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Joe Fallisi racconta
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Pesto e pieno di lividi, l’amico Joe Fallisi resta battagliero: «Sporgerò denuncia», dice subito.

Tenore di professione, anarchico di fede, impegnato da anni a denunciare le sofferenze inflitte ai palestinesi ed attivista per gli aiuti, era uno degli imbarcati sulla Flottiglia della Pace.

«Io ero sulla 8.000, la nave greca che abbiamo così ribattezzato dal numero dei palestinesi detenuti senza processo nelle galere israeliane; eravamo una sessantina, artisti, parlamentari, medici, giornalisti di una quarantina di Paesi... c’era anche un reporter di Al Jazeera...».

«La Mavi Marmara, la nave della strage, navigava proprio davanti a noi. Poco dopo le 4 del mattino, l’abbiamo vista sovrastata da elicotteri ed abbiamo intuito che qualcosa di grave stava accadendo lì».


Ma anche la 8.000 era già sotto arrembaggio.

«Abbiamo cominciato a veder delle luci rosse lontano, nel buio. Poi tutti quegli Zodiac da commando, irti di antenne e di armi, che sfrecciavano velocissimi, Si sono divisi in sei gruppi, uno per ciascuna nave della flottiglia. Una esibizione incredibile di potenza militare; hanno usato persino due sommergibili, una cosa di cui i media non hanno parlato».

«Gli israeliani sono saliti a bordo in un lampo: tutti col volto coperto da una maschera nera, armati fino ai denti, giberne piene di caricatori, giubbotti antiproiettile, ci puntavano i loro mitragliatori».


E voi?

«Ci siamo tutti stretti attorno alla cabina di comando, per difenderla, e impedir loro di buttar fuori il capitano - un greco mite e gentile, che si è rivelato di grande coraggio - onde prendere possesso del timone. Abbiamo tentato di fare resistenza; c’è stata una colluttazione con i mascherati, io gli ho tirato contro una sedia, e mi sono preso le prime botte; mi hanno picchiato, gettato a terra... Del resto la nostra resistenza sarà durata due minuti, non tanto di più».

E poi?

«Ci hanno radunati sotto la minaccia delle loro armi, ci hanno contati, poi ci hanno ammanettati con quei loro nastri di nylon bianchi, stringendo forte; insomma ci hanno trattato come trattano i palestinesi ogni giorno. La nave era in mano loro, hanno fatto rotta per Ashdod».


Ma c’è chi non ha rinunciato alla resistenza.

Paul Larudee
   Paul Larudee
«Ad un certo punto sento un tonfo: un americano sessantenne, Paul Larudee, uno dei fondatori del Free Gaza Movement, s’era buttato in mare – sai, avevamo tutti  indossato il giubbotto salvagente - per ritardare  il dirottamento. E c’è riuscito, ci hanno messo un’ora a recuperarlo con una corvetta militare. Erano arrabbiati neri, l’hanno pestato a sangue, l’ho visto mentre lo trascinavano sottocoperta con un occhio nero, la faccia tumefatta. Ho visto che l’hanno picchiato ancora al nostro arrivo ad Ashdod; persino all’aeroporto, prima della nostra espulsione, l’hanno pestato ancora».

Nel porto di Ashdod, «avevano organizzato una manifestazione ‘spontanea’ per noi. Gente con la kippà e con bandierine di Israele, siamo noi i pacifisti, ci gridavano. Sì, pacifisti di Stato. Ci hanno spinti in un tendone allestito sulla banchina, per farci le foto segnaletiche. Dei tizi giganteschi, in kippà e con quei filapperi che escono sotto la camicia... ebrei ‘religiosi’ armati; ci hanno denudato, ci hanno fotografato, fra insulti e minacce; hanno cercato di farci firmare il modulo dove ci dichiaravamo colpevoli di essere entrati illegalmente in Israele. Ci siamo rifiutati...».

E vi hanno pestato di nuovo?

«Si vedeva che ne avevano voglia, ma si trattenevano; evidentemente avevano ricevuto ordini, per il clamore internazionale sulla vicenda che – lo intuivamo – cresceva di ora in ora. Quando pestavano qualcuno, poi chiamavano un loro medico che lo visitava».

Facevano lo stesso gli scherani della polizia sovietica, quando la loro vittima doveva essere presentata pubblicamente in qualche processo-farsa: attenti che non apparisse con ferite evidenti. Un vecchio «know how» da aguzzini della Ghepeù, poi NKVD, poi KGB, poi Mossad e Shin Beth.

«Durante i controlli ci hanno confiscato i passaporti, e ci hanno rubato tutto. Telefoni cellulari, macchine fotografiche, telecamere, qualunque oggetto. Ed anche soldi. Io avevo 300 euro, e me li hanno portati via. Ad un signore britannico – non so chi fosse, aveva l’aria di un vero gentleman – hanno preso la giacca dove aveva, col passaporto, 3.500 dollari. Il passaporto gliel’hanno restituito due giorni dopo, al momento dell’espulsione, prima di farci imbarcare sull’aereo. Ma non la giacca, e i soldi no. «What about my money?», ha chiesto il signore inglese. Gli hanno risposto a grugniti, come a dire che non ne sapevano nulla. Allora lui, il distinto signore oxfordiano, s’è rovesciato le tasche dei pantaloni ed è rimasto così, ostentatamente, durante tutti i controlli, che sono durati per ore, continuamente ripetuti, controlli  che avevano già fatto e che ripetevano per snervarci... lui, freddo, con un  mezzo sorrisino, restava con le tasche rovesciate fuori dai calzoni… Il suo modo di chiamarli ladri. Molto british».

