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Risorgimento?! (parte I)
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Appunti per una riflessione storico-filosofica a disincanto di una mitologia civile

Un’orgia di retorica

Abbiamo iniziato a scrivere queste riflessioni il 17 marzo mentre fuori infuriava non solo il vento, che soffiava forte, quel giorno, dalle nostre parti, ma anche l’orgia di retorica che sta accompagnando queste celebrazioni della presunta unità, invero unificazione, d’Italia. Non altrimenti che orgia di retorica, infatti si può chiamare una celebrazione civile che è costruita su una consapevole mistificazione della storia. Una mezza verità è sempre in realtà una mezza bugia.

Ricordare, come si va facendo, le sole ragioni di chi il processo unitario nazionale lo ha prima sviato e poi attuato in modo sovente criminale è mistificante non solo rispetto alla verità storica ma anche rispetto al diritto di informazione dei cittadini italiani. Nessuno spazio è stato lasciato, dall’organizzazione ufficiale del rito civile del 17 marzo, alle ragioni dei vinti. Queste hanno trovato memoria, ma fuori dai canali ufficiali, solo per merito di alcuni studiosi e pubblicisti di varia provenienza, non cattolici come Pino Aprile (Terroni) e Giordano Bruno Guerri (Il sangue del sud) e cattolici come Angela Pellicciari (Risorgimento da riscrivere), Francesco Mario Agnoli (Scristianizzare lItalia - Potere Chiesa Popolo, 1881-1885), Paolo Gulisano (O Roma o morte - Pio IX e il Risorgimento) e Franco Cardini (si vedano i suoi vari interventi in argomento su www.francocardini.net).

A parte il caso di Cardini, questi studiosi non sono generalmente storici cattedratici e per questo sono stati snobbati dalla consorteria accademica, in particolare da quella della scuola torinese, il club accademico azionista fondato da Bobbio, Galante Garrone e Galasso. L’ultimo rampollo di detta scuola, Sergio Luzzatto, da Gad Lerner, in TV, ha rimproverato la sua parte accademica perché, a suo dire, sta ripetendo lo sbaglio già fatto con Pansa a proposito del sangue dei vinti ossia quello di lasciare trattare questioni delicate, per la storiografia ufficiale, da dilettanti, privi di titoli accademici, con la conseguenza di concedere spazio ai peggiori. Sì, ha detto proprio così: i peggiori. Spocchia accademica di un personaggio che quando, a proposito delle stimmate di padre Pio, che lui sostiene essersi il frate procurato artificialmente, è stato confutato da due giornalisti, che documenti alla mano hanno dimostrato che l’interpretazione di Luzzatto, di detta documentazione, è una forzatura faziosa, altro non ha saputo opporre che il suo titolo accademico contro il dilettantismo dei suoi detrattori. Giustamente c’è chi ha fatto notare agli storici accademici, i quali con un risolino beffardo rimproverano gli studiosi revisionisti di raccontare circa il Risorgimento fatti ben noti agli addetti ai lavori, che se quei fatti, tragici e tali da gettare ombre ignominiose sul processo unitario, pur noti, non sono mai stati divulgati nei libri di testo delle scuole o nei media, sicché gli italiani ne sono all’oscuro, la responsabilità è proprio degli storici professionisti che hanno preferito obbedire alla religione civile risorgimentale.

E’ stata proprio il silenzio degli addetti ai lavori a consentire e legittimare la retorica dei promotori, Giorgio Napolitano, Carlo Azeglio Ciampi, Giuliano Amato, di un centocinquantenario che, nonostante decenni di seri studi revisionisti (e la storia, a meno di non volerla museificare, è di sua natura sempre revisionista), non hanno saputo far altro che riproporre una vulgata da libro Cuore e da inno di Mameli (il quale, tra l’altro, decanta una fratellanza che non era né nazionale né cristiana: i fratelli dItalia cui si riferiva Mameli erano i fratelli di loggia), senza un minimo di approccio critico e problematico ai fatti di un secolo e mezzo fa.

In verità, se non fosse perché esiste attualmente il problema politico della Lega nessuno si sarebbe accorto dei 150 anni dalla nascita, non dell’Italia ma, dello Stato unitario. Ora, la Lega è nient’altro che un movimento di partite IVA e di protesta fiscale. Legittimo, sia ben chiaro, ma tale essa era alle origini e tale in fondo rimane nonostante che strada facendo abbia cercato di darsi uno spessore culturale, celtico, neopagano, cattolico tradizionalista, a seconda dei casi e delle opportunità politiche del momento. Da ultimo, per bocca di Bossi in persona, la Lega è diventata cavouriana, con riferimento al progetto iniziale, che gli accordi sabaudo-piemontesi del 1859 contemplavano, della costruzione di un Regno del Nord Italia inserito in una confederazione nazionale ricomprendente anche un Regno del Centro Italia ed uno del Sud.

Due meriti, però, bisogna riconoscere alla Lega: il primo è quello di aver indirettamente ridato spazio e visibilità a problemi storici antichi, come il contraddittorio processo risorgimentale, sempre ignorati, salvo tra gli addetti ai lavori, riaprendo territori di critica culturale anche per i movimenti autonomisti neoborbonici che, da sempre presenti nel meridione, stanno oggi vivendo una rinnovata stagione di più esteso consenso popolare; il secondo è quello di aver costretto la sinistra ad invocare, sia pure strumentalmente, valori un tempo ritenuti reazionari e di destra, come Dio, patria e famiglia. Si pensi, per esempio, ad un Benigni che da qualche anno va declamando la Divina Commedia di Dante e da ultimo, a Sanremo, ha inneggiato alla patria risorgimentale. Aspettiamo ora che, in opposizione allo stile da puttaniere gaudente di Berlusconi, Benigni faccia anche l’apologia della famiglia.

