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«Un’altra guerra contro Hamas è inevitabile»
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«Un’altra guerra contro Hams è inevitabile»: l’ha sancito il generale israeliano Tom Samia, già capo del Comando Sud (quello contro Gaza), in un’intervista alla radio dell’esercito.

Perchè un altro attacco, dopo le stragi e le distruzioni compiute poco più di un anno fa con «Piombo Fuso»? Perchè, ha detto il generale, «non è da credere che Hamas di colpo si arrenda senza essere colpito molto più gravemente di quanto è stato con
Piombo Fuso». Isarele, stavolta, deve sferrare «un colpo più concentrato con effetti di più lunga durata», anche con la rinnovata occupazione di alcune aree di Gaza. «Dobbiamo creare una situazione in cui Hamas resti senza ossigeno».

IDF_thumb1.jpgLa dichiarazione dell’ex capo del Southern Command è stata confermata dall’attuale capo del Southern Command, generale Yoav Galant. «La quiete del fronte Sud è temporanea», ha avvertito Galant durante una visita ai comuni israeliani a ridosso della Striscia col suo milione e mezzo di prigionieri affamati (che sarebbe il Fronte Sud). Niente paura, ha aggiunto: il glorioso Tsahal si sta tenacemente addestrando per il prossimo conflitto, e «i civili si stanno ben preparando per un’altra tornata di combattimenti». ('Another war with Hamas is inevitable')

Queste dichiarazioni bellicose vengono proprio nel momento in cui Hamas, che controlla la Striscia, sta premendo sulle altre fazioni di resistenza palestinesi perchè smettano di tirare i loro razzetti  oltre confine. La settimana scorsa alcune fazioni che non rispondono ad Hamas (Jihad Islamica, Fronte Popolare e non precisati Comitati di resistenza popolare) hanno sparato una decina di missili giovedì 14 gennaio. Risultato: nove morti fra i palestinesi, per le rappresaglie dei caccia F-16 israeliani. Nessuna vittima dall’altra parte. (Le Hamas exhorte à cesser les pilonnages d'Israël)

L’anno scorso, finita l’operazione Piombo Colato, Israele rifiutò di entrare in formale stato di tregua con Hamas (non gli si deve riconoscere nemmeno la dignità di nemico). Nonostante questo, Hamas ha dichiarato una tregua unilaterale e l’ha osservata, per quanto consentano le fazioni più estremiste che evidentemente non controlla. Israele per contro ha indurito la «cura dimagrante» – ossia il blocco di ogni bene essenziale a Gaza – contando che questo facesse mancare l’ossigeno ad Hamas, ossia il favore della popolazione assediata ed affamata.

I risultati non devono essere brillanti. La Autorità Palestinese, il gruppo rivale di Hamas favorito da Israele, il cui capo Mahmud Abbas campa in Cisgiordania (Territori Occupati) solo grazie al sostegno israelo americano, ha fatto perdere la pazienza ad Efraim Halevy, ex capo del Mossad: «Abbas è inutile ed è tempo di rovesciarlo», ha detto Halevy sempre alla radio dell’esercito.

«Appena Israele e USA smettono di finanziarlo, l’Autorità Palestinese svanirà. Abbas e la sua fazione devono riconoscerlo, e agire con modestia nelle loro minacce ad Israele».

Le terribili minacce ad Israele da parte dell’Autorità Palestinese: ha condannato pubblicamente le nuove espansioni degli insediamenti ebraici nei Territori Occupati, che Israele continua nonostante le implorazioni del presidente americano, e dichiarato che Abu Abbas non avrebbe ripreso i negoziati se non cessavano le espansioni. Quali negoziati non si sa, visto che il regime israeliano non negozia con l’Autorità Palestinese sugli insediamenti, che avvengono sulle terre che l’Autorità, col permesso di Sion, controlla un poco. Di fatto, non riconosce come interlocutore la suddetta Autorità, nè riconosce come nemico legittimo Hamas. Israele negozia solo con se stessa.

In compenso, il capo dello Shin Beth Yuval Diskin ha minacciato Abu Mazen, l’ottobre scorso, con queste parole: se non chiedi alle Nazioni Unite di rimandare il voto sul Rapporto Goldstone,  ridurremo la tua Cisgiordania “in una seconda Gaza”. Una minaccia un po’ più concreta. Abu Mazen ha chiesto all’Onu di rimandare la votazione. (Diskin to Abbas: Defer UN vote on Goldstone or face 'second Gaza')

IDF_thumb3.jpgSCANSANO LA LEVA 40 SU CENTO – I generali israeliani sono sempre scontenti di qualcosa. Il generale Azi Zamir, che comanda il direttorato del personale di Tsahal, s’è lamentato con il corpo insegnante delle scuole perchè «non instilla abbastanza i valori militari nella gioventù». Il fatto è, spiega l’accasciato generale, che il 28% dei ragazzi, e il 46% delle ragazze, evitano di arruolarsi. Fatta la media, ben 37 giovani israeliani su 100 scansano il servizio di leva. Anzitutto i giovani delle scuole talmudiche, e proprio i più fanatici haredim, hanno ottenuto dal parlamento l’esenzione legale del servizio (devono studiare la Torah). Ma molti, sospetta il generale, si dichiarano «haredim» e studenti talmudici proprio per scansare la naja.

Specialmente il 38% delle ragazze «usano l’argomento falso dell’osservanza religiosa per evitare la leva. E’ una strumentalizzazione cinica della legge», ha tuonato il generale: «Già oggi il concetto di nazione in armi è in demolizione, e se questa tendenza continua saremo presto sull’orlo dell’abisso».



