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Ricordo di Filiberto Guala
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Padre Filiberto Guala, nel 1975, a san Biagio
(fotografia dell’autore)
Una domenica di febbraio, nel 1975.
Alcune persone infreddolite scesero dalle auto, in uno slargo davanti ad un malandato edificio, metà cascina e metà chiesa, immerso nella campagna.
Una vaga nebbia saliva da un rialzo ancora innevato, ove un gruppo di corvi saltellava gracchiando, nel prossimo tramonto.
L’accompagnatore diceva che lì dentro viveva un personaggio un tempo famoso, che aveva lasciato tutto per farsi monaco: «Mai sentito parlare del manager Filiberto Guala?».
Le smorfie negative lo invitarono a parlare.
«E’ stato uno dei grandi nomi del dopoguerra italiano, grande amico di La Pira, Lazzati, Dossetti, Fanfani».
L’indifferenza fu adombrata da altre smorfie.
Il più giovane con barba e capelli lunghi scuoteva la testa, e chiedeva di andar via.
L’accompagnatore tuttavia insisteva: «Ma si staccò dai democristiani. Dovete conoscerlo. E’ una persona eccezionale. Pensateci. Con la corruzione che dilaga, la sete di successo, non capita spesso di trovare qualcuno che, dopo aver raggiunto posti ambitissimi di potere, li abbandoni drasticamente, per rifugiarsi in un eremo sperduto nella campagna cuneese».
Infatti, l’ingegnere torinese Filiberto Guala (1907 - 2000) occupò prestigiose cariche, a partire dalla direzione dell’acquedotto di Torino, alla nomina a presidente e direttore dei lavori del piano INA-Casa (il piano Fanfani), fino all’incarico di primo amministratore delegato della RAI.
Quando diventammo amici, confidò che avevano fatto il suo nome per sostituire Enrico Mattei al vertice dell’ENI.
Ma al di là della brillante carriera manageriale, è assai più rilevante il ruolo che nel corso di tutta la sua lunga vita egli svolse nell’ambito del cattolicesimo.
Influenzato dalla figura del beato Piergiorgio Frassati, che aveva frequentato il Politecnico torinese pochi anni prima di lui, Guala ricalcò la sua spiritualità nell’ambito della FUCI, insieme agli amici Roberto Einaudi, Domenico Garelli, Carlo Carretto ed altri.
Finché a trentun anni conobbe chi gli cambiò la vita: don Luigi Orione.
Oggi santo.
Allora infaticabile sacerdote impegnato in opere di carità sociali, che ancora producono frutti in tutto il mondo.

Sulla tratta ferroviaria, Torino Savona, città nella quale Guala era stato chiamato a dirigere i lavori per il raddoppio della funivia mineraria, i due ogni giovedì ebbero modo non solo di conversare, ma soprattutto di pregare e di stare insieme la sera.
Fu in quegli incontri, che don Orione prese a cuore le sorti del giovane ingegnere, infondendogli la fede nella Divina Provvidenza, che a ben vedere sempre manovra e dirige, dietro le quinte, gli eventi cruciali della vita di ogni uomo.
Don Orione una volta gli disse che se gli avessero proposto qualunque cosa che gli altri non erano in grado di fare, egli avrebbe dovuto accettare di farla, sottintendendo così una speciale protezione celeste.
E quando qualche anno dopo a Guala venne offerta la direzione, e la fondazione, della moderna RAI, egli pur non sentendosi adeguato ed in sintonia con quel compito e con quella dimensione, ricordò quel monito di don Orione.
Ed accettò.
La sua nomina alla RAI durò solo due anni, poi diede le dimissioni.
Ma fu un biennio assai significativo, nel quale egli testimoniò coerentemente la sua fede e delineò molte linee operative dell’attuale RAI, restando tuttavia al di fuori delle logiche clientelari, do ut des, che resero la DC tristemente famosa.
Ad esempio, per assumere nuovi registi, sceneggiatori, funzionari, Guala rifiutò ogni tipo raccomandazione.
Bandì invece un concorso.
I concorrenti furono 4.000.
I selezionati 40.
Oggi divenuti famosi, ma allora perfettamente sconosciuti.
Questi nuovi assunti vennero soprannominati i «corsari», fra i quali, Umberto Eco, Gianni Vattimo, Furio Colombo.
Alla RAI, Guala venne ridicolizzato per la sua intransigente etica cristiana, e per il suo profondo anticomunismo.
Celebre e molto criticato tra l’altro il suo codice comportamentale, le parole che andavano bandite dai servizi: «membro», «amante», «cazzotto»… .
Famosi, insieme ai mutandoni fatti indossare alle ballerine, i suoi scontri con il capo redattore del telegiornale, Vittorio Veltroni, padre del più noto Walter, per il risalto dato in qualche servizio ai capi dell’opposizione.