Italia
/Italie

Noi amiamo l’Italia. La amiamo davvero e non al modo dei risorgimentali. Amiamo l’Italia perché da questa terra si è diffusa in tutto il mondo la luce della fede cristiana, che qui ha il suo centro in Roma, e con la fede la grande cultura universale erede di quella antica romana. L’Italia, proprio perché portatrice dell’universalità cristiana, è stata molto più grande prima che trovasse l’unità statuale che dopo: basta pensare che nelle corti rinascimentali la lingua dei dotti, insieme al latino, era l’italiano e che i maggiori geni dell’umanità sono italiani. Per non parlare del suo patrimonio letterario ed artistico che – nessuno può negarlo – è universale perché espressione, perlomeno per quel che riguarda gli ultimi 2.000 anni, della fede cristiana. Ecco perché si prova un moto di sdegno quando ci si imbatte nella presunzione risorgimentale del fare lItalia e, dopo di essa, gli italiani. L’Italia esisteva da secoli, come cultura e quindi, pur nell’articolazione localistica e statuale, anche come nazione o comunità di nazioni. In un certo senso, infatti, un tempo si poteva parlare anche per l’Italia, al modo della Spagna, di Italie al plurale piuttosto che di Italia al singolare. L’Italia esisteva ben prima che Cavour, Mazzini, Garibaldi e soci ne realizzassero – si badi bene – la mera unificazione statuale. Ed esistevano già da secoli anche gli italiani, nelle peculiarità delle loro storie regionali. In realtà, l’Italia alla quale i risorgimentali pensavano era che una nazione “nuova” ossia avulsa dalla sua storia e, soprattutto, dalla sua identità religiosa vero fondamento unitario della multiforme identità italiana. Era, quella sognata e realizzata dai risorgimentali, l’Italia astratta dell’ideologia illuminista e giacobina. Non l’Italia reale.

In effetti, l’Italia più che un processo unitario, che, se realmente tale, avrebbe avuto il significato di un federarsi in una unità più ampia delle diverse realtà italiane già esistenti, ha subito nel XIX secolo un processo di unificazione statuale manu militari.

Le insorgenze antifrancesi

L’Italia pre-unitaria non era affatto priva di aspirazioni verso una unità anche politica, che evidentemente non poteva non essere confederale dal momento che pluralistica era la stessa storia della penisola. Del resto, l’unità politica per via confederale è stata con successo perseguita in altre situazioni – sebbene non senza travagli – come quella svizzera o quella tedesca, che pur, nel caso tedesco, ha visto protagonista uno Stato-guida, la Prussia, il quale, come il Piemonte in Italia, si pose alla testa del processo unitario ma, a differenza di quanto accaduto nella nostra penisola, senza debellare le realtà pre-esistenti: tanto è vero che gli antichi regni germanici, come la cattolica Baviera, continuarono ad esistere, dotati di una certa autonomia, fino al 1918, anno del crollo del Reich guglielmino e che tuttora la Germania è uno Stato federale.

Quando i francesi, guidati da Napoleone, invasero l’Italia nel triennio 1796-99 trovarono ovunque una forte resistenza delle popolazioni, che insorsero e momentaneamente, nel 1799, riuscirono a ricacciare gli invasori d’oltralpe insieme ai loro collaborazionisti locali. Quest’ultimi, generalmente intellettuali aristocratici o borghesi, si erano messi al servizio degli stranieri nell’illusione di fare quell’Italia astratta di cui si diceva, dando vita, sotto protezione delle armi francesi, ad una serie di vassalle repubbliche giacobine. Prive di effettivo consenso popolare, come ammise con intelligenza il pur filo-francese Vincenzo Cuoco, queste repubbliche collaborazioniste crollarono subito sotto l’urto dell’insorgenza popolare non appena l’esercito francese fu costretto a ritirarsi, salvo tornare a ricostituirsi quando, per le conseguenze degli sviluppi militari in Europa, l’esercito d’oltralpe riconquistò la Penisola. Quella delle insorgenze popolari antigiacobine (impropriamente dette tali perché nel 1796 la fase effettivamente giacobina della Rivoluzione Francese era già stata, da un pezzo, archiviata con il suo retaggio di sangue e terrore: tuttavia anticristiana rimaneva l’ideologia esportata dalle armi francesi) è una delle tante pagine di storia censurate dall’ufficialità e che solo di recente, per merito di quegli studiosi revisionisti snobbati dagli accademici, è tornata ad essere considerata.

Bisogna, però, stare attenti a non cadere nell’uso ideologico che di detta storia è fatto da certa destra che legge la questione in chiave pliniana come dialettica tra la Rivoluzione e la Controrivoluzione (1). In realtà, nelle insorgenze antifrancesi agivano una serie di motivazioni tutte di eguale rilievo: da quella religiosa a quella identitaria, da quella legittimista a quella sociale. Sarebbe un grande errore leggere le insorgenze come una resistenza soltanto legittimista o soltanto in difesa degli assetti sociali feudali, come fa quella destra controrivoluzionaria di cui sopra. Un errore speculare a quello che la storiografia ufficiale ha fatto interpretando le insorgenze, prima, ed il brigantaggio post-unitario, poi, come rivolta di masse ignoranti, strumentalizzate dai nobili e dai preti, finalizzata a ristabilire l’Ancién Régime. Nelle insorgenze le motivazioni religiose, fortissime, a fronte della politica scristianizzatrice degli invasori, più tra i ceti popolari, sia urbani sia rurali, che non tra quelli aristocratico-borghesi, si univano a quelle sociali che non coincidevano affatto con la difesa sic et simpliciter dell’assetto feudale ma con la difesa delle terre demaniali comuni e dei diritti comunitari sulle terre, signorili ed ecclesiastiche, come anche, nelle città, delle corporazioni e dei proto-sindacati, contro le privatizzazioni terriere e la distruzione dei vincoli solidaristici che, nell’Ancién Régime, ponevano un freno all’individualismo di mercato. L’ideologia privatizzatrice portata dai francesi, invece, arrecava vantaggio proprio alla nobiltà, che in tal modo si liberava degli atavici pesi comunitari sulle proprie terre, ed alla borghesia interessata a riforme fisiocratiche ossia liberiste. Naturalmente, anche questa lettura è, come tutte, non assoluta, perché non sempre nobiltà e borghesia accolsero serenamente i francesi - altri motivi come quelli legittimistici agivano – ma è senza dubbio vero che, generalmente, i ceti superiori finirono per accomodarsi al nuovo stato di cose (2).

