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La missione di Khaled: Raccontare la Shoah ai ragazzi palestinesi
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La firma dice tutto: David Frattini, propagandista ebraico

BETLEMME
— Il militare israeliano che al posto di blocco perquisisce il bagagliaio non si aspetta di trovare quella foto. Bianco e nero. Un bambino con le mani alzate, i fucili puntati dei soldati tedeschi. E' l'immagine simbolo dell'Olocausto e la didascalia — «1943, Ghetto di Varsavia» — è scritta in arabo. Come arabo è il guidatore, che ha viaggiato da Nazareth a Betlemme per incontrare i giovani del campo rifugiati di Dheishe e raccontare loro quello che non hanno letto nei libri di scuola.

Khaled Ksab Mahamid ci mette i suoi soldi (ha comprato ottanta pannelli dallo Yad Vashem) e il suo tempo. Ci ha rimesso il saluto dei vicini e il rispetto del fratello. Per lui è una missione: «I leader arabi temono che parlare dell'Olocausto significhi legittimare il trattamento inflitto dagli israeliani ai palestinesi. Invece, i palestinési devono studiare la Shoah per capire meglio il popolo ebraico e cominciare a sviluppare una storia comune». Questo avvocato di mezza età ha aperto un museo a Nazareth («il primo e unico per gli arabi», sostiene) e nei fine settimana gira per le città e i villaggi della Cisgiordania, dove lo invitano e dove riesce a imporsi («non ho rapporti ufficiali con l'Autorità palestinese»).

La lezione porta via due ore a un annoiato sabato pomeriggio di Betlemme. I ragazzi siedono attorno a un tavolo, Khaled sta in mezzo e provoca. Fa girare un opuscolo pubblicato da Yad Vashem, che lui ha tradotto. Discute di numeri e paragoni: «Non chiamate l'aggressione contro Gaza un Olocausto, è controproducente. Diciamo che i morti nella Striscia sono 1.500, come potete confrontarli con sei milioni?». Uno studente universitario obbietta che la cifra è più bassa. Il «professore» risponde con un esempio: «In Ungheria, tutti gli ebrei sono stati sterminati».

Khaled racconta di aver cominciato a interessarsi alla Shoah da giovane, dopo aver visto le fotografie delle atrocità naziste e di aver approfondito le ricerche all'università ebraica di Gerusalemme, dove ha studiato anche relazioni internazionali e sociologia. I critici lo accusano di danneggiare la causa palestinese. «Gli ho proposto di aprire un centro studi sul sionismo per spiegare che sta all'origine della Nakba e del nostro dolore. Io non voglio comprendere il mio dramma attraverso le lenti dell'Olocausto», commenta Hashem Mahamid, un parente ed ex deputato nel parlamento israeliano.

La famiglia è originaria del villaggio di Lajoun, la biblica Megiddo. L'avvocato è andato a vedere la casa dei genitori, ha conosciuto gli ebrei che ci abitano. E' convinto che ogni palestinese — gli abitanti dei campi rifugiati 0 gli arabi israeliani come lui — porti con sé la memoria collettiva della «catastrofe» del 1948 («non c'è bisogno di affiancare le foto della nostra espulsione a quelle dei massacri nazisti»). «I palestinesi — continua — devono conoscere quello che non gli viene insegnato, senza aver paura che l'orrore dell'Olocausto possa indebolire la loro immagine internazionale di vittime. Siamo noi che stiamo pagando per quello che avvenne in Europa sessant'anni fa e continueremo a farlo, se non impariamo che cosa successe».

Qualcuno tra i ragazzi di Dheishe si lascia convincere. «E' la prima volta che sento queste idee — dice Alaa Hamdan, appena entrato all'università Al Quds —. Ha ragione, non si possono paragonare le atrocità». Israr invece non crede sia possibile parlare ai «nemici», «perché ci sono quarantadue milioni di giorni (moltiplica i morti per la settimana tradizionale nel lutto ebraico, ndr) dedicati a commemorare l'Olocausto. Non si può chiedere nulla, non ti stanno ad ascoltare».

Khaled Mahamid partecipa anche alle manifestazioni contro la barriera disicurezza a Naalin. Settimana scorsa, ha proposto di innalzare nel corteo le fotografie dei massacri commessi dai nazisti per disorientare ma anche connettersi con i soldati israeliani. Gli organizzatori ne hanno discusso e hanno temuto le reazioni dei dimostranti palestinesi. Lui che si oppone alla resistenza violenta suggerisce: «La Shoah è l'arma che non stiamo usando».

Davide Frattini

Fonte >
  Corriere della Sera | 23 luglio


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