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La babele globalista (parte IV)
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Apocalisse

San Giovanni evangelista ebbe la visione apocalittica mentre era prigioniero a Patmos. Infuriavano, in quel momento, le persecuzioni contro i cristiani ed il Cielo venne a confortare i perseguitati con la rivelazione del significato della sofferenza in nome di Cristo, il Quale tuttavia alla fine trionfa sempre sui suoi nemici e con Lui trionfano i cristiani passati per la «Grande Tribolazione». Ogni epoca, ogni generazione ha la sua «Apocalisse». Benché, senza dubbio, l’ultimo libro della Bibbia rimanda ad un tempo futuro nel quale i secoli saranno consumati e la Gerusalemme celeste scenderà dal Cielo per riassumere e trasfigurare la scena di questo mondo, quel che più importa alla Chiesa è la rivelazione (apocalisse, in greco, altro non significa che «rivelazione») del senso della storia umana lungo il corso di tutti i secoli. Ed è un senso strettamente connesso con il dramma del peccato dell’uomo e della Redenzione di Cristo.

L’Apocalisse deve essere letta in stretto parallelo con il Genesi. L’ultimo libro spiega il primo, e viceversa, perché l’intera Bibbia è un work in progress e ciascuna sua parte rimanda alle altre e le altre a ciascuna sua parte. In tal modo la storia lineare del genere umano – solo l’uomo ha il senso della storia che non è il tempo benché si svolga nel tempo – si compie nel tempo del ciclo biblico che ha inizio nel Genesi e termina con Apocalisse: «Io sono l’Alfa e l’Omega, il Principio e la Fine» (Apocalisse 21,6). Nell’Apocalisse è svelato il peso che nella storia ha assunto l’«eritis sicut Dei» di Genesi 3,5 così come nella terza parte di stelle che la coda del drago trascina con sé dal Cielo (Apocalisse 12,4) trova spiegazione la misteriosa identità di colui che agli inizi (Genesi 3,5) come in ogni età ed ad ogni generazione circuisce l’uomo al male ovvero al rifiuto dell’Amore di Dio. Nella Donna vestita di sole di Apocalisse. 12 viene svelata l’identità della Donna di Genenesi 3,15 che schiaccerà la testa ofidica: è Maria che, con le sue apparizioni ad ogni latitudine ed in ogni epoca, sta compiendo, con una accelerazione di intensità da cinque secoli a questa parte, la missione affidatagli dal Figlio morente sulla Croce. Ritroviamo nell’Apocalisse anche Babilonia, la «prostituta», «quella che ha abbeverato tutte le genti col vino del furore della sua fornicazione» (Apocalisse 14,8), al servizio della quale si sono posti le due bestie ed i falsi profeti: l’una potente che avrà in suo dominio ogni stirpe, popolo, lingua e nazione, per essere adorata da tutti gli abitanti della terra il cui nome non è iscritto nel libro della vita, e l’altra che imita l’Agnello fingendo umiltà e, costringendo l’umanità ad adorare la prima, «faceva sì che tutti... ricevessero un marchio… e che nessuno potesse vendere e comprare senza avere tale marchio» (Apocalisse 13, 16-17). Ma di Babilonia è anche annunciata la sconfitta: «Poi vidi un altro angelo che volando in mezzo al cielo recava un vangelo eterno da annunziare agli abitanti della terra e ad ogni nazione, razza, lingua e popolo (…). Un secondo angelo lo seguì gridando: «È caduta, è caduta Babilonia la grande» (Apocalisse 14,6-8).

Tutto questo dramma è riferito all’intera storia dell’uomo e non ad un singolo periodo, a tutte le generazioni e non ad una di esse in particolare. Sicché ben può dirsi, come abbiamo detto, che ogni epoca, ogni generazione, ha la sua Apocalisse e deve sperimentare la sua «grande tribolazione» per attingere alla Salvezza del Signore che non resta affatto inerte di fronte agli eventi della storia ma interviene di continuo come ha promesso «Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra (…). Ecco, Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Matteo, 28,18-19).