Ora, una conseguenza di quelle insorgenze antifrancesi, misconosciuta dalla storiografia ufficiale, fu l’emergere di un sentimento nazionale unitario di tipo confederale e tradizionale in opposizione a quello centralista e rivoluzionario giacobino. Se è vero che la bandiera tricolore italiana nacque nel 1797 come emblema della Repubblica Cisalpina (che aveva fagocitato per ordine di Napoleone l’altra Repubblica fantoccio creata dai francesi, ossia la Cispadana) modellato sul tricolore francese, di radici massoniche, e che pertanto i colori teologali, bianco/purezza, verde/speranza, rosso/carità, nulla hanno a che fare realmente con la nostra bandiera nazionale, con buona pace di Roberto Benigni e di Antonio Socci, è altrettanto vero che dalle mille bandiere tradizionali degli insorgenti, generalmente gigliate o coronate o crociate o ancora mariane, sorse un diffuso sentimento di identità nazionale popolare che, purtroppo, non trovò colui che fosse in grado di catalizzarne l’energia storica.

Di questo sentimento nazionale popolare antirivoluzionario si resero conto le più belle intelligenze dell’epoca. Se ne rese conto, ad esempio, un cardinale Fabrizio Ruffo che lungi dall’essere il mostro tramandato dalla storiografia rivoluzionaria fu un grande riformatore sociale, prima al servizio di Pio VI, sperimentando riforme agrarie, a mezzo dell’enfiteusi perpetua, favorevoli ai contadini, e poi del suo re, Ferdinando IV (Borbone), nella fabbrica reale di San Leucio, vero modello di socialismo con tanto di case e di assistenza sociale per gli operai. Il Ruffo comprese che le popolazioni meridionali erano favorevoli alla monarchia riformatrice, ed antinobiliare, dei Borboni e che la collaborazionista Repubblica Partenopea, che in verità non governava se non Napoli e dintorni, non aveva basi popolari. Questa mancanza di consenso popolare fu la causa del crollo della Repubblica e del travolgente successo dell’armata della Santa Fede del Ruffo. Il quale però avrebbe voluto costituzionalizzare la monarchia borbonica e per questo tentò di salvare la vita dei giacobini napoletani, che costituivano l’intellettualità della nazione, per utilizzarne le competenze nel suo ardito progetto politico. Ma quei giacobini rifiutarono l’offerta di protezione del prete fidandosi di quella dell’ammiraglio Nelson che, invece, tradendo la parola data, li impiccò tutti al pennone della sua nave (3).

Il diffuso sentimento nazionale popolare fu intuito anche dallo sfortunato generale Giuseppe Lahoz, o La Hoz, un giacobino italiano inizialmente arruolatosi al servizio dei francesi. Il Lahoz, che faceva parte di una società segreta detta dei Raggi, di fronte all’evidenza dell’insorgenza popolare antifrancese, comprese che l’Italia reale, quella vera, era quella degli insorgenti e non quella delle fumose utopie massoniche. Cambiò così fronte e, forte della sua perizia di uomo d’armi, diventò uno dei più abili organizzatori dell’insorgenza nel centro Italia, riuscendo a creare, chiamando a raccolta le principali bande insorgenti, un vero e proprio esercito che egli, significativamente, chiamò pontificio, imperiale e reale, unendo in tal modo nel suo motto di guerra le tre legittime autorità, religiose e politiche, del tempo, intorno alle quali si andava, come comprese, coagulando il sentimento unitario nazionale, ma tradizionale, delle popolazioni italiane. Il Lahoz, probabilmente, avrebbe potuto essere l’uomo capace di catalizzare le masse popolari verso un altro risorgimento, in quel momento possibile, in funzione antifrancese, in analogia a quanto avvenne in Germania. Purtroppo cadde, colpito a morte, durante l’assedio di Ancona, dove si erano asserragliati i francesi, forse tradito da uno dei capimassa (4).

«Le insorgenze è stato osservato furono anche uno dei primi momenti di aggregazione moderna del sentimento nazionale italiano. Quali che fossero i motivi primi che inducevano veneti, napoletani, lombardi, abruzzesi, calabresi, pugliesi, marchigiani, umbri a insorgere contro le armate della rivoluzione guidate da Napoleone, è ovvio che inevitabilmente insieme si sviluppava un sentimento antifrancese, destinato a trasformarsi alla lunga in sentimento italiano. La lotta per la Chiesa, per il re, per la propria piccola patria, contro i sacrilegi, le requisizioni, le ruberie, diventava un po per volta lotta per la grande patria contro lo straniero. Anzi, in alcuni luoghi lo era da principio. Non dimentichiamo infatti che quando nel Veneto o in Dalmazia si insorgeva al grido di San Marco’, sia durante il triennio giacobino (1796-99) sia più tardi nel 1809, questo si riferiva sì al Santo Apostolo, ma soprattutto in quanto simbolo della Serenissima Repubblica di Venezia. E dalla difesa della già grande patria veneta era poi facile passare alla patria italiana, come è infatti avvenuto. Insomma, paradossalmente, per un intervento provvidenziale o per una astuzia della ragione storica che sia, il sentimento nazionale si sviluppava contemporaneamente fra gli Insorgenti e fra i napoleonici. Ma quella degli Insorgenti - ecco la grande differenza - era una patria, della quale faceva parte integrante lantica tradizione cattolica, proprio quella che la rivoluzione cercava, invano, di estirpare con qualsiasi mezzo» (5).

Risorgimento federalista

Dunque un sentimento nazionale, di tipo tradizionale ed antirivoluzionario, era emerso grazie all’insorgenza antifrancese quando arrivò la Restaurazione. Fu una grave colpa delle restaurate monarchie non coglierne la portata storica per attuare un disegno federalista che, salvando e riformando le monarchie stesse, avrebbe avviato l’Italia verso una strada di modernità non conflittuale con le proprie radici religiose e culturali.

