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Unicuique suum
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Non so se Emanuele Sparano sia lo stesso Emanuel Exsitu che ha «fraternamente massacrato» la premiata ditta Gnocchi&Palmaro su «Il Foglio». Il «mio» Emanuele mi ha riservato un trattamento più breve, ma in sostanza quasi identico: sarei un parolaio, capace di sparar parole a raffica in un diluvio di citazioni per non dire nulla, se non per difendere la «vanità intellettuale» della premiata ditta «Gnocchi&Palmaro».

Credo che per quanto malconci dal trattamento riservato loro in queste settimane, i due non abbiano bisogno di un dilettante come me quale avvocato difensore, bastando credo la loro professionalità e la loro cultura (di gran lunga maggiore della mia). Se poi vogliamo metterla in metafora e mutuare il linguaggio dall’arte velica (come fa il «mio» Emanuele»), allora non c’è dubbio che né la «premiata ditta», né molto più modestamente il sottoscritto, siamo dei buoni skipper, visto che decisamente nessuno di noi ha deciso di viaggiare col vento in poppa.

Se solo le parole che vengono scritte, venissero lette – oltreché con la mente – anche con il cuore, credo che chiunque non sia in malafede abbia potuto scorgere nelle parole di Gnocchi e Palmaro (e, se non pare troppo, anche nelle mie) un grande dolore, un senso di smarrimento, la necessità di sentire che il Padre ci stringa la mano. Purtroppo (e credo anche a causa di qualche espressione pungente del Santo Padre) si è venuta creando invece l’idea, la percezione, poi la convinzione e infine il giudizio che coloro i quali hanno a cuore la Dottrina, siano «esseri imbalsamati», mummie ammuffite dal cuore rattrappito, persone che non amano, non soffrono, non sentono, non patiscono, che non pensino ai fratelli, non abbiano a cuore le sorti degli altri, non sappiano chi sono i poveri: insomma delle «monadi residuali» del tempo che fu, capaci solo di fluttuare su orbite proprie e di ripetere formule, categorie, definizioni, proposizioni.

In questa mistificazione della realtà, sembra che coloro che hanno a cuore la Dottrina, lo facciano non perché abbiano sperimentato la Verità di un incontro con Qualcuno, col Dio personale che si è fatto uomo nella persona del Figlio, un soggetto storico di nome Gesù (attenzione, questa è Dottrina, perché nell’impersonalismo delle metafisiche indù non c’è nessun incontro, per non parlare del buddismo)… lo facciano invece – dicevamo – perché si sono innamorati di questo o di quell’autore, di questo o di quel libro, perché sono vanagloriosi, formalisti, amanti di sé, pelagianamente (questo termine, ahimè, ce lo ha tirato addosso il Papa!) convinti di trovare nella propria ortodossia la salvezza. Insomma coloro che hanno a cuore la Dottrina altro non sarebbero che «i nuovi farisei» di un cristianesimo ridotto a «formule dogmatiche» e vuoto d’amore.

Varrebbe forse la pena che ognuno raccontasse la propria storia e, ascoltando quella degli altri, forse scoprirebbe che essa non è quella che egli si immagina: se io sono venuto progressivamente aderendo a posizioni critiche verso un certo cattolicesimo postconciliare, non è stato inizialmente per ragioni di carattere dottrinale, ma proprio per ragioni opposte. Potremmo chiamarle «esperienze parrocchiali» e scandali ecclesiali. Accanto al mio vecchio parroco, oramai ultraottantenne e ahimè «pensionato», gli altri sacerdoti, che si sono avvicendati, hanno in alcuni casi propagandato per l’appunto un cristianesimo «più moderno», aggiornato, un cristianesimo della narrazione, dell’incontro, dell’esperienza. Peccato che, per coloro che non abbiano avuto la grazia di un’esperienza mistica, l’unico incontro vero, fisico, l’unica esperienza reale che noi abbiamo con il nostro Dio, avvenga nella Messa, nell’Ostia consacrata, nel pane e nel vino che «transustanziano nel corpo e sangue di Gesù»: lì, il memoriale di salvezza si compie nella ri-attualizzazione incruenta del sacrificio della croce, cui dovremmo assistere come la Madonna e Giovanni, in muto, orante, doloroso silenzio.

