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Alessandro Profumo
I banchieri non hanno sbagliato hanno invece tradito
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Ogni critica per apparire credibile deve essere preceduta da un’autocritica. Per le banche vale la vecchia battuta sugli avvocati: «E’ più facile dirne male che farne a meno».

La crisi finanziaria sta ancor oggi dilaniando le «carni» della povera gente. Non vanno però dimenticati i momenti dell’euforia, quando investire significava poter guadagnare in un anno anche il 20% del capitale investito. Un oceano di «fessi» (di povera gente ingannata dalla propaganda capitalista e mondialista) sognava di vivere grazie agli investimenti finanziari (in quattro, cinque anni – senza far nulla – sognavano di raddoppiare il capitale investito con operazioni finanziarie che avrebbero dovuto garantire un rendimento del 20% l’anno, quando il normale rendimento societario in un’azienda si aggira attorno al 5-6% l’anno il cosiddetto «ROE», Return On common Equity).

Poi nel Settembre 2008 (15 settembre 2008 fallimento Lehman Brothers, 639 miliardi di dollari di «buco», il più grosso fallimento della storia) il tonfo, la botta e che botta (ma attenzione le banche italiane ed europee in Italia ed in Europa non ci hanno rimesso un centesimo, le perdite spaventose sono avvenute negli USA!). Le azioni Unicredit, quotate a euro 7.5, precipitavano a 70 centesimi (oggi «galleggiano» attorno ai 2 euro). Quelle del Banco Popolare da 24 euro a 1 euro e 98 centesimi (con le banche d’affari che fino al giorno prima imbonivano i risparmiatori facendo previsioni di raggiungere la quotazione di 27 euro ad azione! Oggi le azioni della Popolare vanno su e giù dai 5 euro) e via discorrendo di «bagno di sangue» in «bagno di sangue».

Al momento del crollo della Borsa, l’amministratore delegato di Unicredit, Alessandro Profumo, guadagnava 25.000 euro al giorno, quando una cifra del genere un suo impiegato non sarebbe riuscito a guadagnarla nemmeno in un anno di lavoro. Ma non è il solo: si pensi a Giancarlo Cimoli ex a.d. di Alitalia. Nel solo 2006 la compagnia di bandiera registrerà perdite per 626 milioni di euro, lo stipendio di Cimoli nello stesso anno 2006 era pari ad un milione e mezzo. Nel 2005 le Ferrovie hanno avuto una perdita di 472 milioni di euro. L’a.d. Elio Catania nello stesso anno ha percepito un compenso  di un milione e 930 mila euro, di cui 350 mila per aver raggiunto «gli obiettivi assegnatigli» (sic).

Chi voglia «vergognarsi» di più per questi affamatori del popolo italiano, legga «La paga dei Padroni» di Dragoni e Meletti edito da Chiarelettere. E i «Profumo» (perché l’esempio potrebbe essere esteso ad una miriade di banchieri in Italia e nel mondo (basti leggere il recente romanzo, per niente fantasioso, «Senza Fondo, confessioni di un banchiere corrotto», edito da Rizzoli), i «Profumo» mica hanno 365 figli in più dei propri impiegati, mica mangiano 365 volte di più. Con un ulteriore particolare, l’impiegato la benzina dell’auto se la paga, il telefonino pure, il caffè anche.

I «Profumo» sono spesati di tutto e di più, 365 giorni l’anno, 24 ore al giorno. Ogni cosa, ogni desiderio, ogni capriccio, anche il ricambio delle mutande, rientra nell’enorme calderone delle spese di rappresentanza. E i «Profumo» come giustificano questi compensi spaziali?

1) Le responsabilità: «Sapete voi miseri figli di un Dio minore, quali e quante responsabilità abbiamo noi Banchieri, beati figli di un Dio maggiore?».
2) I risultati raggiunti : «I nostri stipendi sono rapportati agli obiettivi conseguiti».

Le responsabilità? Nessun banchiere ha pagato né con la galera né con il portafogli né oggi, né domani, né mai per i danni causati agli azionisti ridotti sul lastrico.

Gli obiettivi conseguiti? Ma se hanno portato le banche e le industrie al disastro, quando mai si è visto in questi anni un banchiere restituire il maltolto?

L’ultimo impiegato dell’ultima banca che affidasse in modo scriteriato un imprenditore e questi non restituisse i denari prestatigli, ebbene quell’impiegato, famiglia o non famiglia, figli o non figli, colpa grave o lieve, perderebbe il posto. Non i «Profumo» che sono andati a «sputtanare» i denari dei risparmiatori italiani (Unicredit per 75 milioni di euro, Banco Popolare per 8 milioni di euro) fidandosi della «catena di Sant’Antonio» dell’ebreo Madoff (consigliere della Yeshiva University, presidente del Nasdaq-listino dei titoli tecnologici, etc., etc.).