Infatti, le istanze unitarie inizialmente non furono affatto anticattoliche e, conseguentemente stando lo stretto rapporto all’epoca tra italianità e fede cristiana, anti-italiane. Sempreché, però, per Italia si intenda l’Italia reale di quegli anni e non quella astratta sognata da liberal-massoni e dai giacobini. E’ verissimo che nell’ombra agivano logge e carbonerie varie e che il liberalismo, come filosofia che pone la libertà al primo posto avulsa dalla Verità, si andava diffondendo nei ceti abbienti ed intellettuali. Tuttavia, dall’esperienza di popolo del triennio 1796-99 e poi nel periodo della seconda insorgenza del 1805-06 era nata una consapevolezza unitaria di tipo federalista che trovò nella migliori intelligenze dell’epoca la sua espressione politico-filosofica, dal cattolico Antonio Rosmini, che troppo facilmente si derubrica a cattolico-liberale (6) al laico e sansimoniano Cattaneo. Il Gioberti lo lasciamo, invece, da parte perché egli era più un intellettuale a servizio della ambigua causa savoiarda e degli interessi della borghesia che al servizio dell’Italia reale.

Se Cattaneo perseguiva una idea contrattualista, quindi di derivazione moderna, del federalismo, la stessa che Gianfranco Miglio, il primo ideologo della Lega Nord riprese qualche decennio fa, Rosmini, al contrario, innestava, con fondato realismo storico, il suo federalismo in una visione medievale e tradizionale. L’ideale di Rosmini era quello stesso della Res Publica Christiana medioevale ed in una lettera al Papa egli indicava proprio nell’unione confederale degli Stati italiani da realizzare senza conflitto, anzi cercando l’intesa, con l’Impero, ossia con l’Austria asburgica, del quale Rosmini, trentino, era suddito per nascita, l’unica via possibile per sbarrare il passo alla rivoluzione illuminista apportatrice dell’«empietà religiosa».

Si dirà, tuttavia, che nelle condizioni internazionali dell’epoca, ossia sotto l’occhiuta vigilanza della Santa Alleanza, tali voci fossero destinate a rimanere solitarie e che, soprattutto, impossibile fosse la realizzazione del disegno unitario federalista da esse auspicato. In realtà, nella prima metà del XIX secolo, il dibattito, in Italia, era apertissimo e minoritarie risultavano, chiuse nelle vendite e nelle logge, proprie le tendenze unitarie anticattoliche ed accentratrici. Questo dibattito alla fine avrebbe prodotto anche conseguenze concrete sul piano storico ed internazionale se non fosse sopraggiunta la volontà egemonica del Piemonte dominato dai liberal-massoni. Il grosso della popolazione, che certo non partecipava al dibattito per ovvie ragioni di scarsa alfabetizzazione, conduceva la sua vita, non certamente idilliaca ma sostanzialmente tranquilla, all’ombra della protezione ad essa assicurata dal paternalismo sociale, efficace e gradito, delle monarchie e della Chiesa. Pertanto una trasformazione in senso federale delle istituzioni, tale da non toccare né il trono né l’altare, non avrebbe incontrato alcuna resistenza popolare, anzi, molto probabilmente, avrebbe trovato consenso proprio nei ceti meno abbienti, meno forse nella borghesia liberale, ed, in tal modo, avrebbe innescato un processo di graduale ascesa sociale degli stessi ceti popolari con contenimento dei traumi che l’industrializzazione incipiente iniziava a comportare.

Del resto, checché ne pensino taluni, il Papato, lungo i secoli, lungi dall’essere causa della perdita dell’unità politica della nostra penisola, svolse, invece, un ruolo assolutamente preservante dell’identità culturale italiana che andò, nel medioevo, sviluppandosi sull’eredità romano-cristiana. Un ruolo non solo, appunto, spirituale. Infatti, se non fosse stato per la presenza del Papato nel bel mezzo della penisola, e per la sua politica intesa a salvaguardare la Libertas Ecclesiae che ebbe conseguenze benefiche anche sul piano civile, l’Italia del sud sarebbe stata assorbita nell’alveo prima bizantino e poi, probabilmente, arabo-mussulmano, mentre l’Italia del Nord sarebbe diventata una propaggine tedesca o franco-tedesca.

Non si dimentichi che quando Pio IX ascese al soglio pontificio si aprì una stagione di grandi speranze per il progetto federalista da molti auspicato. Quel Papa, che invocava la benedizione di Dio sull’Italia e che iniziò una politica di riforme nello Stato Pontificio per renderne più moderne le strutture senza per questo cedere al liberalismo (e quando i liberali lo compresero passarono dalle lodi all’odio), non era affatto contrario ad un’ipotesi di unione federale dell’Italia.

Ma attenzione: Pio IX non ne faceva innanzitutto una questione politica. Per lui si trattava di alleggerire il Pontificato dal peso eccessivo del governo temporale senza però rinunciare a quest’ultimo che la Provvidenza aveva assicurato ai successori di Pietro per garantirne l’indipendenza da poteri mondani e quindi la libertà del Magistero. E’ noto che Papa Mastai Ferretti considerasse il potere temporale «una gran seccatura»e tuttavia una seccatura necessaria per rendere libero il Papato nell’esercizio della sua missione universale. Ecco perché l’idea di una confederazione degli Stati italiani, compreso quello della Chiesa, lo solleticava dal momento che ciò avrebbe significato, sia che la presidenza della confederazione fosse stata attribuita al Papa sia che fosse stata turnificata, lasciare ad interposta persona, come il segretario di Stato, gli affari temporali per rendere libero il Papa di svolgere principalmente la sua missione spirituale. In tal senso c’è del vero in quanto affermò Paolo VI sulla provvidenzialità della perdita del potere temporale a condizione di non intendere con questo che l’aggressione piemontese e la ridicola messa in scena di Porta Pia (7) siano cose per le quali ringraziare gli aggressori di allora (semmai da ringraziare vi è solo chi nel 1929 capì che era necessario sanare una ferita lacerante per la coscienza nazionale).

Il progetto federalista, all’epoca, trovava ampio consenso anche presso gli altri sovrani italiani. Un Ferdinando II Borbone, ad esempio, non era pregiudizialmente contrario. Anche la questione della presenza asburgica nel Lombardo-Veneto poteva trovare una soluzione non traumatica mediante una unione doganale sul modello dello Zollverein tedesco. Persino l’Austria, che dopo il 1848 iniziò essa stessa una processo interno di riforme che l’avrebbe portata alla Duplice e confederale Monarchia, alla lunga non avrebbe visto negativamente il fare parte di una unione doganale-politica che assicurava ad essa un certo controllo sull’Adriatico.

