista, attivi negli anni trenta e quaranta, si trattò, al momento del loro successivo passaggio al comunismo, soltanto della continuazione in altre forme della stessa lotta antiborghese iniziata con il fascismo, così per i giovani cattolici, allevati a base di Maritain e di Mounier nell’Azione Cattolica di Pio XI a guida montiniana, si trattò, in questo rovesciamento della prospettiva antimoderna in prospettiva palingenetica, della continuazione dell’opposizione cattolica al liberalismo borghese.

Un elemento però accomuna l’antimodernismo cattolico al progressismo cattolico ed è quello che nell’uno come nell’altro caso si ha una sacralizzazione di un ordine temporale, conservatore o rivoluzionario non importa. Sia il cattolico antimoderno che quello progressista, in fondo, riconoscono, indebitamente, il primato del temporale, del Politico, e finiscono per schiacciare la fede e la Chiesa su un dato meramente sociologico. Lo stesso errore fanno oggi i teocon ed i “cristianisti”. In realtà, la Chiesa , continuando nello spazio-tempo l’Incarnazione di Cristo, è sì Corpo visibile, ed in quanto tale, ossia operante sul piano storico, tenuta ad influenzare costumi, culture, società, con il lievito del Vangelo, ma non si identifica in modo assoluto, né mai nel corso dei secoli si è identificata, neanche nel Medioevo “teocratico”, con nessuna società umana né con nessun sistema politico o economico organizzato, dei quali riconosce la naturalità, e pertanto l’orientamento al Creatore della natura, quindi anche delle Comunità politiche, e tuttavia riconosce anche la loro relativa autonomia. Ferma, sempre ed in ogni modo, la Verità di Cristo (la Chiesa è depositaria della Verità non negoziabile e non di meri “valori”) alla cui luce qualsiasi politica deve essere cattolicamente giudicata, approvata o disapprovata.

Il “primato del temporale” è un peccato che oggi si va ripetendo nell’adesione della posizione cattolica alla prospettiva del liberismo globale. Il cattolicesimo liberale infatti, come quello reazionario fa con l’Ancién Régime e quello progressista con la democrazia o il comunismo, identifica la fede con il mercato e la Chiesa con la cosmopoli umanitaria globale, con l’Occidente planetarizzato.

Anche questo è un non tener in debito conto che tutto lo sviluppo storico-filosofico, che dal moderno ci ha portato infine al post-moderno, dallo statuale al sociale, dal Politico all’economico, è sviluppo del principio di immanenza il cui esito ultimo è il nichilismo, il quale sta dissolvendo la stessa globalizzazione che di esso è ad un tempo causa ed effetto e che di esso si nutre.

Il Del Noce che, negli anni settanta, giustamente rilevava: «… fascismo e nazismo possono venir considerati come “eresie del marxismo”, correlative al rovesciamento dell’universalismo comunista nell’affermazione pratica del primato russo. Si osservi al riguardo come non sia un caso che il nazismo sorga nella nazione dove hegelismo e marxismo erano nati, e il fascismo in quella in cui avevano avuto una maggiore influenza culturale» (25) deve essere chiosato rilevando il carattere assolutamente immanentistico anche del liberalismo e del liberismo (26) e quindi con la consapevolezza che, in realtà, fascismo, nazismo, marxismo e liberalismo/liberismo altro non sono che sviluppi dell’immanentismo moderno e, dunque, nel senso di G. K. Chesterton, “eresie cristiane”, camuffamenti luciferini per trarre in inganno i cristiani (cfr. Matteo 24,24; Marco 13,22).

Anzi, può dirsi, che la modernità apertasi con il liberalismo/liberismo sia giunta alla sua maturazione, al suo esito, post-moderno proprio con il neoliberalismo/neoliberismo e che la varie tappe di questo percorso, necessarie per quella piena maturazione, sono stati appunto il marxismo, il fascismo neopagano, che alla fine ha rifiutato la Trascendenza cristiana, ed il nazismo.