Invece la Messa è divenuta una festa, la Comunità celebra la propria convocazione nell’assemblea domenicale, per condividere la mensa del Signore, in un clima di fraternità, di convivialità, di solidarietà.

Certo, ci sta come conseguenza anche questa dimensione «orizzontale» (magari a fine Messa!), purché non dimentichiamo che, se possiamo nutrirci del «pane di salvezza», lo possiamo perché è un sacrificio ad essere offerto quotidianamente ed incessantemente fino alla fine dei giorni sotto le specie del pane e del vino in quell’Ostia! (A proposito, lo ricordo, ostia in latino vuol dire vittima!): È il sacrificio del Corpo e del Sangue di Gesù Cristo offerto in memoria del sacrificio della Croce.

La derubricazione della Messa a luogo di convivialità è una tentazione antica che risale alle prime comunità cristiane. Nella I Lettera ai Corinzi San Paolo scriveva:

«E mentre vi do queste istruzioni, non posso lodarvi per il fatto che le vostre riunioni non si svolgono per il meglio, ma per il peggio. Innanzi tutto sento dire che, quando vi radunate in assemblea, vi sono divisioni tra voi, e in parte lo credo. È necessario infatti che avvengano divisioni tra voi, perché si manifestino quelli che sono i veri credenti in mezzo a voi. Quando dunque vi radunate insieme, il vostro non è più un mangiare la cena del Signore. Ciascuno infatti, quando partecipa alla cena, prende prima il proprio pasto e così uno ha fame, l'altro è ubriaco. Non avete forse le vostre case per mangiare e per bere? O volete gettare il disprezzo sulla chiesa di Dio e far vergognare chi non ha niente? Che devo dirvi? Lodarvi? In questo non vi lodo! Io, infatti, ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso: il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese del pane e, dopo aver reso grazie, lo spezzò e disse: « Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me ». Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice, dicendo: « Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne bevete, in memoria di me». Ogni volta infatti che mangiate di questo pane e bevete di questo calice, voi annunziate la morte del Signore finché egli venga. Perciò chiunque in modo indegno mangia il pane o beve il calice del Signore, sarà reo del corpo e del sangue del Signore. Ciascuno, pertanto, esamini se stesso e poi mangi di questo pane e beva di questo calice; perché chi mangia e beve senza riconoscere il corpo del Signore, mangia e beve la propria condanna.  È per questo che tra voi ci sono molti ammalati e infermi, e un buon numero sono morti. Se però ci esaminassimo attentamente da noi stessi, non saremmo giudicati; quando poi siamo giudicati dal Signore, veniamo ammoniti per non essere condannati insieme con questo mondo. Perciò, fratelli miei, quando vi radunate per la cena, aspettatevi gli uni gli altri. E se qualcuno ha fame, mangi a casa, perché non vi raduniate a vostra condanna. Quanto alle altre cose, le sistemerò alla mia venuta.

Quando nelle mie «esperienze parrocchiali» ho constatato che l’interesse per quell’Incontro è tale per cui a ricevere la Comunione ci si va oramai con la stessa disinvoltura con cui si mangia un chipster, che la dimensione prioritaria è oramai quella della «frazione del pane» spezzato all’interno della mitica comunità, che la Carità è sovente impugnata contro la Verità, allora non ho potuto più tacere. Proprio perché anche la mia Fede è frutto di un Incontro, non posso sopportare che venga fatta violenza al Suo corpo ed al Suo sangue e, poiché la Verità non è un’astrazione concettuale, ma Gesù stesso, proclamare la Verità è parlare di una persona: Gesù.

