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L’Irlanda distrutta dall’euro
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Per anni l’Irlanda è stata l’allievo modello del liberismo terminale. Ne ha applicato con entusiasmo tutte le ricette (liberalizzazioni, flat tax, mercato del lavoro libero) e la sua rinnovata «competitività» è stata premiata con un boom economico straordinario. Il boom è finito, ed è cominciato il disastro.

I prezzi delle case sono scesi del 7% l’anno scorso, e continuano a precipitare. La disoccupazione è in aumento. Le banche sono piene di debiti. E si rivela che il boom era, in realtà, soltanto una enorme bolla immobiliare. Ma non è colpa degli irlandesi. La colpa è dell’euro, o più precisamente del tasso primario imposto dalla BCE uguale per tutte le economie dell’eurozona.

Ci sono stati anni in cui, per dare fiato alla Germania in recessione, la BCE ha mantenuto il tasso d’interesse al 2%: buono per la Germania, anzi ancora troppo alto, ma «troppo basso» per l’Irlanda. Il denaro facile ha lanciato le banche irlandesi in una corsa ad indebitare i concittadini. Con mutui e prestiti personali. Il credito si espandeva da un anno all’altro anche del 30%.

Col denaro così abbondante e a basso costo, gli imprenditori hanno costruito a man bassa: l’edilizia ha raggiunto il 15% del reddito nazionale, ed è la maggiore industria del Paese, con 280 mila addetti - molto per un paese di 4,2 milioni di anime. Molte banche hanno offerto mutui al 100% sul valore dell’immobile; il 55% sono a tasso variabile. Quanto ai debiti delle famiglie, hanno raggiunto il 190% del reddito disponibile della famiglie stesse, la percentuale più inaudita del mondo sviluppato.

Dopo il collasso cominciato in America, le banche irlandesi si trovano paurosamente esposte nell’immobiliare a prezzi precipitosamente calanti, con sempre più debitori insolventi, - e come non bastasse, i tassi della Banca Centrale Europea sono saliti al 4,5% (1). Decisamente troppo per una piccola economia in recessione, e in pieno «credit crunch» mondiale. Il tasso EU ha creato la bolla e la distorsione dell’economia irlandese quando era troppo basso, ed ora la strangola definitivamente perché è troppo alto.

«Il mercato degli immobili è morto, quello delle auto nuove è ghiacciato, la perdita di lavoro è a livelli record, gli esportatori sono devastati dall’euro forte, i prezzi dei carburanti balzano in su, i pignoramenti crescono»: così ha sunteggiato la situazione il giornale Irish Independent. E lo Stato è impotente a scongiurare che la recessione si trasformi in depressione.

«Non possiamo fare niente di quello che uno Stato farebbe in una simile situazione di recessione da scoppio di bolla finanziaria», spiega Morgan Kelly, economista alla University College Dublin: «Non possiamo abbassare i tassi d’interesse, non possiamo svalutare, non possiamo applicare stimolo fiscale, e tutto perché siamo nell’eurozona».

Tutte queste prerogative sono state demandate alla BCE: è Trichet che varia i tassi, che sopravvaluta l’euro, che vieta l’allentamento fiscale, anzi raccomanda «rigore» (cioè più tasse) per non sforare il debito pubblico. Come tutti noi, anche l’Irlanda ha ceduto al sovranità monetaria al banchiere-robot. Il quale fornisce a tutti, per così dire, una T-shirt della stessa taglia: dove la Germania sta stretta, e dove l’Irlanda affoga (come Italia, Spagna e Grecia: ma quando un Paese è piccolo, il colpo è più duro e coinvolge immediatamente tutti i settori economici).

«Abbiamo una recessione interna che coincide e si aggiunge alla recessione globale», dice Kelly: e nell’impossibilità di ogni manovra, «è la salute del sistema bancario a determinare quanto sarà grave la recessione. E francamente, la salute non è buona». Sono strapiene di mutui al 100 per 100 su case svalutate, e i cui abitanti non riescono a pagare i ratei variabili verso l’alto.