Non resta, a questo punto, che di approfondire le aporie della revisione idealistica che il fascismo tentò del marxismo, inteso quest’ultimo come era letto a quel tempo ovvero quale essenza della modernità. La revisione fascista, pur riconoscendone le ragioni di fondo, quelle che muovevano la critica sociale marxista al capitalismo, mirava al superamento del marxismo mediante una rivoluzione “spiritualista”, ulteriore al comunismo ossia “al di là del marxismo”, al fine di superare definitivamente il capitalismo. Esamineremo questa pagina della cultura della prima metà del XX secolo per comprendere che le ragioni del fallimento di quel revisionismo non erano nella presunta tenuta “scientifica” del marxismo – oggi sappiamo perfettamente che il marxismo non era per niente scientifico, anzi era il precipitato filosofico dell’antica eresia millenaristica, e che il comunismo ha fallito anche praticamente – ma stavano tutte, appunto, nel rifiuto, che fu l’errore della cultura fascista, del principio di Trascendenza per quello di immanenza.

Luigi Copertino

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1) Cfr. Alcide De Gasperi (con lo pseudonimo di G. Jaspar) “Un maestro del corporativismo cristiano: R. De La Tour du Pin”, in Rivista internazionale di scienze sociali e discipline ausiliarie, anno XXXVII, nuova serie, vol. I, fasc. I, gennaio 1928 poi in “Studi e appelli della lunga vigilia”, Magi Spinetti, Roma 1946.
2
) Giuseppe Toniolo è studioso che oggi andrebbe riletto, benché in una prospettiva adeguata ai nostri tempi. Infatti nelle sue riflessioni di giurista, sociologo ed economista vi sono alcune intuizioni molto importanti. Studiando l’economia della Firenze medievale, egli ha creduto di ritrovarvi un modello ancora valido ai suoi tempi: quello di una società in cui la cooperazione tra le varie corporazioni di arti e mestieri, aveva prodotto sia benessere per i lavoratori sia democrazia, in un'armonica civitas cristiana. Tuttavia Toniolo, anche sulla scorta dell’insegnamento di Leone XIII, aveva ben compreso che non si poteva rimanere fermi all’antico modello corporativo dell’ancién régime, che conosceva soltanto corporazioni miste di datori di lavoro, garzoni apprendisti ed operai. La nuova società industriale aveva fatto nascere il fenomeno del sindacalismo operaio autonomo che il movimento sociale cattolico doveva riconoscere e valorizzare. “Sindacati anche di soli operai” aveva detto Leone XIII nella “Rerum Novarum”. Da qui la maggiore modernità del corporativismo dualista, ossia contemplante, all’interno della stessa professione o dello stesso settore economico, la compresenza del sindacato datoriale e di quello dei prestatori d’opera autonomi e separati ma anche uniti dal comune legame, di solidarietà e di interesse, costituito dalla corporazione che, appunto, li ricomprendeva. Esattamente quanto in qualche modo realizzò il regime fascista e che Toniolo, morto nel 1918, non fece in tempo a vedere ma di cui, lo si può tranquillamente affermare con veridicità, può considerarsi, almeno in Italia, un precursore sotto il profilo tecnico (perché sotto quello spirituale e culturale le riserve del cattolico Toniolo all’immanentismo statolatrico del fascismo si sarebbero senza dubbio fatte sentire). Ma l’aspetto che oggi meglio può riprendersi del suo pensiero è l’intuizione dell’immoralità ed antisocialità della finanza autoreferenziale. Infatti, pur essendo assertore della libertà di commercio, Toniolo osteggiava in modo assoluto e fermo la libera circolazione dei capitali perché era, a ragione, convinto che la finanza dovesse sempre rimanere strumentale all'economia reale e non dovesse mai ridursi a mero mezzo di arricchimento, a tutto vantaggio dei pochi percettori di rendita. Oggi, Toniolo