Sappiamo che circa l’ora della fine dei secoli nessuno può dire nulla, neanche il Figlio essendo questione che il Padre ha riservato solo a Sé (Marco 13,32). Per questo motivo la Chiesa ha sempre rigettato ogni millenarismo come eresia. Tutti coloro che nel tempo, ed anche oggi, hanno tentato di leggere la fine imminente e hanno fatto altisonanti proclamazioni sulla data della fine sono stati sconfessati dagli eventi. Il mondo non è, finora, finito nonostante la sua fine sia stata annunziata miriadi di volte nel corso dei secoli. Tuttavia, se è vero che ogni epoca ed ogni generazione sono chiamate a sperimentare la loro apocalisse, è possibile a ciascuna generazione di cristiani di leggere gli eventi del loro tempo alla luce dell’Apocalisse, ossia della Rivelazione del dramma insito nella storia umana.

Ad esempio, la tentazione mondana, teocratica, della Chiesa medioevale può essere letta come «apocalisse», rivelazione, della perenne tentazione dell’orgoglio umano, anche clericale, a salvare la Cristianità dalla quale fu Francesco, inviato appositamente da Dio come insegna l’episodio del sogno di Papa Innocenzo. Oppure, oggi, la perdita della fede in ampi settori della Chiesa, devastata da dottrine spurie, è una «apocalisse». Ecco, dunque, perché diventa possibile porsi domande sull’attendibilità, in chiave «apocalittica», nel senso sopra esposto, immune da ogni traviamento millenarista, di alcune «rivelazioni private» che, nel XX secolo, hanno annunciato imminenti momenti duri e difficili per la Chiesa e per il mondo. Ne parleremo tra breve, non senza però prima aver esaminato, come ci ha chiesto Gesù, se il sale ha ancora sapore.

Il sale diventato insipido

In questo quadro teologico e storico, il recente Documento del Pontificio Consiglio per la Giustizia e la Pace, intitolato «Per un riforma del sistema finanziario e monetario internazionale nella prospettiva di un’Autorità pubblica a competenza universale», ha purtroppo il (non) sapore dell’evangelico sale insipido. Non tanto nelle analisi dei mali presenti, formalmente corrette, e neanche per il solito atteggiamento di «servizio» e di «non condanna» (1) quando invece i tempi richiederebbero proprio una efficace e chiara condanna come quella di Pio XI, nella Quadragesimo Anno (1931), contro «l’imperialismo internazionale del denaro». Quanto piuttosto per la soluzione auspicata, ossia un «governo mondiale dell’economia», e per la cattiva, cattivissima, esegesi biblica usata a supporto della soluzione proposta.

Distorcendo, infatti, del tutto il significato teologico dell’episodio biblico della Torre di Babele, gli estensori dell’insipido documento vaticano (che, lo diciamo ai «tradizionalisti puri e duri» che montano permanentemente la guardia al loro «museo» ed hanno perso il contatto vivo e vitale con la Tradizione, non è affatto un atto del Magistero), indicano nella «confusione delle lingue» non il castigo divino per l’orgoglio prometeico dell’uomo, che tenta la scalata al Cielo senza la Grazia che solo dal Cielo può essere donata, ma, addirittura, il pericolo che l’egoismo e la divisione che scaturiscono dalla diversità dei popoli possa impedire all’umanità un’autorganizzazione mondiale dell’economia. Da qui la richiesta di un’Autorità mondiale a competenza universale (2). Saint-Simon, Saint Yves e Comte sottoscriverebbero senza esitazioni un tale documento. È proprio la sciatteria teologica e spirituale di documenti come questo a dare concreta prova del calo della fede nella Chiesa, seguita all’ottimismo postconciliare che ha impedito una vera e serena recezione del Concilio stesso in conformità con la Tradizione. Ma, ripetiamo, di documenti sciatti ed insipidi la storia della Chiesa è piena, e non solo a partire dal Vaticano II. Posto pure che qualcuno si accorga di essi, documenti di questo genere finiscono per essere dimenticati perché non costituiscono affatto espressione viva della Fede che nasce dall’incontro con la Persona Viva di Gesù Cristo con la Quale, e non con i documenti dei dicasteri vaticani, si identifica la Tradizione.