Le banche irlandesi, rivela la Banca dei Regolamenti Internazionali, hanno accresciuto enormemente l’emissione di obbligazioni di vario genere: da 10 miliardi di dollari a 35 miliardi in un quadrimestre, cifra enorme per un paese di 4 milioni di persone. Perché emettere bond in un mercato dove nessuno è disposto a comprarli? Semplice: le banche irlandesi emettono queste obbligazioni per consegnarle allo sportello della BCE, ed ottenere in cambio liquidità. Non possono fare altro, avendo le istituzioni finanziarie e le famiglie accumulato 123 miliardi di dollari di passivi in mercati esteri, quello americano e quello inglese anzitutto, dove gli scambi sono congelati dal terrore e dai crack.

Secondo il professor Kelly, lo Stato finirà per operare un gigantesco salvataggio delle banche a spese dei contribuenti. «Il precedente c’è, è quello che hanno fatto gli scandinavi negli anni ‘90 nazionalizzando le banche», dice. Difatti la Svezia ha nazionalizzato le sue più grosse banche, risanandole e poi rimettendole sul mercato. Ma c’è un piccolo dettaglio: per far questo, la Svezia dovette uscire dal serpente monetario europeo (il sistema di cambi fissi che portò all’euro), e riprendersi il controllo delle leve monetarie, la sovranità finanziaria. L’Irlanda dovrà uscire dall’euro? Sarà il primo Paese ad uscirne?

Nessuno osa proporre questo, e nemmeno pensare a cosa accadrebbe a un piccolo Paese indebitatissimo fuori della moneta comune, ai tassi che richiederebbero gli investitori per comprare i suoi BOT. E tutti guardano con spavento al momento in cui gli irlandesi saranno chiamati a pronunciarsi sulla cosiddetta costituzione europea, ribattezzata Trattato di Lisbona. E’ il solo Paese che terrà un referendum su questo (a tutti gli altri questa possibilità è stata negata). Cosa deciderà il popolo?

La spaccatura dell’eurozona, sottoposta a tensioni intollerabili, può cominciare da lì e non dalla Spagna o dall’Italia. Il brutto è che le Banche Centrali non si preoccuperanno troppo di salvare un paesino di 4 milioni di abitanti, quando saranno impegnate ad affrontare - con mezzi ridicoli - la crisi più titanica che già si profila. E’ quella dei derivati.
 
Warren Buffet, il più intelligente finanziarie americano, già nel 2003 segnalava questa bolla torreggiante su tutte le altre bolle: «La quantità proliferante di derivati a lungo termine e il massiccio crescere di cambiali non coperte (uncollateralized receivables) che portano con sé sono armi finanziarie di distruzione di massa». Nel 2003, i derivati in essere avevano un valore «nozionale» di 100 trilioni di dollari (un trilione è un milione di milioni); oggi sono una montagna con nozionale di 516 trilioni.

Il loro valore sui «mercati» oggi è un’incognita totale, e per lo più questi strumenti finanziari creativi non hanno mai avuto alcun mercato, essendo contratti privati fra due banche o due aziende o due finanziarie. Per di più, non hanno dietro nulla di reale a sostenere le transazioni, qualcosa di simile alle riserve bancarie o ai margini degli agenti di Borsa. Sono superfetazioni fantastiche basate su piramidi di crediti sottostanti, serviti per anni a creare denaro dal nulla del nulla, al di fuori delle Banche Centrali e dei circuiti finanziari di «mercato».

Ora una piramide è crollata - i mutui subprime - e l’implosione a catena è cominciata. Quando toccherà i derivati, non vale consolarsi pensando che quel loro preteso valore di 516 trilioni di dollari è un «nozionale» puramente teorico, che nessuno potrà perdere tanto. Inutile rileggersi il rapporto della Banca dei Regolamenti Internazionali che nel 2007 ha valutato in 11 trilioni «la misura approssimativa del rischio finanziario trasferito nei mercati dei derivati».

Vale la pena di fare un confronto: il prodotto interno lordo USA ammonta a 15 trilioni. Tutti i beni immobili del pianeta, case e terreni, grattacieli porti e autostrade e ferrovie, valgono 75 trilioni. Anche una percentuale di crack nei derivati, col nozionale a 516 trilioni, basta a risucchiare l’intera economia americana, o una fetta dei valori immobiliari del mondo. Le Banche Centrali hanno lasciato crescere il mostro - in nome del dogma liberista-privatista, senza controllo e senza regole - ed ora non sanno letteralmente che cosa fare. Le loro iniezioni di liquidità al ritmo apparentemente stratosferico di 200 miliardi di dollari sono risibili, al confronto dei trilioni di buchi che i derivati possono creare.