L’ebreo Madoff ha «tirato un pacco» al mondo di 60 miliardi di dollari, in quattro e quattr’otto hanno chiuso il processo, così non si è indagato sui complici di Madoff e l’opinione pubblica la si è «soddisfatta» con i 150 anni di carcere. I «Profumo» hanno tranquillamente mantenuto i loro posti dorati. Anzi, di più, proprio nei giorni scorsi Alessandro Profumo per andarsene da Unicredit avrebbe preteso una «buona uscita» di ventiduemilioni e mezzo di euro. Per i disastri combinati Profumo meriterebbe ventiduemilioni e mezzo sì, ma di calci nel c…!

E Fabietto – Fabio Innocenzi l’a. d. del Banco Popolare, dopo aver partecipato alla «strage degli innocenti» di Italease (si legga il capitolo dedicato allo scandalo Italease nel libro: «Prendo i soldi e scappo», di F Bonazzi e Bankomat, Il Saggiatore, pagine 108 e seguenti) , dopo aver fatto perdere  il 90% del valore delle azioni del Banco Popolare, «Fabietto» Innocenzi se ne è andato con tutti gli onori e una gratifica di ben 4 milioni di euro. Addirittura (il presidente del Banco è un avvocato, una miriade di avvocati affollano l’ufficio legale interno del Bancopolare), senza nemmeno fosse prevista la normalissima e usualissima clausola di non concorrenza, tanto che il giorno dopo Fabietto è «volato» a Banca Intesa, la prima concorrente del Banco Popolare sul territorio.

I poveri azionisti? «Cornuti e mazziati», come al solito. Ma che i «Profumo» anche solo osino chiedere buone uscite faraoniche erogate o anche solo richieste, significa forse che i consiglieri di ammistrazione, i  maggiori soci, siano di colpo rincoglioniti? Rincoglioniti no, ma ricattati si. Chi è ricattato?

Solo chi può essere ricattabile, chi ha «scheletri» negli armadi. Tutti i bilanci sono «falsi», ma quelli delle banche ancor di più. Il perché è semplice, per quanto un imprenditore «tarocchi» un bilancio alla «fine della fiera» ci vogliono i soldi, i «schei», i «piccioli», ma per le banche i dividendi da distribuire ai soci sono uno scherzo. Servono i soldi per i dividendi?

Basta andarli a prendere dai propri creditori, ovvero dai depositi dei clienti. Quattro alchimie contabili [dal ragionier Tonna, della Parmalat, ai revisori dei conti dal «doppio» cognome, titoli accademici altisonanti, per la più parte provenienti  dall’Università Bocconi, «la madre di tutti i sapientoni…»], a questi revisori che per il gettone di presenza e una raccomandazione a favore del proprio importante cliente di studio passano tutto e tutto scorre («panta rei»).

Fantasie? Calunnie? Provate a chiedere alle banche di far nominare i revisori dei conti per sorteggio (ad esempio dagli albi professionali dei dottori commercialisti) e non dai soci (che hanno contestualmente nominato gli amministratori); non lo faranno mai. Controllati e controllori devono continuare a rispondere ai medesimi centri di potere.

Unicredit ha 100 mila dipendenti, filiali in 22 Paesi del mondo, come si può dall’esterno verificare l’attendibilità del bilancio depositato? Le società di revisione? Ma non facciamo ridere, sono legate a doppio filo alle banche d’affari (che a loro volta sono legate alle società di consulenza ed a quelle di valutazione, i cosiddetti rating) sono pagate fior di quattrini dagli stessi clienti ai quali dovrebbero «far le pulci» dei bilanci. I collaboratori delle società di revisione? Quattro parole inglesi per quattro bravi ragazzi, appena usciti dall’università, sottopagati, super sfruttati, costretti ad esaminare solo quello che le banche vogliono far loro vedere e se chiedono una carta in più (in rima baciata), quella banca non la vedranno più, perché dirottati in altre sedi ancor più disagiate. La crisi finanziaria consiglierebbe, ancora una volta, di guardarci indietro su «come eravamo».

Durante il Fascismo (ancora una volta  a buon titolo con la effe maiuscola) le banche potevano e dovevano fare solo le «banche». Ovvero raccogliere i risparmi dei risparmiatori (le care e vecchie «giornate del risparmio», quanto ci mancano…) ed impiegare quanto raccolto finanziando le piccole, medie imprese industriali, artigianali o agricole. Il guadagno della banca era dato, al tempo, solo e soltanto dalla differenza tra gli interessi passivi corrisposti ai risparmiatori e gli interessi attivi percepiti dagli impieghi. Certo era un guadagno modesto, il presidente della banca rivestiva una carica onorifica (al massimo un presidente «rimediava» il titolo di cavaliere al momento della pensione).