sarebbe in prima fila nella condanna della finanziarizzazione dell’economia e della globalizzazione che ne è conseguita. Va poi ricordato che Toniolo, professore di economia politica prima all’Università di Padova e poi in quelle di Modena, Reggio Emilia ed infine di Pisa, ebbe, in quest’ultima, tra i suoi allievi Werner Sombart, il sociologo del “socialismo tedesco”. Sombart fu chiamato a presenziare, nel 1932, il Convegno di Studi Corporativi svoltosi a Ferrara nel 1932, durante il quale furono discusse le tesi “comuniste” della “corporazione proprietaria” avanzate dal gentiliano di sinistra Ugo Spirito e che furono rigettate dai maestri del sindacalismo rivoluzionario trasformatosi in sindacalismo nazionale, come Sergio Panunzio. Nella prolusione del Convegno, Sombart disse che l’Italia con il suo esperimento corporativista costituiva la punta avanzata del pensiero sociale ed economico del XX secolo e che ad essa guardavano tutte le Nazioni che non volevano essere costrette a scegliere secondo la falsa alternativa liberal-capitalismo/social-comunismo. Ed anche se non poteva rendersi conto, nel 1932, del pericolo che il razzismo nazista rappresentava per il futuro della “terza via” da lui ammirata, e che l’Italia stava sperimentando, tanto che in quella prolusione fece un fugace riferimento al movimento “social-nazionalista” della sua patria, è indubitabile che nel pensiero di Sombart fosse ancora presente, in quell’occasione, e profondamente, la grande lezione tonoliana.
3) Cfr. A. Rocco “La trasformazione dello Stato”, 1931 ora in T. Buron – P. Gauchon op. cit. pp. 46-47.
4) Cfr. U. Spirito “Nuovi studi di diritto, economia e politica”, 1932, ora in T. Buron – P. Gauchon op. cit. pp. 47-48.
5) È molto significativo che i liberisti vogliano la stessa cosa: la liberazione delle forze economiche del mercato, non escluso quello finanziario, dalle “pastoie burocratiche”, ossia dai controlli pubblici che limitano il prometeismo di quelle forze, che è come dire l’abolizione marxiana dello Stato. Il prometeismo è evidente laddove sia per i marxisti che per i liberisti si tratta di rendere l’uomo artefice indiscusso ed inappellabile del suo destino dal momento che l’homo oeconomicus marxiano e liberale è il padrone di sé stesso, individuo evolianamente e gnosticamente assoluto, datore di senso al mondo ed alla storia senza alcuna dipendenza dalla Trascendenza, che sia quella del Politico o del Teologico o entrambe. Il fatto che nella dottrina marxista è lo Stato, benché solo transitoriamente in attesa della comparsa dell’uomo nuovo, ad essere presentato come l’agente di questa liberazione prometeica dell’uomo da Dio, non toglie che l’essenza anti-teologica, e quindi alla fine anti-politica, del comunismo sia la stessa del liberalismo e del liberismo. Una medesima gnosi li accomuna e di questa essi sono espressioni dialettiche. Il fascismo – che in un certo senso sembrò porsi al crocevia tra Tradizione e Modernità, nel tentativo di mettere insieme il meglio dell’Una e dell’altra – nella misura in cui, alla fine, ha scelto la via dell’immanentismo ha finito per votarsi al fallimento epocale.
6) Del resto nel sistema, descritto, della magistratura del Lavoro e nei principii stabiliti dalla Carta del Lavoro, di tutela del lavoro in un quadro nel quale la proprietà privata doveva essere responsabilizzata in quanto non diritto assoluto ma funzione sociale, sono rintracciabili gli albori stessi dell’ordinamento giuslavoristico della Repubblica democratica che prevede, appunto, il giudice del lavoro per le cause di lavoro e che ha sviluppato, nello Statuto del Lavoratori del 1970, oggi messo in discussione dai neoliberisti, quanto già enunciato nel documento fascista elaborato da Bottai e moderato da Rocco.