Fine prima parte (di cinque)

Luigi Copertino

Risorgimento?! (parte II)
Risorgimento?! (parte III)
Risorgimento?! (parte IV)




1) Il nostro riferimento è a quei gruppi della destra cattolica che hanno nell’opera di Plinio Corrêa de Oliveria, Rivoluzione e Controrivoluzione, il loro vangelo ideologico.
2
) La doverosità di sfatare la lettura controrivoluzionaria delle insorgenze è questione attualissima. Infatti, come si è detto, certi odierni apologeti dell’Insorgenza, e della Vandea (l’Insorgenza ebbe inizio nella stessa Francia rivoluzionaria e coinvolse non solo le regioni dell’Ovest ma tutto il Regno), che militano nella destra pliniana, sostengono al contempo con zelo fideistico il liberismo neoconservatore. Tali apologeti pliniani appoggiano, in altri termini, quella che nel XVIII secolo si chiamava fisiocrazia e che fu la vera ideologia economica della Rivoluzione (i settori proto-comunisti, alla Babeuf ed alla Buonarroti, erano minoritari). L’apparente contraddizione si comprende tenendo in debito conto che tali apologeti, mossi da intenti ideologici e privi di senso storico, applicano, alla loro analisi storiografica, lo schema dialettico rivoluzione-controrivoluzione elaborato dallo citato studioso brasiliano, latifondista e millenarista, Plinio Corrêa de Oliveira, e, pertanto, guardano alle insorgenze, che furono un fenomeno squisitamente antirivoluzionario, come ad un evento controrivoluzionario. Non è arbitraria questa nostra distinzione tra una lettura storica antirivoluzionaria ed una controrivoluzionaria. La lettura antirivoluzionaria coglie la modernità in tutta la sua complessità e, insieme agli aspetti spiritualmente luciferini, ne coglie anche gli aspetti di destrutturazione sociale culminanti nell’individualismo. Aspetti, questi ultimi, strettamente connessi alla deriva spirituale dell’Occidente. La lettura controrivoluzionario, invece, guarda esclusivamente, o perlomeno prevalentemente, ai soli aspetti secolarizzanti della modernità per formulare un giudizio negativo soltanto a riguardo dei capovolgimenti sociali, ossia, stando a tale lettura, del latente socialismo in essa insito. La lettura controrivoluzionaria, che assolutizza la proprietà privata in termini di sacralità, respinge la modernità soprattutto per questo capovolgimento sociale e non per altro. In quest’ottica, di difesa dell’ordine sociale costituito, la fede diventa solo un utile strumento o, peggio, la giustificazione teologica degli assetti proprietari individualistici e dei rapporti sociali che ne derivano. Paradossalmente, la lettura controrivoluzionaria guarda alla fede nel senso del marxiano oppio dei popoli. Mossi dal peccato di avidità, i controrivoluzionari diventano feticisti, nel senso nel quale Marx parlava del feticismo economico. Che poi, nei termini della morale cattolica, altro non è che l’idolatria dei beni terreni, la quale è la causa principale della dannazione eterna delle anime. I vandeani e gli insorgenti, invece, insieme all’empietà irreligiosa rivoluzionaria combattevano per conservare le protezioni sociali garantite da quegli istituti solidaristici che erano maturati nel corso dei secoli cristiani: dai diritti comunitari sulle terre signorili alle terre comuni di villaggio, dalle arti e mestieri e dai compagnonaggi (questi ultimi sindacati ante litteram) alle consuetudini mutualistiche ed antiusuraiche. Ed insieme a tutto ciò essi difendevano anche la Carità della Chiesa che si esprimeva in diffuse opere ecclesiali dette, appunto, di carità. L’analisi storica controrivoluzionaria si oppone, come si è detto, soltanto al socialismo ed al comunismo accettando della modernità il liberalismo in chiave conservatrice (i pliniani, infatti, cianciano di conservatorismo tradizionalista). Tale accettazione del liberalismo se non è tale sul piano teologico lo è sicuramente su quello politico e sociale, rendendoli succubi del neoconservatorismo. Gli apologeti pliniani delle insorgenze si dicono liberal-conservatori perché la loro preoccupazione principale è in realtà politica e sociologica. Preoccupazione essenzialmente volta alla conservazione sociale, nel senso della sacralizzazione assolutistica della proprietà che non trova affatto riscontri storici nella società di Ancién Régime, cui essi guardano come ad un modello insuperabile. In tal modo, essi della società pre-moderna non accolgono tanto lo spirito comunitario quanto, piuttosto, la gerarchizzazione sociale. Se si accetta questa premessa è inevitabile quindi vedere nel liberalismo un male minore o addirittura un alleato. In questa prospettiva, per i controrivoluzionari praticare, da cattolici, altre strade nella modernità che possano riattivare il comunitarismo, su basi trascendenti (perché ve ne è uno su basi immanenti non accettabile in chiave di fede), che fu della migliore Cristianità è una bestemmia socialcomunista. Non la pensava così però, ad esempio, Pio XI che nella Quadragesimo Anno, nel 1931, elogiava l’esperimento corporativista del fascismo senza nasconderne, criticamente, le pecche totalitarie ed ideologiche dalle quali quel Papa sperò, inutilmente, che il regime si emendasse (non fu, purtroppo, così: arrivò invece, l’alleanza con il nazismo e il disastro della guerra). Certo oggi nessuno potrebbe riproporre sic et simpliciter l’esperimento degli anni Trenta perché il mondo è del tutto cambiato. E’ necessario trovare altre soluzioni benché sempre in un’ottica antirivoluzionaria e pertanto anti-individualista. Resta, infatti, sempre cogente, in termini di Dottrina Sociale Cattolica, il principio comunitario (la stessa Chiesa è in quanto Corpo Mistico di Cristo una comunità seppure di grazia e non sociologica benché visibile e corporea). Un principio, quello comunitario, discendente dalla fede, non negoziabile ed antirivoluzionario. Questo impone ai cattolici seri di rifiutare, sul piano politico, sociale ed economico, il liberismo e non solo il liberalismo teologico. I cattolici non dovrebbero mai dimenticare che, come