Nel frattempo, Filiberto si consolava dalle amarezze professionali, in genere proporzionali all’impegno erogato, prendendo forza e vigore dalla sua Fede, sostenuto e guidato in questo anche dal cardinale di Milano, Giambattista Montini, futuro Paolo VI, che lo aveva indirizzato ad essere ingegnere di successo, per servire la Chiesa, senza diventare sacerdote, ma come laico consacrato. Egli si adoperò pertanto in molteplici opere di carità.
Tra le quali, l’Apostolato del Mare, a Savona, finalizzata ad evangelizzare quei marittimi costretti a stare lontano dagli affetti familiari e dalla pratiche religiose.
Pur di non farli andare nel loro posto preferito, il postribolo, l’intraprendente Guala, con l’aiuto di amici sacerdoti, riuscì a trovare un locale e più di tutto delle giovani ragazze, fidatissime, disposte ad intrattenere quella gente di porto con la recita del rosario e la lettura del Vangelo, testimoniando così la vicinanza e l’amore della Chiesa soprattutto verso le persone più lontane.
Tuttavia, questa vocazione laicale, pur se pienamente realizzata, cominciò ad andargli stretta.
La sua sequela Christi esigeva una risposta ancora più radicale, definitiva, senza più compromessi ed equilibri fra Dio e mondo.
L’occasione venne offerta dal «caso».
O, come disse egli stesso, da don Orione che in precedenza, a differenza di Montini, non aveva escluso per lui la possibilità del sacerdozio.
Forse san Luigi Orione pensava che Guala si facesse orionino.
Invece, successe quel che era successo anche a lui, che pur avendo conosciuto bene don Bosco, non si fece salesiano.
Infatti, sul finire degli anni cinquanta, il successore di don Orione chiese a Filiberto di accompagnare nell’abbazia di Citeaux un sacerdote che voleva farsi trappista.
Ma invece del sacerdote, trovò la vocazione proprio lui, Guala, che affascinato dalla tradizione cistercense e constatando la possibilità di vivere nel silenzio monastico il resto della propria vita, non ci pensò due volte ad abbandonare il mondo e gli amici dossettiani.
In breve, lasciò tutti gli incarichi, senza più voltarsi indietro, abbracciando definitivamente la millenaria regola benedettina.