In questo vuoto di soluzioni, vale la pena di citare una proposta del vice-segretario al Tesoro sotto Ronal Reagan, Paul Craig Roberts, che non saprei giudicare. Secondo Craig Roberts, bisogna sospendere la regola che obbliga le istituzioni finanziarie a scrivere sui libri contabili i loro mutui subprime ai valori di mercato correnti (mark to market). «E’ questo che crea problema nei bilanci delle banche», dice (2). Le obbligazioni composte da mutui subprime sono nei guai «prima che ci fosse un mercato per essi, dato che erano vendute direttamente dalle istituzioni che li emettevano agli investitori», o non quotati o fluttuanti in alcuna Borsa.

«Ora che sono malfamati e il loro valore è sconosciuto, nessuno li vuol comprare. E’ la loro non liquidabilità che ne abbassa il valore». E il valore precipitante di questi subprime sta trascinando le banche e i fondi speculativi all’insolvenza, per di più obbligandole, per fare cassa, a vendere «attivi liquidi sani», ossia le azioni solide, su mercati borsistici, così accelerandone il declino e infettando del male anche le aree sane dell’economia.

La proposta di Craig Roberts è di cambiare la regola, e consentire alle istituzioni speculative di mantenere questi «strumenti inguaiati» nei loro bilanci al loro valore di carico, o al 90% del loro valore (fittizio) iniziale, per guadagnare tempo e sperare nella formazione di un mercato per questa carta.  «Sospendere l’obbligo del mark to market allevierebbe la pressione dalla Borsa, e renderebbe non necessario per la Federal Reserve di abbassare ancora i tassi d’interesse per pompare liquidità nell’economia attraverso un sistema bancario che è danneggiato. Tassi d’interesse ancora più bassi peggiorano la crisi accelerando il declino del dollaro; ora che l’inflazione cresce, altra liquidità peggiora la crisi economica».

Il fatto è che, dice l’economista, «non esiste un problema generale di scarsa liquidità; i problemi di liquidità riguardano solo questi strumenti finanziari mal concepiti». Non mi pare gli si possa dar torto. Il punto è che una tale proposta significa salvare, dare sussidi, ai responsabili della messa in commercio delle obbligazioni composte con mutui di insolventi, una «cattiva idea» ispirata da «avidità e frode», per cui «qualcuno deve pagare». Certamente, annuisce Craig Robert: «Ma ora paga la società in generale e l’economia».

E giustamente, l’economista getta la responsabilità sulla Federal Reserve di Alan Greenspan, che con la sua politica «irresponsabile» di bassi tassi, ha prodotto il boom edilizio, senza il quale i mutui subprime non sarebbero stati pensati. Siccome i prezzi degli immobili aumentavano, anche i prestiti altamente rischiosi sembravano «buoni». Ma la vera causa di tutto, aggiunge, è stata l’abolizione della legge Glass-Steagal nel 1999.

Questo Glass-Steagal Act fu emanato nel 1933 proprio come risposta alla crisi del ‘29: esso vietò alle banche commerciali la speculazione azionaria, separando le due funzioni in due tipi di banche diversi (commerciali e d’investimento). Questa legge impediva che le speculazioni andate a male distruggessero il capitale delle banche, con la sequenza a catena dei fallimenti bancari e delle corse agli sportelli dei depositanti. Quella legge fu abolita nel ‘99 (sotto Clinton) da un Congresso posseduto dalla «ideologia del libero mercato», secondo cui «la libertà di mercato è sempre superiore alla regolamentazione pubblica». Ecco i risultati. Che dire?

Pare che Ben Bernanke stia facendo qualcosa di simile alla proposta di Craig Roberts: la sua ultima iniezione di liquidità di 200 miliardi di dollari consiste nel pagare con Buoni del Tesoro le cartacce (mutui subprime e obbligazioni composte da ipoteche) che le banche disperate portano all’incasso. Evidentemente, queste cartacce vengono valutate dalla FED a un valore fittizio di carico. Se basterà, o se sia troppo poco e troppo tardi, se la peste finanziaria non si sia già troppo estesa all’economia reale, lo dirà il domani prossimo.




1) Ambrose Evans-Pritchard, «Irish banks may need life-support as property prices crash», Telegraph, 11 marzo 2008.
2) Paul Craig Roberts, «How to end the subprime crisis», Counterpunch, 11 marzo 2008.


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