Una voce di allarme nel Parlamento europeo

Una efficace descrizione della Babele burocratica porta la firma del direttore de Il Tempo, un giornale, dunque, di tendenze conservatrici e non certo rivoluzionarie o di sinistra. Mario Sechi, cui dobbiamo riconoscere l’intelligenza di chi non si lascia irretire dagli schemi consolidati della propria appartenenza culturale pur non certo ripudiandola ma certamente lasciandola aperta al confronto, è stato relatore, nel maggio scorso, in un importante convegno svoltosi presso la sede del Parlamento europeo di Strasburgo apportando al dibattito un significativo contributo che è bene, per informazione dei nostri lettori, richiamare direttamente nelle sue parti salienti.

«Il tema di cui discutiamo – ha detto Sechi – è la sovranità (europea, nda). Ma le elezioni presidenziali in Francia e quelle in Grecia segnalano un’inversione di tendenza: siamo tornati alle nazioni. Come reazione alla politica europea che non è condivisa dai popoli. A Parigi si è votato pour la France e contre l’Allemagne, ad Atene hanno vinto i partiti ‘no Euro’, ‘no Bruxelles’, ‘no BCE’, tutto ciò che era ed è l’Europa di cui stiamo parlando qui, nel Parlamento. Ho ascoltato con grande attenzione le parole di Cohn Bendit, e devo dire che condivido il fondo della sua analisi: c’è una perdita di democrazia, rispetto ai dogmatismi contabili e agli accordi dei governi, i Parlamenti contano sempre meno. Ecco perché le elezioni nazionali hanno avuto come argomenti principali l’Europa e i suoi mali. Ma in quale scenario si sta svolgendo questo dibattito? Cari amici, sull’agenda ci sono almeno quattro parole chiave:

1. Lavoro: secondo gli ultimi dati del fondo monetario internazionale nel mondo industrializzato ci sono duecento milioni di uomini e donne in cerca di occupazione. Duecento milioni! Questa è una minaccia, un problema sociale che può sfociare in una guerra sociale.

2. Crescita: l’ho sentita evocare spesso nel Parlamento italiano e anche in questa sala più volte. È l’ultimo mantra di una politica che però non riesce a crearla. Sembra di vedere un veliero fantasma galleggiare in un mare morto. E mentre i governi cercano la crescita, la recessione sta distruggendo imprese, posti di lavoro, ma soprattutto speranza. Il fiscal compact che alcuni Parlamenti hanno approvato senza neppure leggerlo e altri non hanno nemmeno discusso ma dato per buono, è contro qualsiasi ipotesi di crescita, anzi è un ammazza-crescita. Verrebbe quasi da sospettare, … , che la Germania lo difenda così tanto perché in fondo consente ai tedeschi, attraverso il gioco degli spread, di finanziare il proprio sviluppo emettendo debito a bassissimo tasso d’interesse. E scaricando il costo del debito sui Paesi più deboli e che resteranno tali finché non si sarà allentata la morsa fiscale e data loro una possibilità di sviluppo che non vuol dire uscire dal rigore, come si pensa a Berlino, ma aprire le porte a una nuova èra di investimenti.

