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Se manca la patria
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La magistratura scopre che due Generali della Guardia di Finanza prendono mazzette: e chi l’avrebbe mai detto? Meglio: la sanno anche i bambini. Ancora meglio: la polizia finanziaria, in Italia, è e resta un corpo militare (al contrario di quel che avviene in tutto il mondo civile) «apposta»: apposta per far paura, apposta per compiere atti d’arbitrio contro il contribuente (presunto evasore fino a che lui, l’accusato, non porti la prova contraria); le mazzette vengono come effetto collaterale. I politici hanno poi perfezionato il sistema, mettendo sullo steso piano il concusso e il corrotto, in modo che l’imprenditore costretto a pagare è imputabile come quello che, in divisa e pistola al fianco, gli chiede di pagare per aver (come dicono loro) «il condono tombale».

La magistratura finalmente scopre che Expo 2015 è in mano a una cupola degli appalti truccati; che l’impresa Mantovani ha ottenuto l’appalto più grosso (150 milioni) con un ribasso assurdo (–41,80%) per poi recuperare le somme «a colpi di varianti»? Ma signori, questo è quel che si fa da sempre per opere pubbliche di un certo peso...

La procura arresta tale Rognoni, ex direttore di «Infrastrutture Lombarde» ed altri suoi complici, con il sospetto che «gli indagati hanno già predeterminato l’“assegnazione di future gare” sull’Expo? Ma di grazia: a che altro scopo è stata creata «Infrastrutture Lombarde» se non per rubare, e favorire amici? Sotto questo ente sono stati messi tutti i beni della Regione Lombardia, migliaia di immobili di pregio, chilometri quadrati di terreni di valore, la Villa Reale di Monza, il grattacielo Pirelli, giù dall’ospedale di Niguarda fino alle Ferrovie Nord, proprio per sottrarre, al riparo di una gestione «pseudo-privatistica», ai controlli pubblici, specie della Corte dei Conti, le compravendite di questo ente. Specificamente: può vendere in perdita, ad amici che sceglie più o meno senza concorso, dei beni inestimabili che sono – in realtà – proprietà del popolo italiano, e del lombardo in specie.

L’Expo? Basta vedere quello che stanno realizzando per capire: non un guizzo non dico di gusto, un briciolo di cultura, ma di intelligenza architettonica: in Italia, Paese sparso di templi greci, di Pantheon romani, di absidi romaniche e di chiostri francescani, di Brunelleschi e di Bramante, del follemente fantastico Borromini, che cosa stanno facendo fra Rho e Pero? Un banale non-luogo come ne è pieno il mondo, un anonimo ed offensivo nulla fra svincoli stradali, che sembra (a voler essere buoni) una stazione ferroviaria di una sottoprefettura giapponese, un aeroporto neozelandese di secondo livello, una esposizione abbandonata nello Xinkiang... Il punto è che i caporioni hanno escluso previamente qualunque individuo di minima cultura, gusto e sapienza storico-artistica dal progetto: non volevano essere disturbati mentre si spartivano la torta. Del resto il grosso dello scopo vero dell’Expo lo avevano già raggiunto quando hanno espropriato i suoli: 160 e passa milioni dati a qualche amico che li aveva comprati prima; il resto, gli «spazi» e le «infrastrutture», sono tutto grasso che cola. Per gli amici.



E l’ex ministro del Governo Monti Corrado Clini, direttore generale dell’Ambiente? Aveva un conto cifrato in Svizzera, dove faceva confluire almeno un milione di soldi pubblici (soldi nostri, di noi contribuenti ritenuti evasori) destinati – tenetevi forte – a un piano di riqualificazione ambientale in Iraq. Con lui è stata arrestata la «compagna», una che era già andata sposa a un ex Ministro del Montenegro, e che lui aveva messo a fare la assessora a Cosenza (ovviamente all’Ambiente: i soldi non bastano mai). Ci volevano mesi di intercettazioni? Bastava vedere la foto della «compagna», per capire tutto: quelle, costano.