7) Cfr. Francesco Grossi “Battaglie Sindacali – intervista sul fascismo rivoluzione sociale incompiuta”, Istituto di Studi Corporativi, Roma, 1988. Francesco Grossi, che faceva parte dell’entourage di Italo Balbo e di Nello Quilici (quest’utlimo padre del noto regista e documentarista Folco Quilici), dunque del fascismo ferrarese, il più repubblicano e demo sociale, guidò negli anni trenta i sindacati dei lavoratori dell’Industria. Fu Direttore Generale dell’Opera Nazionale Dopolavoro nel 1940, Capo Ufficio Sindacale del PNF nel 1942, poi federale ad Avellino e consigliere della Camera dei Fasci e delle Corporazioni. Durante la RSI fu vice capo di gabinetto al Ministero del Lavoro. Si distinse per le fermezza delle sue posizioni sindacali in favore dei lavoratori, contro tradimenti ed abusi confindustriali, nonché per i suoi arditi progetti di riforma sia della legislazione del lavoro sia per la ripartizione del latifondo. Appoggiato, in queste sue iniziative, da Landi, Bottai ed altri noti gerarchi del fascismo di sinistra, riuscì, con tali coperture politiche, persino ad organizzare scioperi nelle industrie padane contro la protervia padronale che non voleva stare ai patti per i quali si era concordato il ritorno dei livelli salariali a quelli precedenti le riduzioni imposte dal momento di ristagno del ciclo economico non appena superata la crisi. Fondò e diresse una infuocata rivista sindacalista, “14 Novembre”, fascistissima nella sua critica al latifondo ed al capitalismo liberista. Ebbe notevoli contatti culturali con intellettuali del calibro di Ezra Pound, Chilanti, Berto Ricci, e tanti altri contestatori dalle posizioni del fascismo di sinistra delle derive conservatrici del regime. Fu incaricato di mantenere rapporti sindacali con i responsabili del “Fronte del Lavoro” tedesco, del quale sempre criticò l’essenza per niente sindacale ma solo partitica. Fu incaricato d’affari in Spagna durante la guerra civile prendendo contatti con i falangisti joseantoniani e rendendosi conto della differenza sussistente tra il loro movimento ed il franchismo conservatore. Conobbe molto da vicino, in una missione sindacale, la realtà tutta peculiare della realtà del mondo del lavoro dell’alleato giapponese, che giustamente giudicava propria del popolo nipponico, con il suo culto atavico della divinità dell’imperatore, e non emulabile. Elaboratore nei mesi della Repubblica Sociale di un progetto per lo “Stato Nazione del lavoro”, catturato dai partigiani ebbe salva la vita grazie al partigiano Vanni Quilici, fratello di Folco e figlio del suo camerata Nello. Nel dopoguerra fu contattato sia da Giuseppe Di Vittorio, della CGIL, sia da Amintore Fanfani. Il primo gli propose, come riconoscimento della grande opera che lui e gli altri sindacalisti fascisti avevano fatto in difesa del lavoro, di entrare nei quadri del sindacato comunista. Il secondo gli chiese consigli per il suo piano casa dal momento che il nostro era stato negli anni trenta attuatore di un programma edilizio fascista inteso a dare casa agli operai. Anche Fanfani gli propose di entrare nei quadri della corrente cristiana della CGIL, quella che poco dopo sarebbe diventata la CSIL. Grossi tuttavia rifiutò sia la proposta di Di Vittorio che quella di Fanfani e si dedicò alla sua carriera di dirigente d’azienda, emigrando in Argentina. Fanfani, studioso del corporativismo fascista ed attento osservatore dell’esperimento del regime, sapeva che Francesco Grossi era un cattolico di quelli tosti, “tridentino”. All’indomani della Conciliazione, con la sua rivista aveva fatto propaganda per la scelta confessionale del regime irritando un alto gerarca del locale fascismo ferrarese, che, come dice nel libro intervista, scoprì poi essere affiliato alla Massoneria. Per toccare con mano quanto le posizioni del fascismo di sinistra fossero capaci