3. Banche: anche ieri la prima pagina del Financial Times dava il titolo principale al salvataggio con soldi pubblici di Bankia, il terzo gruppo spagnolo per asset posseduti. Che sorpresa, ancora una volta i soldi dei contribuenti vengono utilizzati per salvare chi continua a fare finanza per la finanza, senza mai servire l’economia reale. Proprio ieri mentre viaggiavo verso Bruxelles stavo rileggendo i saggi politici di Orwell, ecco mi sembra di essere piombato in un romanzo orwelliano in cui il paradigma del ‘too big to fail’ (troppo grande per fallire) non può essere applicato ai giganti della finanza, ma gli Stati e i loro popoli invece possono fallire. Per cui siamo al paradosso che le banche che hanno speculato sulla Grecia vanno salvate mentre lo Stato greco può fallire e il suo popolo essere affamato. È questa l’Unione europea che sognavate? È questa l’Europa che volevano costruire Spinelli, Schuman e i padri fondatori? Secondo un rapporto dell’Unicef in Grecia 450 mila bambini sono sulla soglia della fame. È una vergogna e non smetterò mai di scriverlo e dirlo in pubblico. Certamente questa non può essere la mia Europa. Risolvere il problema della Grecia qualche anno fa sarebbe costato solo 50 miliardi, ma si è preferito attendere perché la finanza non voleva perdere un euro e il risultato è tutto nella drammaticità di queste ore. La Grecia non ha ancora un governo, in Parlamento sono arrivati i partiti estremisti, Atene rischia di tornare a votare senza risolvere i suoi problemi, il default è un rischio concreto, il ritorno alla dracma per un popolo esasperato è diventato una speranza, e l’Eurozona rischia il break up, la rottura. Che cosa succede se si realizza lo scenario previsto da uno studio dell’università di Cardiff per cui arriviamo al doppio euro? Chi lo gestisce? Cosa succede? Quali saranno le conseguenze? Lo sanno tutti che i contratti delle grandi corporation ormai prevedono clausole di salvaguardia nel caso in Europa dovesse rompersi l’Eurozona. Gli studi legali internazionali già prendono contromisure, le mettono nero su bianco, preparano la diga in caso di diluvio. E i governi europei che fanno? E il Parlamento che fa contro la cattiva finanza? Non c’è neppure un ombrello in caso di pioggia. Ripeto, banche e cattiva finanza questo è il problema, l’origine della crisi che parte nel 2008 con i mutui subprime in America e si propaga come un virus in tutto il mondo. È ora che anche le banche prendano atto che possono fallire, non si salva la finanza che lavora solo per la finanza. Deve essere chiaro una volta per tutte, bisogna finirla con questa mistificazione e manipolazione del linguaggio e mi appello a tutti i giornalisti affinché raccontino quel che sta accadendo: l’Europa è in pericolo, grave pericolo.

4. Democrazia versus Tecnocrazia: è questo il nocciolo del problema occidentale, ma in particolare europeo. La discussione sul funzionamento istituzionale dell’Unione a cui ho assistito dimostra che bisogna ripensare il rapporto tra organi rappresentativi, eletti e soprattutto elettori. Il mio Paese, l’Italia, è una metafora di questo problema. La tecnocratica way of life italiana è interessante nei suoi esiti perché avete qui davanti un signore che ha sostenuto il governo Monti, pensa che non vi sia alternativa, ha salutato con favore l’uscita del governo Berlusconi, ma alcuni mesi dopo deve prendere atto della realtà. La ricetta dettata dalla BCE e da Bruxelles ha dei limiti enormi: quando un Paese in recessione viene sottoposto a una cura fiscale eccessiva – siamo ben oltre il 45% di prelievo – non occorre essere laureato in economia a Princeton per capire che il risultato è quello di produrre ancora più recessione, distruzione di posti di lavoro e turbolenza sociale. E anche in Italia le ultime elezioni hanno confermato la tendenza europea al ‘no euro’, ‘no BCE’, ‘no Bruxelles’. È un fiume carsico pericoloso, perché… Non è possibile vedere uno scenario in cui la France è contre l’Allemagne, Atene brucia e Berlino irride, l’Italia si dibatte in una ricetta suicida e intanto nel mondo circolano trecento trilioni di dollari di titoli derivati, vera spazzatura, senza alcuna copertura fondamentale, una bomba atomica sulla quale siamo seduti, dieci volte la ricchezza mondiale, e nessuno fa niente. Cari amici del Parlamento europeo, dov’è la soluzione per la cattiva finanza? Non la vedo. Ma abbiamo accettato che le banche non possano fallire e gli Stati sì. Io non so se l’Italia riuscirà a salvarsi o meno da questa crisi profonda e drammatica. Ma di una cosa sono certo: senza l’Italia non ci sarà mai l’Europa» (3).

Una
«profezia» per non concludere

Abbiamo, fin qui, approcciato il nostro tempo, con i suoi segni inquietanti, alla luce di una lettura teologica della storia umana. Questo nostro metodo non ci consente di scrivere una conclusione definitiva fintantoché l’intero disegno, sotteso alla vicenda umana nel mondo, non si sarà tutto storicamente dispiegato. Ma, allora, sarà giunta la consumatio saeculi e non saremo certo noi a scrivere la parola «fine» bensì Nostro Signore. Ecco perché, dal momento che ogni epoca ed ogni generazione sperimenta la propria «apocalisse», a noi è concesso solo di scrivere una conclusione in termini del tutto provvisori ed aperti al futuro rinnovarsi del dramma umano con tutto il carico di speranza che, tuttavia, esso porta sulla base della Promessa di Redenzione che ci è stata fatta da Colui che mai viene meno alle Sue promesse.