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Sull’orlo dell’abisso? «Se si conta la gioventù arabo-israeliana, siamo di fronte a una situazione in cui il 70% dei giovani non fa il servizio militare», lamenta il generale Zamir.

Ai giovani arabi, benchè in teoria cittadini, in Israele è vietato fare il servizio militare. Sarebbe «la morte di Israele come Stato ebraico» (dizione equivalente a «La morte della Germania come Stato ariano»), la minoranza etnica deve restare disarmata: come gli iloti a Sparta. E’ la sola democrazia del Medio Oriente.

Il peso del servizio armato, ha lamentato ancora il generale, è ben lungi dall’essere equamente distribuito: «La Israeli Defense Force ha attualmente 450 mila riservisti fra i 21 e i 40 anni, ma solo 100 mila di loro si presentano ad adempiere ai 10 giorni di servizio della riserva all’anno».

IDF.jpgIn compenso, grandi sforzi ha riconosciuto il generale sono stati messi in atto per convincere gli haredim a fare i soldati. Vengono inquadrati in corpi speciali, coi loro rabbini di fiducia come cappellani militari, e sono assicurate loro le ore di studio talmudico. Ben mille haredim l’anno sono così arruolati. Molte delle atrocità commesse a Gaza sono state perpetrate da questi «religiosi» in armi, piamente obbedienti alle ingiunzioni di sterminio contenute nella Bibbia. Il guaio è che i soldati haredim obbediscono più ai loro rabbini che ai loro colonnelli laici, e sempre più spesso si mettono al servizio dei coloni ebraici negli insediamenti illegali. (Officer: IDF on brink of abyss over draft dodging)

«Bisogna fare di più», ha aggiunto il generale, «per aiutare i soldati che completano il loro serizio, specialmente i 20 mila soldati combattenti dimessi ogni anno dopo un servizio estremamente massacrante». E’ la parola esatta: massacrante. Esausti dal massacro, i giovani sono spesso mandati all’estero in vacanze pagate dallo Stato, per sanare le loro ferite psichiche. Alcuni vanno persino a New York a fare i traslocatori. Altri a Bombay, attratti dalla spiritualità indù.


GLI EBREI ETIOPICI, STRANAMENTE STERILI – Soprattutto, non danno il loro contributo alla leva israeliana gli ebrei di origine etiopica: quei 90 mila che sono stati portati in Israele fin dagli anni ‘80, ma la cui ebraicità è contestata dai rabbini più rigorosi e dall’opinione pubblica askenazi. Formalmente cittadini isaraeliani, i «tornati» dall’Etiopia subiscono ogni genere di discriminazioni; la difficoltà di trovar lavoro, di ricevere una decente istruzione, e persino di trovare un ebreo disposto ad affittare loro una casa, ne fa una sottocasta disprezzata. la più povera e misera dello Stato ebraico. Tempo fa, scoppiò uno scandalo sanitario: si scoprì che il sangue donato dagli ebrei etiopici veniva gettato via, perchè nessun vero ebreo accettava di farsi trasfondere il sangue di «negri».

La comunità etiopica è anche la meno demograficamente fertile. Lo strano fatto è stato scoperto dalla signora Rachel Mangoli, che gestisce un asilo infantile per i bambini etiopici a Bnei Braq, sobborgo di Tel Aviv. «Ho cominciato a  pensarci quando ho dovuto mandare indietro degli indumenti per l’infanzia che mi erano stati donati, perchè non c’era nessn neonato a cui darli». Di fatto, nel suo asilo, è arrivato solo un nuovo bambino negli ultimi tre anni.

Rachel Mangoli ha chiesto spiegazioni all’ambulatorio locale, che si occupa della sanità di 55 famiglie etiopiche a Bnei Braq. «Il dirigente dell’ambulatorio mi ha risposto che avevano avuto istruzioni di somministrare iniezioni di Depo Provera alle etiopiche di età fertile, ma non mi ha voluto dire da chi aveva ricevuto l’ordine».

Il Depo Provera è un anticoncezionale usato molto di rado per i suoi gravi effetti collaterali (fra cui l’osteoporosi), ma che in compenso dà una sterilità quasi permanente. E’ stato talvolta iniettato nel Sudafrica dell’apartheid, all’insaputa delle donne negre.

La signora Mangoli ha denunciato il fatto a «Woman to Woman», un’organizzazione femminista di Haifa. Il gruppo, nel giugno 2008, ha interpellato il ministro della Sanità Yaacov Ben Yezri: il quale ha fatto rispondere che le etiopiche hanno «una preferenza culturale» per il Depo Provera.

Insomma: erano loro che preferivano l’iniezione alla pillola. Allora Women to Women ha mandato cinque donne ebree (non etiopiche) a chiedere ai loro dottori l’anticoncezionale Depo Provera, e si sono sentite rispondere di no, che quel farmaco poteva venire prescritto in casi molto particolari. Essenzialmente, solo a donne «primitive» e incapaci di gestire la loro sessualità «in modo responsabile». Il gruppo femminista lamenta che la sua indagine è stata ostacolata dal rifiuto di collaborare di ministri, medici e compagnie d’assicurazione sanitaria.

Alla fine, però, l’organizzazione è riuscita a pubblicare un rapporto-denunci sulla faccenda. «Si tratta di ridurre la natalità in un gruppo che è nero e per lo più povero», conclude Hedva Eyal, l’autrice del rapporto di «Womam to Woman»: «La direttiva inconfessata è che solo i bambini bianchi e askenazi sono graditi in Israele». dobbiamo questa preziosa informazione a Jonathan Cook, il coraggioso giornalista britannico che scrive da Nazareth. (Israel’s treatment of Ethiopians ‘racist’)


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