già notava Augusto Del Noce, il liberalismo/liberismo porta alle estreme conseguenze e realizza i desiderata del marxismo. Il liberalismo/liberismo trionfante ha, infatti, realizzato l’essenza propria del marxismo. Il liberismo sotto forma di globalizzazione economica ha realizzato l’internazionalismo marxista; sotto forma di nichilismo consumistico ha realizzato l’estinzione marxiana di Dio (Marx non auspicava l’abolizione violenta della religione perché riteneva che essa si sarebbe storicamente estinta mano a mano che l’umanità, proiettata verso la società comunista, diventava padrona di sé superando i suoi atavici problemi e le sue paure); sta infine realizzando, sotto forma di contrattualizzazione della vita associata (contrattualismo paritario tra individui che non abbisogna di superiori istanze politiche e giuridiche), l’abolizione dello Stato (Marx non era affatto statalista ma auspicava una società, autogestita, senza Dio e senza Stato). Tutto questo dovrebbe far riflettere un cattolico tradizionale e farlo giungere alla conclusione che il nemico principale, nel senso che in esso si svela definitivamente l’essenza luciferina della Rivoluzione, è il liberalismo/liberismo e non più l’ormai tramontato socialismo/comunismo (che della Rivoluzione era solo una fase transeunte, attualmente superata). La sequenza storica di dissoluzione della Cristianità, che parte da Lutero, non si ferma al comunismo ma arriva al liberismo globale, del quale il relativismo teologico e/o etico è solo un aspetto, per quanto certamente pregnante ed importante, al quale devono aggiungersi quegli effetti sociali ed economici che non possono essere trascurati, come si fa tra gli i controrivoluzionari pliniani fino a canonizzare Milton Friedmann. Se ci si oppone al relativismo religioso ed etico bisogna essere conseguenti e porsi in posizione critica anche nei confronti non solo del liberalismo politico ma pure del liberismo economico. Invece in area pliniana si continua a patteggiare con il mondo liberal-liberista come un male minore quasi avessimo ancora di fronte l’Unione Sovietica e, non a caso, per mantenere in piedi il loro schema ideologico i pliniani hanno sostituito, nel ruolo di nemico di un Occidente che però non è più cristiano, l’islam all’URSS. In altri termini, un cattolico tradizionale, nell’attuale mondo post-moderno che consegue per logica e storica continuità alla modernità, dovrebbe, con senso storico, prendere atto che, fino a quando Dio non vorrà ristabilirla, la Cristianità, in senso sociologico, purtroppo, non esiste e guardarsi intorno per individuare fermenti che possano riaprire la strada verso la Trascendenza. Ora, personalmente, riteniamo che l’individualismo, che è altra cosa dalla valorizzazione cristiana della persona (quest'ultima non è mai solipsista ma sempre inserita in un contesto comunitario di vario tipo, ad iniziare dalla famiglia), sia l’ostacolo principale alla Grazia e che pertanto, sempre facendo attenzione al pericolo dei comunitarismi neopagani (di destra, ossia etnicisti, e di sinistra, ossia da centro sociale), si deve cattolicamente favorire il recupero della dimensione comunitaria come tratteggiata dalla Dottrina Sociale Cattolica. Ad esempio, mediante la partecipazione alla gestione ed agli utili aziendali da parte dei lavoratori. Il modello di economia sociale di mercato che si definisce renano è nato, non a caso, nella cattolica Baviera (precisamente all’interno dell’esperienza industriale della BMW). Oggi, però, in clima di liberismo globale, spesso si tende a vedere nella partecipazione, di cui sopra, che in qualche modo si pone in linea con gli antichi istituti comunitari premoderni, solo uno strumento per aumentare la competitività (vedasi il caso di Pomigliano e la discussione che ne è nata) anziché come uno strumento, innanzitutto, di convivenza nell’equità e nella giustizia. Ciononostante, i pliniani parlano della partecipazione, che è sancita dalla Dottrina Sociale della Chiesa sin dai tempi di Leone XIII, come di cripto-comunismo e la rifiutano in nome di una concezione sacrale, austera e gerarchica dei rapporti sociali, improntati all’assolutizzazione della proprietà, che - ripetiamo - non trova fondamenti storici nell’antica Cristianità. Chi scrive ricorda nell’incipit di un opuscolo del Bloch (il fatto che si tratta di uno storico marxista non può impedire l’utilizzazione, in sede storiografica, dei suoi notevoli studi sulla realtà sociale prerivoluzionaria), dedicato alle trasformazioni agrarie nella Francia del XVIII secolo - si trattava di uno studio sui processi di privatizzazione delle terre comuni di villaggio e di abolizione degli usi civici in nome della filosofia fisiocratica -, la preoccupata e scandalizzata affermazione di un conservatore ottocentesco che, parlando dell’antico mondo rurale, lo dipingeva come un mondo contrario alla proprietà privata individuale, un mondo quasi comunista. Naturalmente l’Ancièn Régime con il comunismo non aveva nulla a che fare ma con un comunitarismo cristiano certamente sì. Non si vuole, con questo, dare l’impressione di una lettura delle insorgenze antifrancesi troppo schiacciata sugli aspetti sociali. Altre fondamentali ed importanti concause agivano alla radice dell’insorgenza. Ad iniziare dal Culto del Sacro Cuore (non a caso tale Culto fu rivelato a santa Maria Margherita Alacoque esattamente un secolo prima del 1789 e, nella prima parte del XVIII secolo, diffuso da San Maria Grignon de Montfort proprio nelle regioni del nord-ovest francese che, poi, diventeranno refrattarie alla Rivoluzione) fino alla persecuzione della Chiesa ed alla leva obbligatoria. Ma, siccome tout se tient, insieme e dopo quelle motivazioni vi erano anche quelle della difesa degli istituti comunitari di vita sociale, messi in discussione dalla Rivoluzione (non solo giacobina ma anche moderata e fisiocratica), che erano parte integrante del mondo tradizionale cristiano e che, scristianizzata la società, ridotta la Fede ad intimismo individualistico e emarginata la Chiesa, sarebbero stati travolti. Perciò gli insorgenti insorsero insieme per la difesa della Fede e della Chiesa e per la difesa del re e del comunitarismo tipico del loro mondo.