Oltretutto, nessuno che abbia fatto notare che il caso Clini mostra la totale fallacia dell’argomento tanto ripetuto: paghiamo tanto i nostri dirigenti pubblici (i nostri deputati, i nostri assessori regionali, eccetera) perché così non avranno la tentazione di rubare. No, è il contrario: più stipendi strappano, più hanno bisogno di rubare, più hanno necessità di mazzette: la vita dei ricchi con «compagna excort» è costosissima.

Come ho sempre sospettato: i ricchi faticano ad arrivare a fine-mese. Specie se pubblici parassiti con le mani nelle nostre tasche.


Corrado Clini con la compagna Martina Hauser


Vedete il caso di Giancarlo Galan, tre volte governatore del Veneto: la valorosa magistratura s’è accorta che «in dieci anni (dal 2001 al 2011) aveva guadagnato un milione e 413 mila euro e ne aveva spesi 2 milioni e 695 mila». Dieci anni, capite?, ci sono voluti. Contro noi comuni mortali, il Fisco ci è addosso appena comperiamo un’auto che, secondo loro, non è «congrua» con i nostri guadagni. A noi fanno i conti in tasca ogni minuto. A loro, dieci anni.

Ora la valorosa magistratura scopre che il MOSE di Venezia è un porcaio e un troiaio di politici a libro-paga, a stipendio fisso delle imprese, che ha quintuplicato il costo della «grande opera»: da 3700 miliardi di lire previsti nel 2001 (cifra già mostruosa, titanica) ai 5 miliardi e 267 milioni di euro di oggi. Questi si son divorati un bel tre miliardi di soldi nostri a forza dei soliti trucchi – falsi bandi col vincitore già deciso, aggiudicazioni a ribassi fasulli, poi varianti e mazzette – e ci se ne accorge solo adesso? Dopo 13 anni?

Insomma, la vera domanda è: perché adesso? Perché la casta togata agisce di colpo contro politicanti e farabutti così stupidamente arroganti da farsi scoprire come cretini? Beccare questa gente che straparla e vanta ai cellulari, che si compra ville che costano enormità, che mantiene delle «compagne» vistosissime e già passate per il letto di ministri montenegrini, non presenta alcuna difficoltà: spara anche a casaccio, e fai centro sicuro. È come andare a caccia in un allevamento di fagiani; che ti vengono a beccare in mano. Dunque: perché ora?

La risposta che mi dò, ovviamente complottista, è questa: perché ora che è tramontato Berlusconi, il Nemico del Popolo che «giustificava» gli strapoteri magistratuali (nessuno a sinistra poteva lamentarne gli arbitri, sennò veniva bollato come «amico del Cavaliere» agli occhi del suo elettorato, fieramente manettaro), la magistratura sa che per essa avvicina il momento di tornare nel quadro della decenza giuridica da cui è ampiamente strabordata con odiose carcerazioni preventive, intercettazioni a raffica, insindacabilità e impunità del fancazzismo generale che tanto vistosamente contrasta con l’iper-attivismo dei pochi procuratori-star: separazione delle carriere, responsabilità civile dei magistrati, magari qualche vera punizione per le continue e impunite violazioni del segreto istruttorio a favore di giornalisti «amici» del Fatto o di Repubblica, e qualche conseguenza su carriera e stipendio delle primedonne che si strappano le inchieste più mediatiche nella celebre Procura di Milano. Magari anche una riduzione degli stipendi più grassi d’Europa, perché no?

La magistratura vuole mantenere il suo potere indebito, gli stipendioni e gli avanzamenti automatici di carriera, insomma i privilegi e il potere d’arbitrio che sulla vita di tutti noi gli dà il fatto di aver «vinto o’concuorso». Sicché hanno fatto l’attacco preventivo, falcidiando i politici di un paio di porcilaie, con due intenti convergenti: da una parte mostrare «come sono utili», loro, gli unici a moralizzare la vita pubblica, tanto che nessuno pensi di tagliargli gli stipendi. Poi, ovviamente, intimidire i politici stessi, ché non osino varare leggi che rimettano la casta togata negli argini del diritto.