di fare presa sui lavoratori e come spesso, dopo l’8 settembre, molti di quelli che entrarono nella militanza del PCI avessero invece radicati legami con il sindacalismo fascista, riportiamo una bella pagina del libro intervista a Francesco Grossi, quella nella quale racconta come, durante la RSI, fu incaricato da Mussolini in persona di prendere contatti con popolari, repubblicani e soprattutto con i comunisti per proporre loro una sorta di tregua al fine di evitare il bagno di sangue della guerra civile (mentre i popolari offrirono la loro disponibilità ed i repubblicani risposero con un “ni”, la proposta di Mussolini fu fatta cadere dai vertici del PCI ai quali i militanti contattati da Grossi portarono le medesima). Ricevuto l’incarico, Grossi si pose il problema di chi contattare tra i comunisti. Si ricordò di una sua antica fiduciaria sindacale all’epoca nel quale organizzava scioperi fascisti con la copertura di Bottai e Landi. «Nel pomeriggio del 26 settembre ’43 – racconta Grossi – presi contatti con i dirigenti comunisti tramite Francesca Venturi, che era stata fiduciaria sindacale allo Jutificio Romagnolo all’epoca dello sciopero da me organizzato. Dalla Venturi appresi che il responsabili del PCI nel ravennate era Mario Gordini. La Venturi, inoltre, precisò che avrei dovuto ricordarmi di Gordini, in quanto era stato attivo fiduciario sindacale alla Montecatini-concimi. Dissi alla Venturi che dovevo parlare a Gordini urgentemente, per una delicata questione politica. La Venturi assicurò che il giorno seguente una staffetta mi avrebbe avvertito sul luogo e sull’orario dell’appuntamento. Infatti, il giorno 27 la staffetta Natalina Vacchi venne a Porto Corsini: ero atteso il giorno dopo, il 28 settembre alle ore 18, a casa della Venturi in via Fiume Abbandonato, dove esisteva un agglomerato di vecchie case operaie. All’ora convenuta, raggiunsi il posto indicato e mi trovai di fronte un uomo giovane, robusto, alto,biondo, sulla trentina, che mi salutò cordialmente. Esordì dicendo: “Ma lei non è un fascista! Perché è tornato con loro? Lei è con i lavoratori, non con gli altri! Si ricorda di me?”. Finalmente mi ricordai di lui e risposi: “Gordini, non c’è bisogno che io cambi bandiera per essere dalla parte dei lavoratori; tutti i miei convincimenti ideali sono improntati alla tutela degli interessi del mondo del lavoro, come ho concretamente dimostrato con la mia attività sindacale. Adesso dimmi di te!”. Rispose Gordini: “Ho fatto cinque anni di galera a causa della mia militanza comunista e in quei cinque anni ho studiato parecchio. I miei insegnanti erano i miei compagni più colti, come Grieco e Scocimarro. Leggevo anche il suo “14 Novembre”, al quale ero abbonato, come altri compagni di galera o di confino». Questa confessione di una ex fiduciario sindacalista fascista che mentre veniva “indottrinato” in galera dai comunisti continuava a leggere una rivista dle sindacalismo fascista più fermo e coerente, sta lì a dimostrare quanta presa il fascismo aveva fatto ed ancora faceva sulle masse lavoratrici. E dimostra l’incomparabile errore del regime nel non accelerare il cammino delle trasformazione in senso più fortemente sociale del corporativismo a costo di mettere i ceppi alla reazione confindustriale. L’autore di questo contribuito è convinto che se si fosse raggiunta una intesa tra il sindacalismo fascista, la Chiesa ed il mondo del cattolicesimo sociale la storia del regime e dell’Italia sarebbe stata assolutamente diversa, ad iniziare dal fatto che non vi sarebbero state né le leggi razziali né l’alleanza mortifera con il nazismo né la partecipazione del nostro Paese alla guerra. Oggi, molto probabilmente, l’Italia sarebbe piena di “piazze Benito Mussolini”, “vie Giuseppe Bottai”, “largo Dino Grandi”, “strade Italo Balbo” e tra esse anche qualche “strada Francesco Grossi”.