3) Sul cardinale Ruffo e la sua straordinaria vicenda storico-politica si vedano Antonio Manes Un cardinale condottiero - Fabrizio Ruffo e la Repubblica Partenopea, Jouvence, Roma, 1996; Giovanni Ruffo Il cardinale rosso, Calabria Letteraria Editrice, Soveria Mannelli, 1998; Giovanni Ruffo e Domenico De Maio Il cardinale Ruffo tra psicologia e storia - Luomo, il politico, il sanfedista, Rubbettino, Soveria Mannelli, 1999 (su quest’opera solleviamo personali forti riserve per quanto riguarda la parte che tratta del profilo psicologico del Ruffo, curata dal De Maio, viziata a nostro giudizio da un approccio a-religioso, per non dire irreligioso, tuttavia onestamente dichiarato dall’autore: limite che inficia completamente una più complessa e integrale comprensione, anche sotto il profilo psicologico, del personaggio Ruffo); Domenico Sacchinelli Memorie storiche sulla vita del cardinale Fabrizio Ruffo, Controcorrente, Napoli, 1999; Francesco Maurizio Di Giovine 1799 - Rivoluzione contro Napoli, Il Giglio, Napoli, 1998; Francesco Mario Agnoli 1799 - la grande insorgenza - lazzari e sanfedisti contro loppressione giacobina, Controcorrente, Napoli, 1999. Invece, per un panorama generale delle insorgenze italiane tra il 1796-1799 e la Restaurazione, può utilmente consultarsi (al di là di certo plinianismo dell’autore e del prefatore) l’ottimo testo di Massimo Viglione La Vandea Italiana - le insorgenze controrivoluzionarie dalle origine al 1814”, EFFEDIEFFE, Milano, 1995. Si veda anche Francesco Mario Agnoli Guida introduttiva alle Insorgenze Contro-rivoluzionarie in Italia durante il dominio napoleonico (1796 - 1815), Mimep-Docete, Pessano, Milano, 1996 nonché AA.VV., Le Insorgenze antifrancesi in Italia nel triennio giacobino (1796 - 1799), Editrice Apes, Roma, 1992. Da quest’ultima opera citiamo il seguente passaggio tratto dal capitolo IX, a cura di Daniela De Rosa, pagine 143-146, dedicato ai Viva Maria in Toscana, che spiega molto bene le motivazioni insieme religiose e sociali delle insorgenze popolari antifrancesi e di quelle antirivoluzionarie nella stessa Francia: «… non vi è dubbio… che esistano delle analogie fra i moti popolari nelle campagne francesi durante la rivoluzione e quelli toscani dei Viva Maria’: non a caso, infatti, le idee fisiocratiche che avevano ispirato le riforme leopoldine, provenivano proprio dalla Francia, dove fin dalla metà del 700 al vecchio regime agrarioera andato ormai sostituendosi in molte zone del Paese, con lattivo supporto dello Stato, un tempo difensore dei poveri’, lindividualismo del laissez-faire’, che significava laffermazione di un nuovo concetto di proprietà, completamente disgiunta da ogni rapporto con il bene comune, il principio della libera concorrenza, lespansione del mercato e la sua preminenza sul pane del popolo, la mercificazione di tutte le relazioni sociali, la crisi della comunità rurale, lapprofondirsi del contrasto tra città e campagna e del divario fra abbienti e non abbienti. Contro questo stato di cose, molto più che contro un regime feudaletrasformato, là dove sopravviveva, piuttosto in un mezzo di sfruttamento capitalistico, reagiva nella confusione e nel vuoto di potere creatosi fin dalla prima fase della rivoluzione, la maggior parte dei contadini che nel 1789 tumultuavano nelle campagne francesi. Gli strati subalterni, che anche in Francia preferivano il passatoed erano ostili alle novità, colsero loccasione di mobilitarsi controla minaccia di venire privati del modo tradizionale e perciò ben accolto di vivere (per quanto duro potesse essere), del lavoro (e più ancora della libertà di non lavorare), delle forme di convivenza sociale’ (…). Daltra parte il movimento per labolizione (da ultimo senza indennizzo) dei diritti feudali riguardava solo quella minoranza di proprietari spesso borghesi che avevano acquistato terre gravate di simili obblighi, i quali ora poterono liberarle dagli ultimi gravami extraeconomici, trasformando così il dominio utile in proprietà libera ed assoluta; tutto ciò giovava solo ai… più ricchi, tanto più che i vecchi censi vennero invece incorporati nei nuovi canoni. Alla luce di queste considerazioni, non si comprende in che cosa consisterebbe il presunto carattere rivoluzionario delle agitazioni contadine francesi… essendo la loro azione volta a scopi eminentemente conservatori dal punto di vista economico. I contadini infatti… Invocavano… il ristabilimento di quella economia morale tipica dell’‘ancien régime’, che riconosceva comunque al povero un diritto allesistenza, mentre avversavano quella moderna,  fondata esclusivamente sui rapporti di mercato. In questo senso non si vede neppure come si possa sostenere lesistenza di una … alleanza con la borghesia rivoluzionaria, che invece a tali indirizzi innovatori era favorevole (…). In fin dei conti… il discrimine fondamentale era costituito dallatteggiamento religioso: (come scrive il Turi) ‘La rivoluzione francese… costituì il punto culminante della lotta della borghesia contro la Chiesa; al tempo stesso la reazione che essa suscitò permise a questultima di riacquistare la sua influenza sulla società’. Se la borghesia, intesa come ceto rivoluzionario per eccellenza in campo politico-religioso ancor prima che economico, era più debole in Italia rispetto alla Francia, il sentimento religioso delle masse e la Chiesa stessa, nonostante la crisi giansenista del clero, erano invece nella penisola più forti che oltralpe: ecco perché qui il movimento patriottico non fallì solo per i suoi contenuti sociali contrari alle aspirazioni popolari’».
4
