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La globalizzazione si vendica
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Per anni, le merci cinesi prodotte a bassi salari sono state un fattore-chiave della dis-inflazione nel mondo.
Gli ideologhi della globalizzazione potevano dire agli scettici: vedete, i prezzi dei prodotti calano, grazie alla competizione planetaria.
Non è più così.

La provincia cinese di Guangdong (una delle più attive e dense di fabbriche) ha annunciato un aumento del salario minimo del 13%.
E secondo una ricerca Citigroup i salari in Cina aumenteranno del 21% nel 2008 (1).

L’aumento cinese dei salari può sembrare una buona cosa: finalmente più potere d’acquisto in tasca ai lavoratori gialli, anche se a caro prezzo per i lavoratori occidentali e a prezzo crescente per i consumatori occidentali, visto che le merci cinesi rincarano.
Errore: gli aumenti salariali non fanno che inseguire l’inflazione interna cinese, che divora il potere d’acquisto.
Pochi i vantaggi per i lavoratori gialli, e in compenso svantaggi netti per l’Occidente compratore delle loro produzioni.
Specie per gli americani.

In dollari, il rincaro dei prodotti cinesi corrisponde grosso modo all’aumento dei salari diminuito dell’aumento di produttività, ma sommato ai costi non salariali crescenti (energia, immobili, capitale).
Ora, nemmeno i più ottimisti credono che la produttività del lavoratore cinese possa aumentare oltre il 10% annuo.
In questa ipotesi ottimista, se i salari aumentano del 21%, il costo del lavoro aumenterà dell’11% (21 meno 10).

Si aggiungano i costi non salariali (più 7% in Cina): diciamo che il rincaro dei prezzi sarà sul 9%. Ma siccome la moneta cinese (yuan) si sta apprezzando sul dollaro del 9%, l’inflazione che la Cina esporta ai Paesi consumatori, incorporata nelle sue merci esportate, tocca il 18%.
Ora, il 16% delle importazioni americane viene dalla Cina.
Un rincaro in dollari del 18% comporta per i consumatori americani un’inflazione aggiuntiva del 2,9% - aggiuntiva rispetto all’inflazione provocata dal folle allentamento monetario della Federal Reserve, che si valuta sul 10-12%.
Del resto già a gennaio i prezzi delle merci importate in USA sono saliti del 13,7% rispetto a gennaio 2007.

In passato, quando i salari aumentavano nelle zone industriali cinesi, gli investitori e gli imprenditori esteri spostavano le fabbriche - quelle che avevano già spostato in Cina da USA ed Europa, facendo sparire centinaia di migliaia di posti di lavoro dall’Occidente - nelle zone più interne della Cina, le aree rurali e arretrate.
Ma ora anche lì i salari minimi sono in aumento, fino al 50%, persino in Tibet.

Trasferire in altri Paesi emergenti non conviene più tanto: in Vietnam l’inflazione a febbraio risulta del 15,7%, e la moneta locale (dong) si apprezza sul dollaro (che crolla) come lo yuan cinese.
I supposti benefici della globalizzazione si rovesciano contro i globalizzatori.
In attesa del giorno in cui gli investitori dovranno riportare le lavorazioni in Occidente (ma non sarà per domani), le popolazioni del mondo «sviluppato» in via di impoverimento, con meno possibilità di lavoro, dovranno accettare rincari sulle merci «così convenienti», come già li accettano sui carburanti e gli alimentari.

La stagflazione è il vero ed unico risultato del liberismo terminale, o meglio, il secondo.
Il primo è stato l’arretramento tecnologico: i capitalisti, anziché investire in nuovi impianti e nuove idee tecniche, sono andati a caccia di bassi salariati nel mondo, da far lavorare sulle macchine vecchie.
 