8) Cfr. E. Innocenti, op. cit. pp. 92-93.
9) Cfr. Guido Zagheni “La Croce e il Fascio – i cattolici italiani e la dittatura”, San Paolo, Milano, 2006, pp. 174-175.
10) Citato in T. Buron – P. Gauchon op. cit., p. 48.
11) Citato in E. Innocenti, op. cit., p. 80.
12) Citato in E. Innocenti, op. cit., pp. 80-81.
13) Citato in E. Innocenti, op. cit., p. 81.
14) Citato in E. Innocenti, op. cit., p. 81.
15) Cfr. A. Del Noce “Il Cristianesimo tra fascismo e marxismo nel pensiero italiano” in L’Europa, IV, 18, 27 giugno 1970, pp. 39-43 ed in L’Europa; V, 1, 15 gennaio 1971, pp. 29-40; poi in A. . Del Noce “Rivoluzione, Risorgimento, Tradizione”, Giuffré, Milano 1993; ora in A. Del Noce “Fascismo e Antifascismo – errori della cultura”, Leonardo, Mondadori, Milano, 1995, pp. 65-76. Seguiremo, nel prosieguo, l’esegesi delnociana che resta insuperabile nella comprensione del significato trans-politico della storia contemporanea.
16) Usiamo il termine “mito” perché ormai la storiografia ha accertato che non è mai esistita una Resistenza, perlomeno attiva, di massa, popolare, quanto piuttosto, all’interno del più vasto conflitto mondiale, una guerra civile tra due minoranze ideologicamente agguerrite, laddove il popolo, invece, stava a guardare, anche se sempre più passivamente simpatizzante, per ovvi motivi di difesa dalla ferocia nazista, verso i “liberatori”, in attesa della fine della guerra e con essa delle maggiori sofferenze quotidiane.
17) È importante ricordare che negli anni, precedenti la prima guerra mondiale, nei quali Mussolini era esule nel Trentino, ancora asburgico, il futuro duce ed il futuro primo presidente del consiglio eletto dell’Italia repubblicana ebbero modo più volte di scontrarsi, nella polemica politica e giornalistica, senza esclusione di colpi. Alcide De Gasperi, infatti, in quegli anni era l’esponente più in vista del cattolicesimo sociale trentino, impegnato in politiche popolari per la creazione di cooperative e cassa rurali secondo la tradizione sociale del Cattolicesimo ereditata dal secolo precedente. Nel 1944, durante la breve stagione della RSI, sembra che Mussolini abbia avuto modo, in una occasione semi-pubblica, di “profetizzare” che, per il carattere proprio della politica che interpretava e che aveva elementi di continuità con le realizzazione del ventennio fascista, solo Alcide De Gasperi gli sarebbe potuto succedere.
18) Si ricordi che anche la posizione di Cavour era sostanzialmente giurisdizionalista nella misura in cui la “libera chiesa” nel “libero stato” coincideva con una accezione protestante di chiesa ossia come un fatto individuale e privato della coscienza sicché lo Stato può, anzi ha il dovere, di normare unilateralmente i suoi rapporti con i singoli cittadini credenti. Fu questo il motivo per cui Pio IX non accettò mai la “legge delle guarentigie”, che era un atto unilaterale dello Stato italiano. Mussolini, accettando, invece, di trattare il Concordato, e quindi accettando la visibile corporeità sovranazionale della Chiesa, irriducibile allo status di mera associazione privata di fedeli, superava il giurisdizionalismo ottocentesco, senza per questo ricadere nel teocratismo pre-moderno, sicché è comprensibile che apparisse, secondo l’esatta dichiarazione di Pio XI, sovente storpiata, come “l’uomo che la Provvidenza ci ha fatto incontrare” (e non “l’uomo della Provvidenza”!).