Basta vedere qualche giorno fa, quando la Camera ha approvato a sorpresa un emendamento della Lega sulla responsabilità civile dei magistrati (niente paura: verrà cancellata), e sùbito la Casta giudiziaria a strillare, per tramite di interviste sui giornali «amici»: ecco, «puniscono le guardie al posto dei ladri!». Per fare prima, copio e incollo un titolo del loro organo sindacale e di partito, Il Fatto Quotiano

Responsabilità civile, la rivolta dei magistrati. «Norma punitiva, giustizia a rischio»

L’emendamento leghista approvato alla Camera provoca la dura reazione delle toghe. Lupo (Cassazione): “Minata l’indipendenza dei giudici”. L’Anm studia iniziative di protesta. Il segretario di Magistratura indipendenteCosimo Ferri annuncia mobilitazioni che potrebbero arrivare alla “paralisi delle udienze”.

Benissimo: gli Incorruttibili, i purissimi arcangeli della Giustizia scioperano con metodi e modi arroganti identici ai dipendenti comunali di Roma, che pochi giorni prima hanno paralizzato la capitale. Che gente siano i comunali romani, lo ha scritto Sergio Rizzo: «Se si eccettuano Poste e Ferrovie, il Comune di Roma è la più grande azienda italiana. Paga circa 63 mila stipendi. I dipendenti comunali sono 26.207. A questi vanno sommati i 37 mila delle partecipate, un delirio di un centinaio di società. Per un costo del lavoro complessivo di due miliardi e mezzo l’anno. Parliamo di un numero di dipendenti più che doppio rispetto a quello degli operai Fiat in Italia. Senza che però a tali imponenti dimensioni corrisponda una qualità dei servizi altrettanto imponente». E cita il caso degli «uffici del nono Dipartimento comunale», dove chi deve fare un aggiornamento catastale può consultare i vecchi progetti. Accolgono «trenta pratiche al giorno». Chi ha bisogno di quel servizio deve mettersi in coda la notte, a Pomezia a 30 chilometri da Roma, perché l’ufficio non accetta nemmeno prenotazioni via internet.

Questi farabutti e mascalzoni, fancazzisti coi soldi nostri, metà da semplicemente licenziare, «hanno paralizzato la capitale»: «No ai tagli!», il loro grido. Insomma hanno paura, come la casta, come un po’ tutti i tre-quattro milioni di parassiti pubblici, che sia venuta l’ora di soffrire il comune destino degli italiani che arrancano, che non ricevono aumenti da anni, anzi che accettano tagli salariali del 15% o contratti di solidarietà per scongiurare licenziamenti di colleghi, e che sgobbano ancor più di prima per far andare avanti la baracca, per non far chiudere l’azienda: e non vogliono. «No ai tagli!», a loro. I tagli, se li becchino gli altri; loro, anzi, vogliono gli aumenti. E senza nemmeno, al Nono Dipartimento, accettare 40 pratiche al giorno invece di 30.

Questi sono tre-quattro milioni, aggiungiamoci le migliaia di parassiti imbucati dalle Regioni specie del Sud (la magistratura, chissà perché, si occupa degli scandali del Nord, preferisce); sono la causa primaria della decadenza dei Paesi, dalle scuole sfornano analfabeti, intralciano in ogni modo l’attività economica privata, impongono migliaia di «adempimenti» che sono poi solo questo: imporre ai cittadini di fare il lavoro che loro non vogliono né sanno fare, rovesciano il principio del diritto elementare dell’onere della prova (loro accusano, dimostra tu che sei innocente: fa’ tu la fatica, mentre io vado a prendere il cappuccino coi colleghi).

Sono un blocco sociale temibile, potente, numeroso con le famiglie ovviamente interessate ai privilegi del parassitismo pubblico che si è già messo in guerra: guerra preventiva, contro il resto della popolazione. Quella che gli paga, con le tasse, gli stipendi.