Ci sia, quindi, consentito, come conclusione provvisoria, di azzardare una lettura «apocalittica» degli anni difficili nei quali siamo stati chiamati a vivere. Una lettura apocalittica nel senso sopra descritto della costante presenza per ogni generazione dell’Apocalisse, intesa non certo come «fine del mondo» ma come Rivelazione dell’agire di Dio nella storia umana ma anche dell’agire del male e della inevitabile necessità per l’uomo di scegliere. Vogliamo, nel nostro «azzardo», perfino appoggiarci alle rivelazioni private di una nota, e controversa, mistica del XX secolo, Maria Valtorta (4).

Nel 1943, in piena Seconda Guerra Mondiale, la Valtorta avrebbe ricevuto da Nostro Signore la seguente rivelazione, rivolta ai contemporanei della mistica, sull’inquietante futuro, non tanto lontano, della Chiesa e del mondo: «Del resto non tocca a voi gustare quell’orrore (il pericolo futuro per la Chiesa e l’umanità, nda) e perciò… Non vi resta che pregare per coloro che lo dovranno subire, perché la forza non naufraghi in essi e non passino a far parte della turba di coloro che sotto la sferza del flagello non conosceranno penitenza e bestemmieranno Iddio in luogo di chiamarlo in loro aiuto. Molti di questi sono già sulla terra e il loro seme (sarà) sette volte sette più demoniaco di essi» (5).

Ebbene, senza con questo pretendere di affermarne l’esattezza sia matematica che esegetica e meno che mai di aver scoperto la data della fine del mondo, ma soltanto come tentativo di cogliere il senso storico-teologico essenziale degli avvenimenti dei nostri giorni, laddove si facesse un semplice calcolo sembra proprio che la rivelazione privata in questione sia diretta alla nostra generazione. Infatti, se identifichiamo coloro che all’epoca della rivelazione di Gesù alla Valtorta, ossia il 1943, «erano già sulla terra», e che «bestemmieranno Dio anziché invocarne l’aiuto», con la generazione nata negli anni quaranta del secolo scorso e se prendiamo come riferimento una vita media di settanta anni, o anche di più in considerazione dell’aumento attuale della longevità, il conto ci porta agli anni intorno al 2010-2013. Sicché la discendenza di quella generazione, «il loro seme» che sarà ancor più apostata («sette volte sette più demoniaco»), dovrebbe essere identificata con i figli degli attuali settantenni ovvero con la generazione nata tra gli anni sessanta e settanta e che, quindi, oggi conta tra i quaranta ed i cinquanta anni.

Ripetiamo, tutto questo è soltanto ipotetico ed opinabile, fosse solo perché coloro che erano già sulla terra potrebbero essere anche i quarantenni o cinquantenni degli anni quaranta: cosa che cambierebbe tutto. Quel che però è importante è tenere presente la costante perenne attualità dell’Apocalisse, intesa come rivelazione del Mistero della storia sempre sospesa alla scelta dell’uomo tra Bene e male, tra Dio e l’avversario. Una attualità che, al di là di qualsiasi data, interessa, sempre eguale e sempre daccapo, ogni generazione e, pertanto, anche la nostra.

«Il fratello di umili condizioni si rallegri della sua elevazione e il ricco della sua umiliazione, perché passerà come fiore d’erba (…). Ascoltate, fratelli miei carissimi: Dio non ha forse scelto i poveri nel mondo per farli ricchi con la fede ed eredi del regno che ha promesso a quelli che lo amano? Voi invece avete disprezzato il povero! (…) il giudizio sarà senza misericordia contro chi non avrà usato misericordia; la misericordia invece ha sempre la meglio nel giudizio. Che giova, fratelli miei, se uno dice di avere la fede ma non ha le opere? Forse che quella fede può salvarlo? Se un fratello o una sorella sono senza vestiti e sprovvisti del cibo quotidiano e uno di voi dice loro: ‘Andatevene in pace, riscaldatevi e saziatevi’, ma non date loro il necessario per il corpo, che giova? Così anche la fede: se non ha le opere, è morta in sé stessa (…). Infatti come il corpo senza lo spirito è morto, così anche la fede senza le opere è morta» (Giacomo, 1, 9; 2,5-26).