Gli impiegati a loro volta guadagnavano poco, ma quel poco era sicuro per tutta la vita. Per gli affidamenti, ci si rifaceva alla storia di una persona e della sua famiglia, altro che «acid test», «Basilea due, tre, quattro». Era insomma un’economia fondata sul risparmio e sugli investimenti
(il «male» della pietra…). Mentre dall’altra parte dell’oceano, dall’altra parte del mondo, agli antipodi della nostra civiltà c’era un’economia (quella USA) certamente più viva e «scoppiettante», fondata sui consumi e sulla spesa. Ma nell’economia nord americana chi era ricco diventava sempre più ricco, mentre chi era povero a sua volta diventava sempre più povero. Certo in quell’epoca c’era meno ricchezza in termini monetari, ma c’era un’enorme maggior ricchezza in termini morali, di felicità, di amor patrio, di senso di appartenenza comunitario.

A quei tempi veniva privilegiata la sicurezza dell’investimento (per una vecchiaia serena) rispetto all’entità del rendimento (denaro che rende denaro è sterco del demonio, ognuno deve vivere dal proprio lavoro e non dalla rendita finanziaria). L’esegeta del «turbocapitalismo» è l’ebreo Edward Luttwak  caso forse unico al mondo di spia pagata dal Paese spiato (diaria di 50.000 euro mensili corrispostigli dai Servizi Segreti italiani). Nel suo libro «Tecnica di un colpo di Stato» Luttwak scrive: «Tutto il potere, tutta la partecipazione è nelle mani di una piccola èlite benestante e sicura…». In miseria la piccola borghesia,non rimane che un’élite straricca agli ordini del sionismo internazionale.

Guarda caso i «Profumo» vengono tutti dalla Mckinsey et similia. La McKinsey non è altro che la «School Of the Americas» per il mondo della finanza. Nella School of the Americas vengono addestrati poliziotti e militari: torturatori, assassini tutti in divisa (ne sono usciti più di 60.000 sparpagliati per il Sud America), questa «scuola», assassini, torturatori, stupratori agli ordini dello zio Sam è sita a Fort Benning in Giorgia.

Gli «omologhi» di costoro, che operano invece nel mondo della finanza per conto del mondialismo, escono dalla scuola della McKinsey (Alessandro Profumo, Unicredit; Corrado Passera, CIR, Intesa San Paolo, ABI, Poste Italiane; Francesco Caio, Omnitel, Lehman Brothers; Elio Catania, IBM Italia, ATM Azienda Trasporti Milano; Paolo Scaroni, ENI, Techint, Dalmine; Vittorio Colao, Omnitel, Gran Maestro Massoneria, tanto per citarne solo qualcuno). Alla Mckinsey gli fanno gli esami delle «urine» e  se si dimostrano servi, fedeli esecutori degli ordini allora i maiali della finanza sempre agli ordini dello zio Sam vengono sparpagliati nei centri nevralgici dell’economia e dell’industria. Tutti sapevano tutto, tutti avevano ben inteso in quale baratro stavamo precipitando: «Ha giocato l’avidità, la voglia di guadagnare ad ogni costo…» («Wall Street: la stangata», di Cuneo e Tamburini edizioni Dalai).

No, i «Profumo» non hanno sbagliato, non si sono confusi, sapevano perfettamente cosa sarebbe accaduto e che la «bolla» speculativa non avrebbe potuto reggere all’infinito.

Intanto ogni giorno che passava i «Profumo» si mettevano in tasca l’equivalente di un anno di lavoro di un dipendente. «Chissenefrega» delle migliaia e migliaia di persone che avevano investito i risparmi di una vita in azioni del Banco Popolare o di Unicredit, chissenefrega delle industrie in crisi perché le banche non avevano più liquidità da erogare, anche qui migliaia e migliaia di lavoratori a spasso. La crisi non è finita, anzi è probabile che ritornerà peggiore di prima.

Occorre in gran fretta fare un percorso a ritroso: scorporare ciò che in passato si è incorporato: ad esempio la Cassa di Risparmio di Verona Vicenza  Belluno ritorni sul territorio del Nordest; la Banca Agricola mantovana ( BAM fusa in Monte Paschi) torni nel centro della Padania a sostenere l’agricoltura e il mondo cooperativo. E via di questo passo.

I banchieri stiano attenti perché un’altra crisi pilotata dal mondialismo e il popolo farà giustizia innalzando le forche nelle piazze. Altro che «buone uscite dorate»…, corda e sapone per i banchieri al servizio del mondialismo!

Avvocato Luigi Bellazzi


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