Succede dunque questo: l’Italia subisce effettivamente una guerra, l’euro forte, la tassazione predatoria e persecutrice, l’eurocrazia occhiuta che vieta tutto, perde in un anno 120 mila imprese che nemmeno un bombardamento anglo-americano del 1940, subisce e fatica — e per giunta, si avvicina la disfatta. Ma le guerre vere hanno almeno un beneficio: che induriscono la volontà collettiva, ognuno si sente impegnato a partecipare allo sforzo e al sacrificio comune di fronte al comune pericolo. Per ogni soldato al fronte ci sono mamme e sorelle che fanno scaldini e calze di lana, scolari che bussano alle porte per vendere le cartelle del Prestito della Vittoria; ci sono chimici che si ingegnano di inventare esplosivi, operaie che sostituiscono gli uomini e fanno i turni di notte, suore che pregano per i combattenti, ognuno come può e sa, contribuisce alla lotta.

Da noi no. C’è una guerra, ma un potente corpo sociale pubblico non pensa ad altro che a conservare i propri privilegi, ampliare i propri poteri, difendere il proprio egoistico tran tran corporativo, aumentare le occasioni di arricchimento personale – rubando il denaro dei combattenti – ai livelli più scandalosi. C’è la guerra e la stiamo perdendo, ma loro non la fanno; anzi ostacolano e tormentano quelli che hanno mandato allo sbaraglio, come i pidocchi nelle vecchie trincee. C’è la guerra, ma loro non vi prendono parte — e sono proprio quelli che comandano, o dovrebbero comandare. Invece di distribuire medaglie, ordinano accertamenti fiscali e studiano nuove esazioni per mantenere i loro emolumenti.

Questo fa risaltare ancor peggio la fallacia del totalitarismo giustizialista, che è il vizio mentale professionale della magistratura (e dei manettari). Il delirio di sostituire i politici corrotti coi giudici (che non sono meglio), fa il paio con il proposito euro-massonico di espropriarli della sovranità, del potere discrezionale che devono esercitare per delega. Nell’uno e nell’altro caso, è l’utopia dell’abolizione della categoria del Politico rimpiazzandola con «norme», «legalità», meccanismo anonimi, abolizione delle decisioni discrezionali sostituite con piloti automatici, divieti di aumentare il deficit scolpiti nella Costituzione, la moltiplicazione degli ascolti e intercettazioni, la richiesta imperiosa di «più poteri ai giudici», fino a mettere un procuratore a fianco di ogni assessore, ministro, governatore... tutto vano e vacuo, perché non si vuol riconoscere il «quid che manca». Quel quid che dovrebbe trattenere il direttore generale Clini di fregarsi quei certi milioni; quello che manca ai Galan, ai Bersani, ai Formigoni e ai Milanesi e a tutta la cosca, ormai da troppi anni assuefatta a ridurre «l’attività politica» alla pretesa di «finanziamenti», senz’altro orizzonte.

Quel «quid» che obbliga a rispettare il denaro dei contribuenti concittadini, è in fondo un «quid» evanescente. Ha un nome così fuori moda che ci si vergogna a pronunciarlo: l’amor di patria. Senza quello, l’attività legislativa diventa quel che vediamo all’ultimo, putrefatto stadio: le «normative» che legalizzano il malaffare. Sono espressioni «legali» di autonomia gli scandalosi furti e favoritismi delle Regioni meridionali che nulla riesce a frenare, «legale» la pensione di 30 mila euro mensili per Giuliano Amato, «diritto acquisito» l’automatismo delle carriere giudiziarie, l’impunità, gli stipendi più grassi d’Europa, i «premi di produzione» ai dipendenti pubblici che producono nulla, il «canone Rai», fate voi qualche altro esempio. Appena si prova a ridurre a qualche casta un minimo indebito privilegio, spingere a lavorare in fancazzisti, ecco il ricorso al TAR: e questo conferma il privilegio e l’indebito beneficio, perché è «legale», garantito di sicuro da una qualche legge. La responsabilità dei giudici è vigente in tutta Europa, e la UE ce la chiede. Ma appena si prova ad applicarla qui, i nostri più eurofili magistrati vi scorgono «profili di incostituzionalità»: pronti ad impugnarla davanti alla Corte Costituzionale, che essendo ormai il loro sindacato di categoria, gli darà sicuramente ragione, dichiarando «illegale» il provvedimento.