19) Citato in A. Del Noce, “Fascismo e Antifascismo …”, op. cit. pp. 68-69. Si noti che il Croce non coglie per niente l’autentico significato della concezione cristiana della vita, la quale non è affatto una fuga gnostica dal mondo ma – essendo il Cristianesimo fede nella resurrezione della carne – il costante richiamo al fondamento trascendente, ed ultimo, della realtà mondana nella quale l’uomo è chiamato a vivere, certamente nella prospettiva escatologica ultraterrena ma proprio per questo, proprio traendo forza da questa speranza, per migliorare il mondo prima di entrare nell’Eternità. Anche l’eremita, anche il claustrale, hanno questa funzione e contribuiscono, con la preghiera, a migliorare il mondo. Al contrario, ridurre l’orizzonte umano al solo ambito mondano, toglie all’uomo ogni speranza anche mondana. Non a caso proprio nella società secolarizzata, venuta meno la speranza oltremondana, e morte le sue mistificazioni millenaristiche ed ideologiche che hanno creduto di trasporre sic et simpliciter la speranza sul solo piano mondano e senza riferimenti alla Trascendenza, sta venendo anche terribilmente meno ogni speranza di migliorare il mondo e, di conseguenza, trionfano il nichilismo, l’egoismo individualistico, il cinismo, mentre l’uomo cerca lo stordimento nell’ebbrezza di ogni esperienza trasgressiva e di rottura al fine di superare il non senso di una vita il cui fine sarebbe, secondo il liberalismo amato da Croce, nella vita stessa.
20) Non si dimentichi che una convinzione molto diffusa tra i nemici del Cattolicesimo, sin dai tempi della Rivoluzione Francese, era quella per la quale solo per il supporto del potere temporale, diretto ossia pontificio, o indiretto, ossia quello delle monarchie cattoliche, reggeva l’edificio della Chiesa, sicché abbattuto il potere temporale in tutte le sue forme – nel 1870 era stato abbattuto nella sua forma pontificia, quindi nel 1914 restava da abbatterlo nella sua forma residuale della monarchia tradizionale – la Chiesa stessa sarebbe crollata su sé stessa. I fatti hanno dimostrato la falsità di tale convinzione, dal momento che la Chiesa privata del potere temporale, sia diretto che indiretto, non è affatto caduta ma, anzi, sotto certi profili, è migliorata essendo diminuito in Essa, anche se non completamente scomparso, la tentazione clericale ossia quella del “governo dei preti”, dell’“affarismo simoniaco”. Ne poteva essere altrimenti dato che la Chiesa è fondata da e su Gesù Cristo e non dallo e sullo sforzo organizzativo umano.