Se, come spesso si sente nelle «assemblee domenicali», essere un buon cristiano coincide invece quasi con l’essere dei bravi cittadini (e non sempre è vero: i martiri cristiani erano pessimi cittadini dei regimi che li hanno ammazzati!), che la dimensione del sacrificio eucaristico è troppo cruento e va sostituita con quella della convivialità fraterna, che il dialogo interreligioso ci obbligherebbe a considerare equivalenti a quella di Cristo le altre religioni, che la laicità è un valore che ci impedisce di far valere pubblicamente la nostra Fede, che l’incarnazione di Dio si compie nel suo divenire uomo e nella identificazione con la storia di tutti gli uomini, che il Cristo storico è diverso dal Cristo della Fede, che la Chiesa è più vasta di come la definiamo, che l’infallibilità della Chiesa va sostituita con la indefettibilità (e potrei continuare con le molte altre eresie che circolano a piede libero nelle nostre comunità parrocchiali), allora dopo quasi vent’anni in cui la mia casa è sempre stata a disposizione della Parrocchia un giorno alla settimana per accogliere «la diaconia della parola», dopo che per anni ho frequentato gli ambienti vicini alla cosiddetta «scuola di Bologna» (ed oggi sento teorizzare perfino da qualcuno che il peccato originale non esisterebbe), senza che nessuno osi alzare la voce e dire che no, questa non è la Fede che c’è stata trasmessa, allora ho capito che bisognava tornare alle radici dottrinali della Fede, per conservare la propria e poterla trasmettere ad altri.

L’ho capito vedendo decine e decine di giovani passare per la Parrocchia, perlopiù senza fermarsi. L’ho capito vedendo in alcuni tratti vacillare quella dei miei figli. L’ho capito vedendo evaporare d’un tratto la Fede di chi magari l’aveva trovata da poco, non appena il mondo ha offerto altre opportunità.

Non vengo direttamente dal cielo, sono stato ragazzo anch’io, sono passato in mezzo alle mille tentazioni del mondo e non sono più bravo o più santo degli altri: invece confesso che quello che mi ha salvato in tante circostanze, che mi ha fatto capire ciò che era giusto e ciò che era sbagliato nella Fede prima ancora che nella morale, era quel Catechismo di San Pio X che, quando ero bambino, il mio catechista mi aveva fatto imparare a memoria.

Ciò non vuol dire che io non sia un peccatore come gli altri, ma certo grazie a quel Catechismo, credo di avere imparato almeno un po’ciò che è vero e ciò che non lo è, se ciò che viene detto a proposito di Dio, di Cristo, della Chiesa, della salvezza, della messa è conforme alla verità o è frutto di riflessioni soggettive e, sempre grazie a quegli strumenti di interpretazione elementari ma efficacissimo, so bene ciò che è giusto e ciò che non lo è, ciò che è gradito a Dio e ciò che non lo è e non posso nascondere a me stesso i miei peccati, né derubricarli a imperfezioni psicologiche o semplici debolezze. Parlo di me, non parlo di altri. Quando io ero bambino, pensi un po’, non si diceva «vado a Catechismo», si diceva «vado a Dottrina»…

Oggi a Catechismo si fanno i cartelloni colorati e poi si portano sull’altare, insieme a pacchi di pasta e a tante altre cose che dovrebbero rappresentare la nostra vita di tutti i giorni. Dicono che così i bambini capiscono meglio la Messa. A me non pare affatto, così i bambini pensano che a Messa si fa come a scuola, solo che a scuola i cartelloni si appendono alle pareti, a Messa all’altare. Risultato: siccome a scuola ci si va come a Messa, la festa é quando suona il campanello. «La Messa è finita andate in pace» diventa allora davvero un «rendiamo grazie a Dio». Infatti a Messa perlopiù ci vanno fino alla cresima, poi fanno la loro bella professione di Fede e – preso il «diploma» –  non si vedono più.