Se non si riesce a ristabilire una «cultura della patria» nell’alta dirigenza pubblica, anche a costo di mettere un giudice alle costole di ogni grand commis si otterrebbe poco: magari i due si mettono d’accordo per rubare e spartirsi il bottino, come pare sia accaduto attorno al MOSE, e anche allo scandalo-predazione della Carige di Genova.

Come si crea un popolo?

Converrete con me che creare una «cultura della patria», in un Paese che è stato un’espressione geografica per secoli, che ha visto la «morte della patria» l’8 settembre del ’43, da troppo tempo abituato a lasciarsi opprimere da chi «non deve» comandare, e che oggi ha perso giustamente ogni briciolo di rispetto per l’autorità, e ha smarrito la minima nozione di «bene pubblico», è già difficile. Più precisamente, non si sa come affrontarlo. Simone Weil si pose il problema su incarico di De Gaulle dopo la ritirata dell’occupante tedesco: come ricostruire il popolo francese, demoralizzato dall’occupazione straniera, e abituato alla illegalità considerata meritoria, resistenziale?

«Il problema di un metodo capace di ispirare un popolo – scriveva Simone – è un problema completamente nuovo. Platone vi allude nel Politico e altrove; senza dubbio esistevano degli insegnamenti nelle dottrine segrete dell’antichità, che sono scomparse. Forse ci si occupava ancora di questo problema negli ambienti dei templari , ma Montesquieu, salvo errore, lo ha ignorato. Rousseau ne ha riconosciuto l’esistenza, ma non è andato oltre. Pare che i rivoluzionari del 1789 non l’abbiano nemmeno intravisto. Nel 1793, senza essersi curati di porlo, e ancor meno di studiarlo, si sono improvvisate alcune soluzioni affrettate: feste dell’Essere Supremo, feste della Dea Ragione. Sono state soluzioni ridicole e odiose. Nel diciannovesimo secolo, il livello delle intelligenze era sceso ben al disotto dell’ambito nel quale problemi simili possono venir anche solo formulati».

Se il livello delle intelligenze non era più in grado di porsi il problema allora, figuratevi nel ventunesimo secolo. Infatti tocca ricevere commenti come questi, di «Sergio 64»,

«Stiamo affondando, e una possibile alternativa politica (il M5S) è appena stata uccisa nella culla. Persino il direttore Blondet ha avuto un atteggiamento contradditorio nei confronti di Grillo: prima ha invitato a votarlo per sbarrare il passo al TTIP, poi dopo le elezioni ha commentato: è normale che abbia vinto Renzi, era l’unica offerta politica comprensibile. Sarà, ma avrei voluto vedere gli sviluppi di una situazione di questo tipo: M5S al 41%, e PD al 21... Che importa se l’ìacqua dello sciacquone non è potabile? almeno la feccia procede nella fogna! E poi forse saremmo andati alle elezioni anticipate, il M5S avrebbe vinto di nuovo, avremmo avuto gente pulita in parlamento e al governo delle grandi città... chissà. E invece siamo tornati a bomba, Renzi proseguirà le stesse politiche economiche di Monti e Letta, solo con un maggior appeal televisivo. Che la festa cominci... P.S.: dopo quanto è successo negli U.S.A. nel 2000, e in Italia nel 2006, non me la sento di escludere che ci siano stato dei brogli. E ora datemi pure del complottista.

O quest’altro di «albertogas»

«per prima cosa Renzi non fa le riforme (lo si sapeva) per cui per me vige il detto: chi sbaglia a votare non si deve lamentare».

