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I novissimi: l’anima umana e l’aldilà (1)
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PRIMA PARTE 
La mala morte La conversione in extremis come regola o come eccezione?

Cos’è l’impenitenza finale?

Tutta la nostra vita futura ed eterna[1] dipende dallo stato in cui si troverà la nostra anima in punto di morte. È per questo motivo che la buona morte, ossia la coincidenza della morte con lo stato di grazia, è chiamata la “grazia delle grazie”. Infatti, con essa tutto è ottenuto, senza di essa tutto è perso.

Al contrario, l’impenitenza finale è la coincidenza della morte con la privazione della grazia santificante, quando si ha la sventura di morire senza volersi pentire del mal fatto, nello stato di rivolta contro Dio, senza alcun dolore di aver offeso Iddio.

L’impenitenza della volontà per principio (non solo “di fatto”, ossia la mancanza del pentimento che può durare un certo lasso di tempo, che poi lascia il posto al dolore del peccato) è la ferma risoluzione della volontà di non volersi mai pentire dei peccati commessi neppure in punto di morte.

Tuttavia, se l’anima arriva all’incontro con la morte nello stato d’impenitenza di fatto, essa diventa impenitenza di diritto o per principio o finale.

Qualche volta, ma non sempre, Dio per sua pura misericordia, preserva un’anima che vive abitualmente nel male, dal giungere all’impenitenza finale, ma questa è l’eccezione che conferma la regola (cfr. S. Ambrogio, De paenitentia, c. X – XII; S. Gerolamo, Epist. 147 ad Sabinianum; S. Agostino, Sermo 351; S. Giovanni Crisostomo, Nove omelie sulla penitenza; S. Bernardo di Chiaravalle, De conversione).

L’Aquinate (S. Th., III, q. 86, a. 1) spiega che il peccato diventa irremissibile o imperdonabile quando non ci si può più pentire di esso, cioè dopo la morte ; ora i viventi non hanno la volontà fissata nel male, come invece i diavoli; mentre, la volontà dei vivi è ancora flessibile verso il bene o il male; perciò, i viventi possono sempre pentirsi dei loro peccati. Siccome la misericordia di Dio è infinita, se ci si pente del peccato, si ottiene sempre il perdono. Perciò, ogni peccato può essere cancellato col dolore e la confessione.

Purtroppo, i teologi neo/modernisti illudono le anime e dicono che Dio dà a tutti un’illuminazione speciale, appena dopo la loro morte, con la quale mostra loro le pene dell’inferno e la gloria del cielo e lascia l’anima libera di scegliere l’uno o l’altro. Ora, ciò è palesemente falso, poiché dopo la morte non si può più meritare.

«La morte è il termine non solo della vita terrena, ma anche del tempo utile per meritare. Infatti, Cristo parlando della morte la chiama “notte in cui nessuno può più operare” (Giov., IX, 4). Inoltre san Paolo (Ebr., IX, 27) scrive: “È stabilito che gli uomini muoiano una volta, dopo di che c’è il giudizio”; ora, il giudizio decide della sorte dell’uomo definitivamente e irremovibilmente.   Questa verità sviluppata ampiamente dalla Tradizione, e anche se non è definita solennemente, è insegnata dal Magistero Ordinario della Chiesa (DB, 530 ss. e 693). La Chiesa, condannando l’origenismo, ha negato la possibilità di una redenzione finale dopo la morte. Inoltre la teoria recente della “illuminazione degli agonizzanti” sostiene che l’anima dopo la morte clinica che non è ancora la morte reale, ossia la separazione definitiva dell’anima dal corpo, potrebbe ancora ricevere una grazia d’illuminazione da Dio e convertirsi. Questa teoria dilaterebbe di molto la via della salvezza, ma non ha trovato favore nella Chiesa, anzi è stata condannata (cfr. A. Michel, Mort, in DThC; S. Tommaso d’Aquino, Summa contra Gentes, L. IV, c. 95)» (A. Piolanti, De Novissimis, Torino, Marietti, 1943, p. 2 ss.).

«La Chiesa ha insegnato più volte, senza definire solennemente, che le anime giuste, e pienamente purificate sùbito sono ricevute (mox) in cielo; le anime macchiate dal peccato mortale sùbito (mox) vengono precipitate nell’inferno (Concilio di Lione, professione di Fede di Michele Paleologo, DB, 464; papa Benedetto XII, costituzione dogmatica Benedictus Deus, DB, 530-531; Concilio di Firenze, decreto di unione con i Greci, DB, 693). In questa dottrina, insegnata ripetutamente dalla Chiesa, anche se non definita infallibilmente, è affermato implicitamente che tutte le anime, sùbito dopo la morte subiscono il giudizio particolare con il quale viene loro assegnato il premio o il castigo» (A. Piolanti, De Novissimis, Torino, Marietti, 1943; Id., Giudizio divino, in Enciclopedia Cattolica, vol. VI, col. 727 ss.).