Via via mi sono sempre più reso conto che i nuovi «operatori della pastorale», come vengono definiti con linguaggio burocratico coloro che sono chiamati ad organizzare il Catechismo, con buona pace di molti, una volta gettate le reti, non avrebbero preso nulla: capivo che nel loro aggiornamento autoreferenziale avevano fatto come gli apostoli. Pescavano per sé. E mi sono venute alla mente le parole di Gesù: «chi non raccoglie con me, disperde».

Ma il dramma, caro Emanuele, è che tutte quelle persone che sono passate, sono anime, che magari nel frattempo si sono allontanate e che forse non avranno più un’ occasione nella loro vita di ascoltare almeno qualche scampolo della Verità. E purtroppo ho visto che senza un radicamento profondo e – consentimelo – dottrinale, la Fede è come una casa fondata sulla sabbia, anziché sulla roccia.

Oggi la mia Parrocchia è unita ad altre parrocchie. Hanno costituito le «unità pastorali», un’espressione burocratica che ricorda tanto le Unità Sanitarie Locali. Lo hanno fatto perché non ci sono più sacerdoti ed anche meno fedeli. È un caso? Non credo, se, come viene teorizzato e predicato, il sacerdozio ministeriale può essere riassorbito in quello universale e se il celebrante altri non è che il Presidente dell’assemblea: sovente uno o più diaconi uxorati sostituiscono il sacerdote nella pastorale parrocchiale. Perché mai un giovane dovrebbe essere attratto a fare ciò che può fare da laico? Perché a questo punto «sprecare» una vita, se le stesse cose possono essere fatte da chiunque?

Un altro esempio: è stato anche teorizzato che la libertà religiosa è tale per cui nulla può essere imposto in nome della Fede cattolica all’interno degli ordinamenti politici: a che titolo allora si può chiedere che non vengano introdotte leggi contro la vita, la sessualità ordinata secondo natura, a favore della tutela del matrimonio, contro l’eutanasia? Sì, certo, possiamo anche continuare a discutere su ciò che ci unisce, ma prima o poi dovremo dire ciò che non ci unisce e che quindi ci divide. Non vorrei che tu pensassi che c’è un intimo godimento a sentirsi diviso da qualcun altro: c’è una grande sofferenza, ma questa non elimina la differenza. Peraltro «la fine della storia» non sarà un grande happenning, ma una grande divisione: «egli separerà le pecore dai capri»… e ci sarà chiesto conto anche di quelli che abbiamo perduto.

La carità non si oppone alla Verità, la forma più alta e spesso più difficile di Carità è la Carità della Verità. Ora la Verità non sono io né tu, non è la mia, né la tua opinione, la verità è Cristo. Cristo ieri, oggi, sempre. Potrebbe la Chiesa trasmettere ieri una verità, oggi un’altra, domani un’altra ancora?

La Verità, che è Cristo, può certamente essere oggetto di un continuo approfondimento dottrinale ed interiore, ma a patto che ciò che è nuovo renda più grande ciò che è vecchio. C’è una grande discussione in merito al concetto di Tradizione: persino i modernisti parlano di Tradizione e per plasmarla secondo il proprio punto di vista ne parlano come di «Tradizione vivente».

È un concetto ambiguo, ma se vogliamo prenderlo per buono, allora dobbiamo precisarlo: facciamo l’esempio di una quercia, la quale si può arricchire sempre di nuovi rami, che la renderanno più grande, più maestosa, più in grado di fare ombra. I suoi rami saranno però sempre rami di quercia, uguali e precedenti, con le stesse foglie, con le stesse caratteristiche, solo lanciate più in alto, verso il cielo. Se però, in cima ad uno di quei rami, si innesta il vischio, anch’esso è vivente, ma è un parassita che lentamente, ma inesorabilmente, ucciderà la quercia. In questo senso credo che dobbiamo meditare con molta attenzione e prudenza la frase del Vangelo che dice: «Per questo ogni scriba, divenuto discepolo del regno dei cieli, è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche».