La «Lettera di Giacomo» non è solo una denuncia ante litteram dell’errore di Lutero (6) ma è anche una denuncia preventiva di ogni iniquità sociale, compresa quelle oggi provocate dall’egemonia nichilista, ossia distruttiva, del capitalismo finanziario a danno della Comunità politica e dell’economia reale, a danno della fatica quotidiana di tutti coloro che, imprenditori o operai, lavoratori pubblici o privati, ogni giorno cercano di portare il pane a casa migliorando un poco il mondo.

«Il giudizio sarà senza misericordia contro chi non avrà usato misericordia», ci dice San Giacomo. È necessario che noi cristiani non dimentichiamo mai questo ammonimento. La Verità, che non abbiamo inventato noi ma incontrato nella Persona di Cristo che è la Verità, non può essere posta al prossimo se non con Carità, segno esteriore della Sua Grazia.

Ma l’ammonimento di Giacomo ha anche un valore più esteso del pur importante ambito della morale personale. Un valore universale, sia storico che spaziale. Ebbene, se per chi non usa misericordia, ed anzi in nome del suo profitto speculativo non si ferma davanti a nulla, neanche davanti al possibile default di interi Stati e di conseguenza alla disperazione sociale di interi popoli, quando arriverà il giorno del «redde rationem», che non deve credersi sia rimandato al solo giorno del Giudizio Universale o di quello personale (sarebbe troppo comodo!), non ci sarà alcuna misericordia, quale sarà la tremenda condanna può ben essere immaginato.

Il crollo su e stessa, per implosione o collasso finanziario, della Babele globalista potrebbe essere la risposta o parte di essa.