Ciò nonostante, alcune volte, Dio vuole permettere che uno dei suoi santi risusciti un morto nel peccato grave, affinché possa pentirsi e salvarsi l’anima, che altrimenti sarebbe stata dannata per l’eternità, ma questa è l’eccezione e non la regola.

L’impenitenza finale voluta per principio, deliberatamente e freddamente, è non soltanto un peccato di malizia ma è una “bestemmia contro lo Spirito Santo” (S. Th., II – II, q. 14), che offende direttamente l’Amore divino che potrebbe aiutare l’uomo a rialzarsi dalla sua miseria.

San Tommaso d’Aquino insegna che la “bestemmia contro lo Spirito Santo” non consiste soltanto nel proferire parole offensive contro Dio, ma anche nel peccare con malizia pienamente e freddamente voluta; ossia, volendo scientemente il male e rifiutando tutto ciò che possa distogliere dal peccato (q. 14, a. 1).

Inoltre, l’Angelico aggiunge che sebbene l’impenitenza finale sia di per sé imperdonabile e irrimediabile, tuttavia, se interviene un miracolo eccezionale della divina misericordia, allora il peccatore indurito può lasciare il male e convertirsi al Signore (q. 14, a. 3).

È necessario pentirsi sùbito del male commesso, altrimenti si precipita nell’impenitenza finale, dopo aver commesso molti altri peccati che accelerano la caduta nella mala morte. Infatti, se non teniamo conto della divina misericordia domandandole perdono e soccorso, piomberà su di noi la divina giustizia. Il Dottor Comune spiega che, se l’uomo si trova nello stato di peccato grave, la sua fragilità a resistere alle tentazioni di peccare mortalmente è talmente grave, che non può restare molto tempo in questo stato, senza commettere altri peccati mortali (S. Th., I – II, q. 109, a. 8).

Talvolta, la misericordia onnipotente di Dio, converte all’ultimo istante dei peccatori incalliti (come il buon ladrone), che avevano voluto restare nello stato di odio contro Dio sino alla fine.

Uscire dall’impenitenza voluta è difficile ma non è impossibile

Si può essere sorpresi da una morte imprevista e improvvisa. In questo caso si tratta d’impenitenza finale “di fatto”, ma senza la volontà per principio di rifiutare la conversione in maniera assoluta e anche all’ultimo istante.

Succede che l’intelletto s’acceca per un giudizio volutamente pervertito e colpevole. La volontà s’indurisce nel male e non ha più che delle debolissime velleità verso il bene, se pur le mantiene.

Giustamente il profeta Isaia (V, 20-21) scrive: “Sventura a coloro, che chiamano bene il male e male il bene; che delle tenebre fanno la luce e della luce tenebre; che il dolce lo dicono amaro e amaro il dolce”. Sembra la confutazione, con 2.500 anni d’anticipo, dell’Idealismo hegeliano e dell’attuale “transumanesimo”.

Tuttavia, il ritorno a Dio è ancora possibile anche se molto difficile. Infatti, se manca la grazia prossima sufficiente, che rende realmente possibile l’adempimento dei Comandamenti e il dolore della colpa, è molto arduo ritornare a Dio; tuttavia, il peccatore riceve dalla misericordia divina la grazia remota sufficiente, che non gli dà ancora la capacità reale e attuale di pentirsi e convertirsi, ma lo predispone virtualmente a pregare e di grazia in grazia, se non pone resistenza, inizierà a pregare per davvero e con costanza sino ad arrivare alla conversione.

Tuttavia, se il peccatore resiste a queste grazie, allora rifiuta l’ultimo soccorso di Dio e sprofonda nella propria miseria che lo conduce all’impenitenza finale.

Egli si priva della grazia efficace di Dio, offertagli (come il frutto nel fiore) nella grazia sufficiente, che ogni tanto lo sfiora ancora. Allora, le difficoltà e le tentazioni aumentano, le grazie e la forza della volontà diminuiscono. Ecco come la resistenza temporale volontaria alla grazia predispone a quella finale. Tuttavia, la misericordia onnipotente di Dio può preservare in extremis dall’impenitenza finale alcuni peccatori ostinati e induriti. Però, sarebbe erroneo farne una regola abituale, mentre è solo un’eccezione, sulla quale non si può contare costantemente nel nostro vivere quotidiano.