Il Giappone diventa «protezionista»
Tokyo sta traendo le conseguenze della nuova situazione: scoraggia gli investimenti esteri in ditte nipponiche.
Takao Kitabata, primo direttore generale del potente ministero dell’Economia, Commercio e Industria (il celebre MITI), di fronte a una platea di 130 grandi imprenditori ha recentemente raccomandato che le aziende giapponesi devono stare attente a scegliersi gli azionisti, una categoria che ha definito «instabile, irresponsabile ed avida» (2): descrizione in cui è facile riconoscere i capitalisti americani di ventura, gli hedge fund, i private equity fund, eccetera: quelli che portano i capitali roventi, rapidi ad arrivare e ancor più rapidi a uscire.

Da sempre, benchè abbia firmato gli accordi GATT sul libero commercio, Tokyo mantiene una lista di attività economiche in cui un investimento straniero superiore al 10% deve essere sottoposto ad autorizzazione dello Stato, sulla base della «sicurezza nazionale».
Questa lista di produzioni (e imprese) protette dalla speculazione estranea viene giorno per giorno accresciuta di nuove voci.
Il ministero del Commercio ha recentemente aggiunto alla lista la produzione di energia elettrica, da quando un fondo speculativo (hedge fund) britannico, che porta il nome balzano di «The Children’s Investment Fund», ha cercato di accaparrarsi una quota importante dei J-Power, una specie di ENEL nipponica.

Il ministero delle Infrastrutture e Trasporti ha dato un altolà all’appropriazione da parte di capitali stranieri degli aeroporti giapponesi.
Ciò perché la banca australiana Macquarie ha acquistato il 20% della ditta (quotata in Borsa) che possiede il terminal dell’aeroporto di Haneda, Tokyo.
I dirigenti giapponesi si sono accorti con allarme che la proprietà straniera di imprese quotato alla Borsa di Tokyo ha raggiunto la percentuale record del 28%.
Imprese altamente competitive come la Nintendo (videogiochi) e all’avanguardia come la Fanuc (robotica) sono straniere al 46%.

Nissan e Mazda sono controllate rispettivamente da Renault e da Ford.
Nikko Cordial (la terza agenzia di broker nazionale) è ora proprietà di Citigroup.
Ma molti investitori stranieri sono i fondi speculativi, che hanno acquistato a man bassa negli anni ‘90 quando la Borsa di Tokyo era bassa, ed hanno continuato a comprare nel boom del credito facile (ora terminato dal collasso dei sub-prime).
E per esperienza, i giapponesi sanno che simili «investitori» puntano a profitti a breve termine, a scapito della prosperità a lungo termine delle imprese di cui s’impadroniscono.
A questo, si aggiunge ora l’incubo dei fondi sovrani, ossia dei fondi d’investimento appartenenti a Stati petroliferi (come gli Emirati o l’Arabia) e grandi esportatori (Cina), i quali, ben forniti di riserve in dollari ricavati con il loro export, stanno comprando in USA grandi banche e imprese ottime, ma deprezzate dal collasso finanziario.

Il timore è che fondi sovrani cinesi, poniamo, possano comprare aziende cinesi per prendere la loro tecnologia e i loro marchi, svuotandole insomma dei segreti dei loro primati mondiali.
Sicchè, anche senza aspettare le esortazioni del governo, oltre 400 aziende nipponiche quotate si sono date degli scudi difensivi contro le incursioni straniere indesiderate: dalla clausola della «pillola avvelenata» (che, se esercitata, diluisce la quota azionaria di un rastrellatore indesiderato delle azioni della ditta), fino alle partecipazioni incrociate fra aziende giapponesi, fra le aziende e le loro banche, fra le aziende e i loro sub-fornitori, onde creare una sorta di «fortezza» impenetrabile ad un assalto o rastrellamento di azioni.

Ora la direttiva di Stato, espressa esplicitamente dal dottor Kitabata, accelererà lo spontaneo processo di protezione e difesa.
Ciò allarma grandemente il Financial Times e gli «investitori» americani: «I giapponesi considerano un’azienda una entità sociale, non un attivo da vendere e comprare», deplora Scott Callon, il direttore esecutivo di Ichigo Asset Management.
«I manager diffidano degli azionisti», si lagnano alla filiale Morgan Stanley di Tokyo, «per loro è un errore dare ascolto agli azionisti, nella convinzione che il management conosce meglio qual è l’interesse dell’impresa a lungo termine».
Ciò di cui si lagnano costoro è il buonsenso nazionale nipponico, che deve la sua rinascita e i suoi successi ad un illuminato dirigismo pubblico (informale) sulle imprese private.