21) Scrive, in proposito, Augusto Del Noce: «Si era ragionato allora, da parte cattolica, così: “Il fascismo è una pura forza che nasce dalle contraddizioni intrinseche allo spirito moderno, in quanto esso ha significato una ribellione contro la Chiesa cattolica. Queste sue origini lo inclinano contro gli avversari stessi della Chiesa cattolica, quegli avversari che allora solevano essere riuniti sotto il termine generale di massoneria; seguendo la sua ispirazione l’interventismo rivoluzionario italiano aveva impostato la guerra come rivoluzione contro le sopravvivenze in Europa del Medioevo, contro l’impero austriaco e contro la Chiesa cattolica. Ora questo stesso interventismo rivoluzionario in seguito alle delusioni conseguenti al trattato di Versaglia, ha rotto con la forza di ispirazione massonica, ed è portato in definitiva, a incontrarsi con l’interpretazione cattolica della storia moderna”. Non si trattava di un parere peregrino, giacché Sorel (il “padre francese” del sindacalismo rivoluzionario, nda) scriveva il 28 settembre 1919: “Non mancano i motivi per credere che la massoneria abbia avuto una grande parte nei negoziati del 1915. Essa doveva sperare che una guerra tra l’Italia e l’Austria creasse alla Santa Sede tali imbarazzi da rovinare definitivamente il partito cattolico. Durante la guerra furono numerosi i processi contro preti accusati di disfattismo, nell’intenzione di sollevare contro il clero le passioni popolari. Ma una volta entrata l’Italia nella fornace, la massoneria non si è più occupata degli interessi della ‘giovane sorella latina’. Espressione della plutocrazia e della borghesia degli speculatori, la massoneria internazionale ha trattato l’Italia ‘come un vinto’”. (…). L’avversario storico del fascismo era dunque determinato dalla realtà effettuale stessa e coincideva con quello della Chiesa cattolica. Poco doveva dunque importare che alla testa di questa forza vi fosse chi tra i politici italiani dell’intervento era stato massimamente anticristiano, e alla creazione del cui mito aveva contribuito in maniera decisiva il più antivaticanista tra i movimenti letterari italiani, il futurismo (ricordiamo “Le monoplane du Pape” di Marinetti: mai l’opposizione fra la nuova civiltà di cui la macchina era il simbolo e l’antica, rappresentata dal Vaticano, fu portata oltre). Restava che la realtà di fatto costringeva questa forza a un’evoluzione. Si giunse così sino al relativo idillio degli anni 1931-38, in cui si poté veramente pensare, da una larga parte della cultura, al fascismo come introduzione alla restaurazione cattolica». Cfr. A. Del Noce “Fascismo e Antifascismo …”, op. cit. pp. 71-72.
22) Cfr. A. Del Noce “Fascismo e Antifascismo …” op. cit., pp.69-70.
23) Cfr. A. Del Noce “Fascismo e Antifascismo …”, op. cit., pp. 72-73.
24) Sempre Augusto Del Noce mette in evidenza, in proposito, come: «Nel 1940 il fascismo si trovò davanti al problema della scelta del modo della sua morte. Poteva infatti subordinarsi alla politica di pace di Pio XII, facendo dell’Italia il perno della fascia dei Paesi neutrali; in questo caso doveva però consentire a dissolversi tacitamente in una forza di altra natura. Poteva invece accettare di diventare uno strumento del nazismo. Tutte le ragioni di ordine politico militavano per la prima soluzione. La tendenza eversiva di Mussolini lo portò invece a un’alleanza che non si poteva chiamar tale, data la posizione di totale soggezione in cui il fascismo dovette collocarsi nei riguardi del nazismo». Cfr. A. Del Noce “Il suicidio …”, op. cit., pp. 355-356. Il giudizio delnociano va comunque mediato con altri apporti, quelli sopra da noi esposti in relazione alla conversione, ancora latente nel 1940, di Mussolini. Si può dire che in quel momento esistevano due Mussolini, l’uno totalmente preso dalla costruzione del culto idolatrico della sua personalità, e per questo motivo sempre più lontano dalla realtà al punto da non comprendere i rischi dell’alleanza con la Germania che pure, va debitamente riconosciuto, Francia ed Inghilterra fecero del tutto, con la loro politica ostile agli interessi italiani, perché si realizzasse, e l’altro segretamente attento ai movimenti della grazia nell’intimo del cuore ma non ancora sufficientemente aperto verso di Essa fino al punto da determinare scelte politiche diverse da quelle che fece il primo Mussolini.
25) Cfr. A. Del Noce “Fascismo e Antifascismo …” op. cit., pp. 75-76.
26) Il sedicente liberalismo cattolico, o cattolicesimo liberale, non ha maggiore consistenza teologica e filosofica di quanto non ne avesse il comunismo cattolico o il cattolicesimo comunista.

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