Luigi Copertino

Parte I
Parte II
Parte III




1) Diversamente dagli estensori del documento in questione, Benedetto XVI, a proposito del potere globale della finanza anonima ed apolide, ha parlato, già nel 2010, con tono di condanna, alla luce di un approccio storico-teologico, di «capitali anonimi che distruggono il mondo, che rendono l’uomo schiavo», ed il cardinal Caffarra, parafrasandolo, ha ricordato che «È intrinseco alla testimonianza cristiana lo scontro coi poteri di questo mondo».
2) Se il documento vaticano, in questione, si fosse limitato semplicemente a chiedere un accordo internazionale tra Stati, per il governo di moneta ed economia, sulla base del tradizionale diritto internazionale europeo e sulla base dell’antico principio gius-internazionalista per il quale «pacta sunt servanda», si sarebbe collocato nell’alveo di una consolidata tradizione di pensiero giuridico, romano-cristiana, di rispetto nella convivenza tra popoli diversi, senza allignare a prospettive di omologazione mondialista a base umanitaria.
3) Confronta Mario Sechi «La tecnocrazia non è democrazia», in Il Tempo del 10/05/2012.
4) Sulla Valtorta esiste, ancora oggi, un «caveat» da parte della Chiesa che anche se non è affatto, come troppo facilmente si ritiene, una condanna formale, tuttavia basta affinché nel trattarne l’opera si abbia, come dovere di ogni cristiano, la necessaria prudenza, benché ciò non deve voler dire necessariamente scetticismo aprioristico e irridente. Le sue opere principali, «L’Evangelo come mi è stato rivelato» ed il «Poema dell’Uomo-Dio», attualmente circolano liberamente ma con la debita avvertenza ecclesiale alla prudenza. Ed è con tale prudenza che anche noi la utilizziamo in questa sede, in quanto, ci sembra, possa offrire, nella parte di cui ci occupiamo nel testo, qualche barlume di Luce dall’Alto per meglio comprendere il senso «apocalittico» e «babelico» dell’attuale scenario globale ed europeo in particolare.
5) Nello stesso testo, qui citato, si tratta dei cosiddetti «precursori» dell’Anticristo e si afferma che quest’ultimo, ad imitazione di Lucifero che da primo degli Arcangeli per superbia si trasformò in Satana, sarà un «astro del mio esercito» e che la sua abiura farà tremare le colonne della Chiesa. Ora, questa rivelazione ha scatenato le esegesi più fantasiose e pericolose, soprattutto in ambito «tradizionalista» dove si è visto in quelle parole una profezia della crisi postconciliare fino ad identificare, come fanno i «sedevacantisti», nei Pontefici successivi a Pio XII l’astro della Chiesa che per superbia la sconvolgerà. Diciamo subito e chiaro che questo genere, ridicolo, di esegesi non ci appartiene non fosse altro per il fatto che la Promessa di Gesù Cristo è quella per la quale «le porte degli inferi non prevarranno su di Essa» e che Lui resterà con noi fino alla fine dei secoli. Quindi ogni tentativo di leggere certe rivelazioni private – da prendere sempre, non lo si ricorderà mai abbastanza, con prudenza – in chiave, appunto, sedevacantista pone chi porta avanti tale lettura in frontale contrasto con la Promessa di Nostro Signore per accostarsi ai tipici atteggiamenti «antiromani» del protestantesimo. Chi, poi, conosce anche soltanto un poco la storia della Chiesa, sa benissimo che di Papi che ne hanno sconvolto le colonne se ne possono enumerare diversi e tutti preconciliari. Si obietterà che quei Papi sono stati un cattivo esempio morale senza intaccare la Dottrina e la Tradizione, ma, a parte il fatto che è tutto da dimostrare che la Chiesa abbia oggi abbandonato Dottrina e Tradizione, non si potrà non ammettere che un comportamento moralmente basso in un qualsiasi cristiano, a maggior ragione in un Papa, segnala comunque una difficoltà, magari dovuta a particolari circostanze storiche o personali, in ordine alla sincerità del cuore o almeno ad assecondare in pieno la Grazia. Resta tuttavia il fatto che a partire dalla Riforma Tridentina, senza interruzioni di continuità fino ad oggi, la moralità dei Papi che si sono succeduti sul soglio di Pietro è andata costantemente crescendo di livello. E questo, in termini di Tradizione e di assistenza dello Spirito Santo, significherà pur qualcosa.
6) Lutero odiava letteralmente questo testo apostolico e giunse persino a ritenere l’apostolo Giacomo un «indemoniato». A Giacomo Lutero – in nome del «sola fides» – opponeva Paolo che nelle sue lettere tratta del primato della fede a discapito, l’eterodosso tedesco riteneva, delle opere. In realtà l’esegesi luterana di Paolo è del tutto fuorviante, come more solito capita a tutti coloro che pretendono di interpretare, soggettivisticamente, la Scrittura emancipandosi da Tradizione e Magistero. Paolo non dice, infatti, cose diverse da Giacomo, come ha ricordato, di recente, anche Benedetto XVI. Paolo invoca il primato della fede non perché da essa non discendano le opere sante della Carità ma perché intende richiamare l’attenzione sul primato di Dio che, mediante la fede e la grazia, trasforma il cuore dell’uomo rendendolo capace delle opere buone. Le quali pertanto, lungi dall’essere orgoglio e vanità, persino nei santi, come riteneva Lutero (che però in quanto ad orgoglio non era secondo a nessuno), sono invece il segno esteriore di quanto la Grazia opera nell’interiorità dell’uomo. Giacomo avrebbe sottoscritto senza indugi le affermazioni di Paolo come dimostra il suo insistere sul fatto che laddove non c’è il segno esteriore delle opere sante non è possibile ritenere sussistente l’opera della fede e della grazia in interiore hominis. L’influsso della gnosi in Lutero è evidente proprio in questo suo considerare, fino al disprezzo totale, la natura umana, la «carne», assolutamente corrotta senza rimedio. Infatti per Lutero la grazia non trasforma il cuore dell’uomo, ormai dopo il peccato del tutto marcio, ma si limita solo a coprire, agli occhi di Dio, come fosse una coperta la macchia del peccato che, senza essere cancellata dai sacramenti, permane anche nelle anime salvate, anche in Cielo. Ora, erano proprio gli gnostici ad aver orrore e disprezzo, come frutto dell’opera del malvagio demiurgo, della materia e, quindi, anche del corpo, anzi dell’intera natura psico-fisica, dell’uomo.


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