Nel 1960, si parlò di una vera e propria scomparsa del brillante e singolare ingegnere.
Se ne occuparono le cronache.
Finché si seppe che aveva ottenuto, malgrado l’età, cinquantatrè anni, l’autorizzazione ad entrare nella trappa delle Frattocchie.
Dove restò per altri quarant’anni, tempo biblico, fino al 2000, quando la vigilia di Natale entrò nella «terra promessa».
Papa Giovanni XXIII, dopo una visita alle Frattocchie, ebbe a dire di lui al suo segretario, monsignor Capovilla: «La risposta di Guala alla chiamata è un segno evidente del misterioso lavorio della grazia divina, un monito a quanti indaffarati e scontenti cercano, fuori strada, il vero e il bello della rivelazione… Ecco, un uomo così entra nei confini della pace e della quiete».
Non è che in questi quarant’anni di vita trappista non successe più nulla.
Anzi.
Furono gli anni migliori, quelli della vera realizzazione.
Tra le mura dell’abbazia, padre Filiberto ebbe modo di trascendere se stesso per rifugiarsi in Dio.
In un appunto, scrisse: «La vita spirituale è un idillio d’amore fra Dio e l’anima, conosciuto e gustato soltanto da colui che si consegna all’amore infinito incondizionatamente, ed è scoperto dai piccoli e dai puri di cuore. Come saliamo in montagna passo dopo passo, così qui si avanza col progredire di due valori legati l’un l’altro in una doppia dipendenza: la preghiera espressa, e lo stare davanti al volto di Dio, stare sotto la sua guida. L’atteggiamento di desiderio di Dio è frutto dei tempi di preghiera insopprimibili, ma a sua volta aumenta la preghiera. Sono due momenti che si succedono, poi fluiscono l’uno nell’altro, per passare da una preghiera che, per così dire, germoglia dal lavoro, a offrire a Dio come un frutto la propria vita e riceverla indietro da Dio rivestita di un significato nuovo. Pregare è liberarsi delle cose di quaggiù, perché Dio ci riempia delle cose di lassù».
Anche negli ultimi e dolorosi anni, ebbe un contatto continuo con le persone più disparate, che si rivolgevano a lui, per trovare amicizia e sollievo.
In una stanzetta della trappa delle Frattocchie, egli attendeva le visite da solo, su una sedia a rotelle, al buio.
Solo quando arrivava qualche visitatore, accendeva la luce.

In una di quelle visite, spesso penose per la sua crescente prostrazione fisica, confidò una profezia di don Orione: «Dall’Italia prenderà avvio un movimento, che si diffonderà rapidamente in tutto il mondo, per la gloria di Dio».
Disse proprio così, senza aggiungere altro.
Chiese invece di pregare insieme il santo Rosario.
Non riusciva più a pronunciare tutte le parole dell’Ave Maria.
Volle che a guidare quella volta fossi io.
In fondo, ero una sua conquista.
Una «preda» catturata ai tempi di San Biagio, quando aveva vissuto l’esperienza eremitica più dura e affascinante.
Un monastero abbandonato, risalente all’anno mille, nel quale far rivivere la tradizione cistercense. E’ curioso constatare che spesso quanto più le persone cerchino di isolarsi, tanto più si ritrovino circondate da gente di ogni genere.
Padre Filiberto è un esempio lampante, del quale sono testimone.
Infatti, senza saperlo, una mano misteriosa guidò anche me su quelle colline, nel cuore degli anni settanta, tramite l’insistenza di un cugino, che dopo una cerimonia aveva voluto portarci proprio lì, in mezzo al freddo e ai campi sbiancati dalla neve.
Chi poteva immaginare che proprio la persona allora più distante e refrattaria alla dimensione religiosa, sarebbe tornata ripetutamente in quell’eremo e da quel trappista, seguendo fedelmente la sua direzione, attingendone per quanto possibile indole e grazia?
Insomma, proprio quando gli altri, che a ritmo soffiavano nelle mani e battevano i piedi gelati, si decisero ad andar via.

Proprio allora, emerse dalla stalla, insieme a muggiti e vapori di stallatico, una figura minuta, con un saio bianco e lo scapolare nero.
Mio cugino ammiccò: «E’ lui».
Viso tondo, capelli rasati, occhi allegri, intensi, chiari, la voce calorosa ed entusiasta.
Si scusò per il ritardo, tendendoci le mani, che ancora grondavano latte.
Non aveva sentito la campanella.
Ci accolse tutti come amici di vecchia data, facendoci strada nel cortile, verso la porticina che introduceva nell’antico e malandato monastero.
Lo seguimmo in fila su gradini alti e stretti, guardando di sfuggita la cappella appena restaurata. Annusando in quell’aria un profumo per noi nuovo.
Un profumo di preghiera.

Giancarlo Infante

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