La Tradizione si è caratterizzata per un lento stratificarsi dei dogmi, i quali però erano già tutti impliciti all’inizio ed a mano a mano che si sono manifestati attraverso il Magistero, essi non entravano in contraddizione con i precedenti, ma arricchivano i precedenti. Peraltro Cristo ce l’aveva detto fin dall’inizio, preannunciandoci come questo sarebbe avvenuto: «Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso. Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità, perché non parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annuncerà le cose future. Egli mi glorificherà, perché prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà. Tutto quello che il Padre possiede è mio; per questo ho detto che prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà».

In Cristo abbiamo la vita eterna, Lui dobbiamo annunciare. Ce lo ha detto Lui. Ora la testimonianza deve venire dalla nostra vita, ma per vivere e testimoniare, in qualcosa dobbiamo credere, e questo «qualcosa» non può essere anche il suo contrario.

Vedi io penso alla gente comune, alla gente come me, come te, alla gente che ormai ne sa poco della Fede e ancor meno del Papa, alla gente che ormai quello che dice il Papa non lo impara dalle encicliche o dalle esortazioni apostoliche, che non leggerà mai. Lo impara da quello che dice il Tg di Mentana o La Repubblica, in quella sintesi di qualche minuto che viene fatta da un giornalista, il quale, seppure in buona Fede (e talvolta in malafede, in ossequio alla linea editoriale del giornale cui appartiene), è tenuto a fare il titolo a effetto e la sintesi secondo le regole della comunicazione televisiva. Se il Papa dice che per chi non crede l’importante è seguire la propria coscienza, è chiaro che il suo interlocutore (in quel caso Scalfari, ma in realtà ogni telespettatore) è indotto a credere che quindi la verità è soggettiva e relativa e ognuno può vivere «a modo suo».

Avrà anche ragione Antonio Socci a scrivere che «Scalfari non ha compreso la complessa e delicata dottrina cattolica sulla coscienza e la confonde con «l’opinione», ovvero ciò che uno decide che sia Bene o Male. Ma quando il Papa parla di «coscienza» intende tutt’altra cosa, ovvero «la legge scritta da Dio nell’intimo» dell’uomo»! Ma il problema vero non è se Scalfari l’abbia capito o meno (per me l’ha capito benissimo Scalfari e ci ha marciato!). Il problema è se hanno capito le centinaia di migliaia di spettatori che stavano ascoltando Scalfari e che certo non hanno gli strumenti intellettuali che ha Socci e che certamente non conoscono il n. 1864 del Catechismo della Chiesa Cattolica, che Socci cita, come se fosse pane quotidiano per il pubblico televisivo!

Per questo chiediamo al Papa di essere molto prudente e questa richiesta non può essere interpretata come una «lesa maestà». In una realtà come quella attuale è ormai chiaro a tutti che la verità non è quella che viene detta, ma al contrario quella che viene comunicata.

Alcune frasi del Papa hanno indotto taluni a pensare che la Chiesa si sia conformata al mondo, ma, se così fosse, la Chiesa non sarebbe più la Chiesa di Cristo e questo potrebbe indurre in molti a credere che si possa guadagnare la vita eterna, vivendo semplicemente secondo il mondo.

Non è così.

Anche la misericordia, cioè il perdono nei confronti di tutti non sarebbe possibile vivendo nella logica del mondo: perdonare i nemici non è cosa che viene spontanea, vivendo secondo la logica di questo mondo. È un cambiamento di mentalità, una matànoia, un pensare diversamente.

Come è possibile pensare diversamente, cioè secondo Dio, se si pensa secondo gli uomini? La vita eterna comincia qui, non comincia dopo, comincia qui: in questo senso anche il Regno di Dio è già in mezzo a noi, non ci resta che viverlo e testimoniarlo.