) Su Giuseppe La Hoz Ortiz si vedano Francesco Mario Agnoli Un italiano patriota: Giuseppe La Hoz da generale giacobino a comandante degli insorgenti, Il Minotauro, Roma, 2002 e dello stesso autore Il giacobino pentito - Vita, morte e battaglie del generale Giuseppe La Hoz, Il Cerchio, Rimini, 2009 nonché Gli Insorgenti (romanzo storico), Il Cerchio, Rimini, 1993. Interessante citare quanto, a proposito dell’insorgenza antifrancese, scrive, nell’introduzione all’ultima delle opere citate dell’Agnoli, Franco Cardini: «Quel che… mi trova concorde e compartecipe come storico e mi convince e mi affascina come cattolico è la dimostrazione calda, ricca, serrata, dun altro modo di fare storia dellItalia nel delicato e tormentato passaggio fra Sette e Ottocento (…). Qui non si tratta più di rivendicare gli insorgenti… a non so quale contro storia reazionaria. Qui si tratta di rivisitare sul serio la storia del proto risorgimento italiano e di liberarla da schemi decrepiti a da mistificazioni infami: si tratta di ridare voce allautentico popolo della penisola, che in modi da regione a regione differenti ma con sostanziale concordia disse noalla Rivoluzione, a differenza di quanto fecero - per convinzioni ideologiche o per tornaconto - tanti esponenti delle aristocrazie, delle borghesie intellettuali o imprenditoriali e dello stesso clero. E si tratta anche di accettare il fatto che un tale nofu motivato non da ignoranza e fanatismo, (o non solo) dagli squilibri recati alla società da scelte politiche come quella della confisca dei beni ecclesiastici e della loro immissione sul libero mercato, che si risolveva in uno di quei classici furti nei quali si ruba ai poveri per dare ai ricchi…: ma anche e soprattutto dellinsorgere offeso di intere comunità dinanzi alle profanazioni, alle violenze, alle umiliazioni illiberali e irragionevoli perpetrate nel nome di una Libertée di una Raisonfreddamente intente a spogliare i popoli delle loro tradizioni, del loro linguaggio sacrale, della loro identità» (Confronta Franco Cardini, Introduzione a F.M. Agnoli, Gli Insorgenti, opera citata, pagina 8).
5
) Confronta Aa.vv., I popoli contro lutopia - a 200 anni dalle insorgenze antigiacobine italiane, a cura del Comitato Nazionale per le Celebrazioni del Bicentenario delle Insorgenze in Italia, Tools, Faenza, 1996, pagina 33.
6
) Il liberalismo rosminiano presupponendo il primato e la conoscibilità della Verità non può ritenersi tout court liberalismo, al di là dell’ambigua lettura di cui certe parti della sua opera, staccate dal contesto, è suscettibile e che, lette in tal parziale modo, furono condannate dal Sant’Uffizio. In realtà così scrive Roger Aubert: «Questo giovane aristocratico nella sua giovinezza era stato un partigiano della restaurazione religiosa e politica nella linea teocratica e legittimista proclamata da de Maistre e da Haller. Ma maturò rapidamente grazie ad un più profondo contatto con la tradizione patristica e scolastica e prese sempre più coscienza della distinzione (che non vuol dire separazione) tra società civile e Chiesa, società essenzialmente spirituale, pur restando sempre lontano su punti importanti del liberalismo puro. Fino alla fine restò un avversario dellilluminismo e dei principi della Rivoluzione Francese, pur cercando di riprenderne le aspirazioni più profonde in un contesto differente, partendo dalla convinzione che si deve saper distinguere tra le innovazioni che distruggono e quelle che arricchiscono i valori tramandati dal passato’. Così fu condotto a mettere sempre più laccento sui temi della libertà della persona umana, del diritto delle nazionalità ad espandersi liberamente e della necessità di conciliare il cattolicesimo con la civilizzazione moderna (…). A differenza di Gioberti, che cercava di utilizzare la Chiesa al servizio del suo ideale politico e nazionale assegnandole una missione nellordine temporale, quello che interessa prima di tutto a Rosmini è la libertà della Chiesa nellesercizio della sua missione apostolica e del suo fine soprannaturale». Citato in R. Aubert in H. Jedin ed altri, Storia della Chiesa, volume VIII/2, Jaca Book, Milano, 1977, pagine 78-79. Aggiunge Paolo Gulisano: «A differenza dei fautori della Restaurazione, con i quali condivideva lostilità per lilluminismo, Rosmini si pone contro ogni assolutismo, ed elabora, nel solco della tradizione medioevale più autentica, una concezione cristiana della politica e del diritto (…). La libertà della Chiesa nei confronti dei governi, che è cosa ben diversa da quella sedicente tale dei liberali, legata ad un suo rinnovamento interiore, è la migliore garanzia affinché la Chiesa possa compiere la sua grande missione di salvezza del mondo. Occorre che la Chiesa, che è soprattutto una grandezza spirituale, irradi per la formazione delle coscienze e per la forza della Verità e non per mezzo di misure coercitive, e deve rinunciare a certi appoggi tanto costosi che sovente va cercando presso i poteri civili’. Il pensiero rosminiano è molto tradizionale anche nella rivalutazione del ruolo dei laici nella Chiesa, rifacendosi alla teologia medievale (…). Queste istanze incontrarono linteresse di Pio IX, che fu sempre un grande estimatore di Rosmini. Le preoccupazioni di tipo eminentemente pastorale e missionario del sacerdote trentino, nonché il federalismo realista di cui si faceva interprete, erano condivise dal cardinale Mastai Ferretti (il futuro Pio IX)». Citato in Paolo Gulisano, O Roma o morte - Pio IX e il Risorgimento, Il Cerchio, Rimini, 2000, pagina 39.
7
) La famosa fotografia della breccia di Porta Pia, che compare su tutti i libri di storia, è in realtà un falso, come si può capire anche dall’immobilità dei soldati raffigurati. Era accaduto che il fotografo ufficiale dell’esercito piemontese fosse giunto in ritardo, a cose già accadute. Sicché, anche perché i mezzi del tempo non permettevano un dagherrotipo in movimento che non venisse mosso, e dunque di difficile visione, dovendo l’esposizione della lastra fotografica essere prolungata di svariati minuti, il fotografo ben pensò di far posare i bersaglieri intenti a sparare verso le mura.


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