A questi lettori, palesemente grillini coi vizi mentali del grillonismo, tocca rispondere con un richiamo alla realtà: appena si è parlato di tagliare 150 milioni alla tv di Stato, intollerabile cosca da riformare da capo a piedi, i grillini hanno votato contro: esattamente come il sindacato giornalisti rossi dell’USIGRAI che voleva fare sciopero a difesa della Casta del video. Questa difesa della casta è un riflesso condizionato della sinistra: no, caro albertogas, abbiamo visto che il 5 Stelle non le vuole fare. Dice: «Dateci il 100 per cento dei voti e facciamo noi»: questo è non solo totalitarismo da bar, è anche la scusa per non fare niente, visto che il 100 per cento non lo avrete mai. Vogliamo elevare per favore il livello delle intelligenze?

Albertogas «lo sapeva» che Renzi «non fa le riforme». Per come la vedo io (che non ho votato Renzi), egli è invece il primo politico che enuncia coscientemente la necessità di fare «le riforme»: parola che pudicamente sottintende il rimettere in riga la pubblica Amministrazione debordante e inefficiente, corrotta e pletorica. Se Renzi «non farà le riforme», è vile dire che «lo si sapeva»: Fare «le riforme», quel genere di riforme, è difficile. È pericoloso, ci si scontra con un corpo sociale potente, determinato a difendere con le unghie il suo parassitismo, tanto numeroso da costituire un blocco di voto che fa paura a tutti i politici da quattro soldi, che ha dalla sua gli organi e gli apparati pubblici, ha in mano le leve di funzionamento dello stato ed infiniti trucchi per annullare ogni riforma con inghippi e complicità. Pensate solo alla difficoltà di disciplinare il «finanziamento pubblico ai partiti» (che continua a correre), o alla modifica dell’Articolo 5 della Costituzione, quello che ha trasformato le Regioni in fontane di denaro pubblico da rubare a secchiate, senza controllo, e alla cui mammella sono appesi centinaia di migliaia di parassiti.

Fare le riforme – quelle riforme che Matteo Renzi è il solo ad aver avuto il coraggio politico di dichiarare che le farà – è quasi impossibile. Di solito, nei Paesi civili, «riforme» così si devono fare con grandi maggioranze, con convergenze di maggioranza ed opposizione, quasi Governi di unità nazionale, dove ciascuna delle parti si accolla la sua porzione di impopolarità, di attacchi e ricatti dei poteri castali, e perdite condivise di soldi rubati. Naturalmente, appena si è profilato il (necessario) patto fra il PD di Renzi e il Polo di Berlusconi, i grillini che hanno fatto? Hanno strillato e denunciato l’inciucio. Comodo, vero?

L’alternativa – ovviamente – era facile da adottare: il 5 Stelle si metteva con il PD per «fare le riforme» , sbattendo fuori il berlusconismo, e condizionando le riforme, dettando o contribuendo a dettare come e quali fare. Ma che cosa fa il Grillo con tutto il suo grillume? «No, noi non ci alleiamo con nessuno. Noi siamo i puri e non facciamo inciuci. Noi abbiamo l’intera verità, sicché voi dovete diventare tutti grillini, accettare il nostro programma al 110 per cento, leccarci gli stivali, e poi, forse, ci alleeremo. Forse».

Comodo, poi, dire: Renzi non fa le riforme, e «si sapeva». Ovviamente, Berlusconi è ormai un mozzicone spento, e sta togliendo a Renzi l’appoggio «per le riforme», non è all’altezza minima di capire l’elementare convenienza politica; ovviamente il PD si sfascia «sulle riforme», parlamentari piddini si autosospendono, vogliono ridiscutere tutto, fanno mancare la maggioranza — ed è logico, perché il PD è ormai da decenni il partito di riferimento della Caste e cosche pubbliche, ed è difficile andare contro il proprio elettorato, quando non si ha un senso della patria comune . Renzi, se non farà le riforme, sarà anche per colpa vostra, grillini. Di voi si dirà: «… il livello delle intelligenze era sceso ben al disotto dell’ambito nel quale problemi simili possono venir anche solo formulati».