La Verità, specchio di Cristo che ci ha chiesto di essere nel mondo ma non del mondo, è il modo attraverso il quale ognuno di noi è indirizzato a vivere, non secondo il mondo, ma già da qui secondo la Vita di Dio.

Quando verrà la morte se ci troverà nella Vita, ci consegnerà alla Resurrezione per la Vita Eterna, altrimenti solo alla «seconda morte»: «E Colui che sedeva sul trono disse: “Ecco, io faccio nuove tutte le cose”; e soggiunse: “Scrivi, perché queste parole sono certe e veraci. Ecco sono compiute! Io sono l’Alfa e l’Omega, il Principio e la Fine. A colui che ha sete darò gratuitamente acqua della fonte della vita. Chi sarà vittorioso erediterà questi beni; io sarò il suo Dio ed egli sarà mio figlio.  Ma per i vili e gl’increduli, gli abietti e gli omicidi, gl’immorali, i fattucchieri, gli idolàtri e per tutti i mentitori è riservato lo stagno ardente di fuoco e di zolfo. È questa la seconda morte”».

Non so, infine, se come dici tu, io abbia o meno molte cose in comune sul tema con il Direttore e non credo che lui voglia interessarsi molto alle mie opinioni. Io so che quello che dice lui mi interessa sempre, come sempre mi interessa il pensiero degli uomini liberi. Di certo so che considero il rosario la miglior medicina politica per l’Italia e una preghiera quotidiana con il cuore per il Papa e secondo le intenzioni del Papa la cosa migliore che possiamo fare per Lui. Perché sia chiaro: chiedere al Papa di essere confermati nella Fede, facendogli notare che il suo modo di esprimersi può aver dato luogo talvolta a dubbi e fraintendimenti, non è affatto un atto di ostilità nei confronti del Papa e non significa non amare il Papa: è un atto di lealtà ed è un atto di amore, sincero, libero, disinteressato.

Vedo che un altro lettore, Piero Canonico, è anche lui molto arrabbiato per le mie considerazioni a proposito di Gnocchi e Palmaro, rimproverando ai due di «non aver proferito un sospiro sulla Siria in questi anni». Non credo affatto sia così e comunque basterebbe chiedere loro cosa ne pensano: non mi pare che il loro cattolicesimo possa essere confuso con quello teo-con o cristiano-sionista.

Sui riposizionamenti filo-russi di padre Livio Fanzaga non dico nulla, non li ho ascoltati, me ne rallegro, non so quanto saranno duraturi… Mi pare di ricordare un tempo in cui non la pensava proprio così.

Su Mediugorje, infine, io non ho fatto tesi di laurea, ma la mia posizione l’ho espressa su questo sito in qualche circostanza, ribadendo sempre una sola cosa: attendo che si pronunci ufficialmente la Chiesa e fin qui si è pronunciata per la non soprannaturalità degli eventi. So bene che spesso è accaduto così anche in altri casi analoghi, e quindi capisco che ci siano «i tifosi» che spingono per il riconoscimento. È evidente che non potrà arrivare finché i presunti eventi soprannaturali sarebbero in atto e quindi non ci resta che attendere. Ciò che mi dà fastidio è che qualcuno ritenga di potersi «profeticamente» distaccare dal magistero ufficiale quando gli pare e neghi contemporaneamente ad altri di esprimere il proprio gradimento sui modi espressivi del Magistero.

È chiaro che non rivendico il diritto al dissenso, ma solo quello alla chiarezza e alla fedeltà, tant’è che oramai da anni su tutte le ambiguità postconciliari ho sempre sostenuto – anche contro la posizione di molti c.d. Tradizionalisti – che l’unica linea realistica è quella della corretta ermeneutica, proposta da ultimo da Benedetto XVI e non vorrei essere censurato da «ultrapapisti», ma a geometria variabile.

Domenico Savino


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