L’ideologia giapponese è ben espressa dalla motivazione addotta dal ministero dell’Industria e Commercio (MITI) per spiegare la sua ostilità all’accesso di capitali stranieri di maggioranza nelle industrie strategiche nipponiche: «Siamo preoccupati che investitori stranieri possano non agire in accordo con la politica di Stato, per esempio in tempo di crisi, quando possono non investire a sufficienza nelle infrastrutture».
Naturalmente il Financial Times e il Wall Street Journal strillano al «protezionismo giapponese», al «dirigismo», allo «statalismo».
Ma cosa può offrire in cambio, oggi, il liberismo globalista?

«Bernanke ha fallito», annuncia il Telegraph (3).
Il salvataggio tentato da Ben Bernanke abbassando il tasso primnario da 5,35% al 3% (il solito vecchio trucco di iniettare liquidità in una bolla speculativa afflosciata) non ha dato alcuno dei risultati sperati.
I rendimenti dei buoni del Tesoro USA a 2 anni sono scesi a 1,63% venerdì, segno che chi ha denaro corre a mettere il capitale nella «sicurezza» (molto relativa) dei BOT.
Otto mesi dopo lo scoppio della bolla subprime, i mercati del debito sono ancora fermi, ghiacciati. Anche i più sicuri (i prestiti all’asta contratti da enti parapubblici e sani, come la Port Authority di New York) non trovano compratori, figurarsi i debiti subprime: venerdì scorso i bond basati su mutui con rating A sono calati ancora del 12,72%, quelli BBB sono scesi ulteriormente del 10,42%, quelli con rating inferiore sono a valore zero, carta che nessuno osa comprare.

Perché Bernanke ha fallito?
Perché i prezzi immobiliari americani continuano a scendere, in caduta libera.
Ormai c’è gente che ha cominciato a pagare un mutuo a 1.500 dollari il mese due anni fa, ed ora paga lo stesso mutuo 6 mila dollari il mese, su una casa che ha perso almeno un decimo del suo valore di mercato: di qui vendite alla disperata di immobili, a qualunque costo, anche solo per liberarsi di un rateo insostenibile e divoratore.
Non sono i debitori semi-insolventi ad essere colpiti, ma anche famiglie di buon reddito con mutuo a tasso variabile.
E il tasso primario al 3% non può cambiare questa situazione.
Il liberismo terminale divora se stesso, tutti i suoi trucchi speculativi gli si rivoltano contro.

Ne è esempio ridicolo e istruttivo il «Peloton Partners», un hedge fund (speculativo) britannico.
Nel 2007, il Peloton ha fatto profitti dell’87% giocando al ribasso contro i sub-prime.
Poi, quando  Bernanke ha tagliato ripetutamente i tassi, ha giocato «pro», giocando al rialzo, aspettandosi il rimbalzo.
Risultato: questa cosca di speculatori d’azzardo ha dovuto liquidare uno dei suoi fondi da 2 miliardi di dollari, ed è sull’orlo della bancarotta.
Perché il rimbalzo atteso non c’è stato.

Troppo indebitati (leveraged) i leoni della speculazione.
Troppo eroso il capitale delle banche.
Ogni liquidità aggiuntiva viene risucchiata a  riserva come inchiostro sulla carta assorbente.
La diagnosi Bernanke, basata sui dogmi liberisti, era sbagliata.
Sbagliate le scommesse di Peloton e dei fondi speculativi, basate sugli stessi criteri.
I giapponesi fanno benissimo a non volere gente di questo tipo come «azionisti» nelle loro imprese.




1) Martin Hutchison, «L’inflation chinoise devient une menace», Monde, 3 marzo 2008.
2) Michiyo Nakamoto, «As its companies expand abroad, Japan erects new barriers at home», Financial Times, 2 marzo 2008.
3) Ambrose Evans-Pritchard, «The Federal Reserve’s rescue has failed», Telegraph, 3 marzo 2008.


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