Sergio64, rilegga la propria lamentosa lettera: è un condensato di tutti i disturbi che si contraggono a frequentare il blog di Grillo, e conferma – al di là delle sue intenzioni – i motivi per cui il grillismo non ha vinto. Per esempio:

«Persino il direttore Blondet ha avuto un atteggiamento contradditorio nei confronti di Grillo: prima ha invitato a votarlo per sbarrare il passo al TTIP, poi dopo le elezioni ha commentato: è normale che abbia vinto Renzi, era l’unica offerta politica comprensibile».

Ciò che chiami «atteggiamento contraddittorio» di un elettore, carissimo, è «revisione del giudizio»: visti all’opera i votati del movimento, e le uscite di Grillo-Casaleggio, ho corretto e peggiorato il giudizio su di loro. Vi rendete conto? Se fosse stato per voi (grillini), avremmo presidente della Repubblica Rodotà, o Dario Fo. E io dovrei giurarvi eterna fedeltà attraverso tutte le vostre ridicole improvvisazioni?

Di grazia: perché vi credete in diritto di pretendere da me, Blondet, obbedienza cieca pronta e assoluta? Ho capito che non vogliono e non sanno fare nulla, men che meno le riforme («quelle» riforme), al massimo la lotta agli inceneritori, il tutti in bicicletta, e la proposta di stampanti 3D per fare dentiere. Ma le riforme, quelle riforme, non le possono fare perché altrimenti, appena si provano a decidere qualcosa, perdono una parte del loro elettorato. Vedete la canea sull’alleanza con Farage: «Ma è omofobo! È xenofobo! È liberista! Meglio i Verdi!». Signori: tutte queste sono le tipiche accuse dei media del sionistrume, imbeccato dai Barroso e van Rompuy — e voi grillini siete sempre i primi a cascare nella trappola dei tabù di massa e del politicamente corretto dettato dai poteri forti. Ma anche se Farage fosse «omofobo»: i vostri 17 si sono fatti mandare in Europa per difendere i matrimoni gay, oppure per formare un decente gruppo contro l’eurocrazia? Non è già abbastanza difficile, con l’obbligo di radunare, per formare un gruppo, delegati di 7 Paesi, senza che i grillini del web si mettano di mezzo a fare gli schifiltosi?

Mica dovete adottare il programma di Farage; dovete solo capire chi è il «nemico principale» (lui l’ha capito), e combatterlo con lui, se credete che sia anche il vostro. Chi di voi vuol andare coi verdi, sceglie degli ultra-euro-entusiasti; e per di più si trova a fianco di Cohn Bendit, un dichiarato pedofilo...

Il lettore grillino sogna ad occhi aperti, immaginando il contrario della realtà:

«...M5S al 41%, e PD al 21... poi forse saremmo andati alle elezioni anticipate, il M5S avrebbe vinto di nuovo, avremmo avuto gente pulita in parlamento e al governo delle grandi città... chissà».

Chissà, sospira lui nostalgico. Le persone sensate invece, sanno benissimo quel che sarebbe avvenuto se il 41% avesse dato il voto al M5S: che oggi saremmo lì col fiato sospeso ad assistere allo psicodramma di quella «gente pulita» sul blog: «Andiamo con Farage!», «No, andiamo coi Verdi!» – ossia ci troveremmo ad aver dato il nostro voto a dei pro-euro pedofili, credendo di aver votato per un programma anti-eurocrazia. A non sapere quale politica si vuole fare, accade che la gente se ne accorge e non vi vota.

Ma no: il nostro Sergio grillino esala l’altro delirio grillesco:

«Non me la sento di escludere che ci siano stato dei brogli. E ora datemi pure del complottista».

Giusto per dare la colpa della propria inettitudine a qualcun altro: sempre lì siamo, ed è questo che fa più paura: la ricerca dei «sabotatori», come dei «traditori interni», dei «deviazionisti dalla linea» è una cosa tipica dello stalinismo.

Per fortuna, manifestate questo vizio prima di prendere il potere, così ci mettete sull’avviso. Dorma e sogni, caro amico.



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