«Ma questo è avvenuto nelle ultime ore prima della nostra espulsione. Dopo i controlli al porto e le foto segnaletiche, ci hanno caricati su due camion cellulari – dei mezzi sinistri, con finestrini ad oblò, minuscoli, che mi hanno ricordato i camion con cui i nazisti gassavano gli ebrei – ammetto di esserci salito con un certa inquietidine. Invece, con quei camion, ci hanno portato nel carcere del Negev. Un carcere nuovo, ancora con i calcinacci nelle celle. I carcerieri ovviamente non ci dicevano nulla di quel che avevano fatto alla Mavi Marnara; qualcosa abbiamo saputo da altri prigionieri che portavano lì, a infornate. Si capiva che, più tempo passava, più i nostri aguzzini erano sulle spine, dovevano aver avuto ordini di disfarsi di noi il più presto possibile».


Altre violenze però sono avvenute alla fine, quando Fallisi e gli altri sono stati portati all’aeroporto Ben Gurion per l’espulsione.

Ken O’Keefe
   Ken O’Keefe
«Lì ci hanno ammassato tutti, e lì ho rivisto il mio amico Ken O’Keefe con la faccia sfigurata e piena di sangue: lui era imbarcato sulla Mavi Marmara e certo era fra i resistenti: Ken è ex Marine americano, fondatore di un movimento di aiuto alla Palestina, e già in passato ha fatto da scudo umano ai palestinesi che, quando vanno a raccogliere le loro olive, vengono presi di mira dai ‘coloni’. Ho rivisto il nostro comandante Vangelis: l’avevano pestato perchè si rifiutava di partire senza la sua nave. Qui, dagli altri, abbiamo saputo qualcosa dell’eccidio».

Che ci fossero armi a bordo della Mavi Marmara, Fallisi lo esclude.

«L’organizzazione umanitaria turca IHH che ha organizzato il convoglio – e che è molto vicina ad Erdogan – aveva preso misure di controllo draconiane, facendo anche la guardia alla nave in porto 24 ore su 24. Ma certo, gli uccisi avevano preso la decisione di non arrendersi, costasse quel che costasse. Li hanno bollati in ogni modo: terroristi, islamisti fanatici che “cercavano il martirio”... per me sono uomini valorosi. Non hanno voluto arrendersi senza reagire, anche perchè il carico degli aiuti, ingentissimo, messo insieme in anni di sforzi e contributi raccolti nel mondo, costava 15 milioni di euro: medicinali nient’affatto scaduti, alimentari, cemento, sedie a rotelle, persino cento case prefabbricate perchè ancora 3.500 famiglie di Gaza abitano sulle macerie delle loro case distrutte».

Tutto materiale che, per Sion, serve ad «aiutare Hamas».



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I massacrati. Un pompiere, un politico, un elettricista, un campione di taekwondo, un fotogiornalista, uno studente...



Fallisi racconta le ultime, lunghissime ore, tutti ammassati all’aeroporto in attesa della partenza. I controlli persona per persona, infinitamente ripetuti. L’aria di minaccia e di violenze.

Parlavano gli israeliani?

«Per lo più sibilavano minacce. Uno di quei bestioni in kippà mi ha ordinato di sedermi, a un certo punto. Poichè mi rifiutavo, mi ha schiacciato giù sibilandomi, con lo sguardo pieno d’odio, in inglese: “Tu non sai cosa possiamo farti”. Voleva farmi capie il messaggio: possiamo ammazzarti per il più futile motivo, lo facciamo abituati all’impunità. In realtà, in quelle ore, si trattenevano dal farci peggio, per via degli ordini ricevuti. Si trattenevano visibilmente. Eran tutti giovanissimi, con la kippà; non stavano mai fermi, sibilavano minacce, gli occhi spiritati...».


Drogati forse?

«Magari drogati dalla loro ideologia, dalla loro impunità, dal delirio di essere gli eletti. Glielo insegnano nelle loro scuole talmudiche. Altro che integralismo islamico!».

Un’ultima immagine è rimasta a Joe Fallisi:

«Mi avevano già consegnato il passaporto – tutti i miei effetti se li sono tenuti, i ladri – avevo superato tutti i controlli paranoici, avevo davanti a me l’ultima porta, di là della quale c’era il pulmino che ci doveva portare all’aereo. L’uscita era sorvegliata da due soldatini askenazi e da un terzo, un falascià etiopico. L’ufficiale ha ordinato a quest’ultimo di scortarmi al pulmino. Mentre andavamo, ho sentito gli altri due sibilarmi dietro: “Yes, go with the nigger”,  va’ col negro, ma col termine insultante. Mi son voltato, li ho fissati; i due askenazi mi hanno fatto l’ultimo gestaccio».

Ed ora cosa farai?

«Adesso contribuirò a raccogliere le testimonianze di tutti i partecipanti; tutti faremo denunce legali per le percosse, i furti, le umiliazioni subite».

Non servirà a nulla.

«Con il comandante Vangelis ci è venuto in mente di aprire un sito, nexttime20, la prossima volta venti. Venti navi, dobbiamo mettere insieme. E ci riusciremo. Dobbiamo riuscire a romperlo, l’assedio di Gaza. La prossima volta saremo una vera flotta».



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