È certo che le anime che muoiono nell’impenitenza finale sono perdute per l’eternità. Dio potrebbe farle risuscitare, come leggiamo nella vita di san Filippo Neri, affinché potessero domandare perdono dei loro peccati, convertirsi e salvarsi. Però, non bisogna diffondere l’idea erronea e perniciosa, perché conforta le anime nel sonno del peccato, che dopo la morte Dio darà a tutti la possibilità di pentirsi e di meritare il Paradiso; mentre dopo la morte non c’è più il tempo del pentimento, ma si è fissati nell’eternità in cui si è entrati con la morte.

Il rimorso non è il pentimento

Questa dottrina ci mostra la differenza tra rimorso e pentimento.  Infatti, i dannati all’inferno hanno il rimorso per tutta l’eternità, ma non sono pentiti.  Il pentimento presuppone il dolore del peccato come offesa fatta a Dio (Summa c. Gentes, L. IV, c. 89). Invece, il rimorso consiste nel dispiacere di essere castigati per propria colpa, castigo che non si vorrebbe subire, che invece è sempre presente e rende disperati. Il rimorso produce l’angoscia, la disperazione (come in Giuda o in Caino); invece il pentimento dà la pace dell’animo (come nel buon ladrone o nella Maddalena).

L’Angelico spiega che i dannati odiano il peccato soltanto perché sono puniti a causa di esso; ma – quanto a Dio – ne detestano la giustizia che li castiga. Perciò, in questa vita lo bestemmiano interiormente e col pensiero, invece dopo la morte lo bestemmieranno anche con la bocca (S. Th., II – II, q. 13, a. 4).

L’eccezione: la conversione in extremis

Gli induriti, che non danno alcun segno di pentimento, possono all’ultimo momento, prima di rendere l’anima a Dio, abbandonare la loro ostinazione convertendosi all’ultimo minuto, come fu per il buon ladrone.

La conversione in extremis è un mistero che solo Dio può misurare, esso ci sfugge ma non per questo lo dobbiamo 1°) negare per un eccesso di rigorismo, oppure 2°) ampliare per un difetto di lassismo.

«Il ritorno a Dio è possibile sino alla morte, ma diventa di più in più difficile con l’indurimento del cuore. Non rinviamo, perciò, mai a più tardi la nostra conversione e domandiamo spesso la grazia della buona morte con l’Ave Maria: nunc et in hora mortis nostrae» (R. Garrigou-Lagrange, L’altra vita e la profondità dell’anima, Brescia, La Scuola, 1947, p. 42).

Insomma, la perseveranza finale è un gran dono di Dio, preceduto da innumerevoli grazie per le quali l’uomo arriva al momento della morte e si trova nello stato di grazia santificante e, quindi, si salva.

L’uomo, dopo il peccato originale, è sempre in pericolo di perdere l’amicizia con Dio, ricadendo nel peccato.

In questa vita, normalmente, non esiste qualcosa che stabilizzi l’anima nella grazia e le renda impeccabile.

San Tommaso (S. Th., I – II, q. 109, aa. 8-9) spiega che la grazia risana la mente ma non cancella la concupiscenza o la tendenza al male; perciò sorgono nell’uomo i moti improvvisi delle passioni, che l’animo non sempre riesce a dominare totalmente. Di qui la colpa che di tanto in tanto ritorna.

Il concilio di Trento (sess. 6, c. 22) ha definito che l’uomo ferito dal peccato di Adamo non può perseverare nella grazia, senza uno speciale aiuto di Dio. Inoltre, sempre secondo il Tridentino (sess. 6, c. 16), l’uomo anche se giustificato, ha bisogno dell’aiuto divino speciale per ottenere la perseveranza finale o la buona morte, che è “gran dono”.

Pietro Parente scrive: «Certamente, l’uomo deve collaborare con Dio, cooperare liberamente con la sua grazia per meritare la salute eterna; ma è anche certo che quel momento decisivo, detto della “buona morte”, cui confluiscono tanti elementi diversi, è nelle mani di Dio. L’uomo non può essere sicuro della perseveranza finale e neppure può meritarla nel senso stretto della parola; può però, meritarla con la preghiera “suppliciter merere” (S. Tommaso d’Aquino, S. Th., II - II, q. 137; S. Agostino, De dono perseverantiae, PL, 44)» (P. Parente, Dizionario di Teologia dommatica, Roma, Studium, IV ed., 1957, Perseveranza, pp. 314-315; cfr. anche A. Piolanti, Comunione dei Santi e Vita Eterna, LEF, Firenze, 1957).

d. Curzio Nitoglia



[1] S. Tommaso d’Aquino, S. Th., Supplementum, qq. 69-81 ; S. contra Gentes, L. IV, cc. 79-97 ; L. Billot, Quaestiones de Novissimis, Roma, Gregoriana, 1908 ; A. Piolanti, De Novissimis, Marietti, Torino, 1943.


 
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