>> Login Sostenitori :              | 
header-1

RSS 2.0
menu-1
Napoleone durante il colpo di Stato parigino al Consiglio dei Cinquecento il 9 novembre 1799
In morte dello Stato (e della pubblica amministrazione)
Stampa
  Text size
L’ingloriosa fine dell’immagine sociale della pubblica amministrazione e del pubblico impiego, circa la quale su questo sito si sono scatenate accese discussioni sulla scorta di alcuni articoli del direttore Maurizio Blondet, deve essere spiegata in chiave epocale come segno del più vasto fenomeno della «morte dello Stato».
Per comprendere questo fenomeno è necessario però indagare storicamente sulle origini della comunità politica, di cui lo Stato è la forma nata nella modernità quando il «commune» della visione comunitaria tipicamente medioevale si è andato progressivamente scindendo in «pubblico» e «privato» con un recupero del diritto romano classico senza più la mediazione
della rielaborazione cristiana che aveva dato origine al sistema romano-cristiano dello «ius commune-ius proprium».

La comunità politica è sempre stata, presso ogni cultura umana, connaturata al sacro sicché ciò che era comune, e dunque «politico» nel senso nobile di questa parola, era immancabilmente consacrato da un’investitura dall’«alto».
Da qui la sua sacralità riflessa sul piano immanente.
L’antica tripartizionale funzionale indoeuropea, studiata dal Dumezil, esprimeva proprio questa connessione del politico con il sacro.
Una connessione che non apparteneva soltanto all’ambito indoeuropeo perchè presente in ogni cultura umana, indipendentemente dall’area linguistica o etnica.
La consacrazione dei re di Israele da parte dei profeti ne è un chiaro esempio in ambito ebraico.
La sacralità della funzione monarchica o imperiale nelle più diverse aree culturali, come ad esempio l’antico Giappone o l’antica Cina, ne è un altro esempio.
Persino la stretta relazione esistente tra lo sciamano ed il guerriero capo tribù nelle popolazioni nomadi, come i pellerossa, è esempio della stretta connessione da sempre sussistente nella storia dell’umanità tra sacro e politico.

Questa connessione non è affatto venuta meno, come molti erroneamente ritengono, con il cristianesimo.
Se è vero che Cristo ha ben distinto, ma non conflittualmente separato, ciò che è di Dio e ciò che è di Cesare, è tuttavia verissimo che, attraverso il riconoscimento che Nostro Signore ha fatto della legittimità dell’impero romano, cosa questa che ha contribuito a renderlo sospetto alla cultura ebraica del suo tempo la quale aspettava un messia guerriero e liberatore dal dominio romano, la Chiesa ha ereditato i grandi valori universalistici ed etici del diritto romano individuando in essi l’espressione, preparatoria dell’annuncio cristiano, del diritto naturale, iscritto da Dio nel cuore umano al di là dell’opzione di fede.
Su questa base l’Aquinate ha potuto porre tra la legge di Dio e la legge civile la legge di natura, intimamente propria a ciascun uomo ed a ciascuna epoca anche se variamente modulata, ma non nell’essenziale, a seconda delle culture e delle epoche, ad evitare, con il mediare tra la prima e la seconda, ogni laicismo separatista ed ad evitare, d’altro canto, con il distinguere tra la prima e la seconda, ogni tentazione teocratica o fondamentalista.

La stretta connessione, in questione, tra sacro e politico comportava la natura «guerriera» ovvero «militare» dell’auctoritas politica (la medioevale potestà temporale).
La res pubblica romana, ad esempio, nacque dall’organizzazione militare dell’esercito che si fondò prima, in epoca monarchica, sui comitia curiata e poi, nell’età repubblicana vera e propria, sui comitia centuriata.
I patres conscripti senatoriali erano, almeno all’origine, i capi famiglia responsabili dell’inquadramento in armi dei membri della propria gens al momento della chiamata da parte della res pubblica.
La gens romana era, originariamente, una sorta di tribù con seguito servile: un po’, in altro ambito ed al di là del carattere non nomade dell’urbe prisca, come quella di Abramo.
Anche successivamente, come dimostra il periodo delle guerre civili e la carriera di famosi tribuni tipo Pompeo e Cesare, il cursus honorum del cittadino alle alte cariche dello Stato romano iniziava dal duro e lungo servizio militare.
Non si diventava cittadini a pieno titolo se non attraverso il percorso della carriera militare.
Sebbene sempre più formalmente, la natura militare dell’imperator rimase anche in età post repubblicana.
Questa origine comportava anche una concezione essenzialmente militare dell’organizzazione civile della Res Pubblica.

Tutto l’apparato amministrativo dello Stato romano era modellato, anche nelle carriere, sull’organizzazione militare.
Si trattava di un modello gerarchico, di ordini e di esecuzioni, che assicurava, nello spirito ferreo coltivato nelle legioni romane, la massima efficienza dell’apparato statuale come se si trattasse di un esercito in guerra il cui scopo fosse la vittoria con il minimo di perdite umane.
Sebbene in un mutato spirito dei tempi, connesso con la fragilità feudale e comunale, anche in età medioevale l’organizzazione amministrativa, per quanto essa sussisteva, rimase legata, nei diversi livelli dell’impero, dei regni, dei feudi e dei comuni, a modelli di origine militare e pertanto fortemente gerarchici.
In età pre-moderna questo tipo di organizzazione della comunità politica e delle sue funzioni si reggeva essenzialmente, pur con tutte le umane deficienze, su un etica di sacralità dell’autorità (autorità deriva dal latino «augere» che significa «far crescere, aumentare») sicché coloro che ne incarnavano o rappresentavano, ai vari livelli, lo «Stato» si sentivano investiti di quella stessa sacralità anche perchè erano selezionati, mediante la dura gavetta delle armi, attraverso prove che ne mettevano in luce le doti di fides, di pietas, di humanitas, secondo i valori propri della romanità successivamente trasformatasi in romano-cristianità con l’apporto di un altro valore, più alto dei predetti ma ad essi strettamente confacente, quello della caritas.
Chi era al comando, in altri termini, doveva dimostrarsi, per virtù umane, «militarmente» degno, agli occhi dei «suoi» uomini, ossia del «suo» popolo, o perlomeno tentare di apparire tale, della posizione occupata e, in età cristiana, di essere degno, o tentare di esserlo, anche dell’infusione soprannaturale della grazia divina.
Tutto ciò naturalmente in linea ideal-tipica di principio.

Tuttavia, si trattava di una concezione comunque, in epoche non ancora secolarizzate, effettivamente agente nella formazione della mentalità diffusa e dunque nei rapporti sociali.
A parte il caso, sfortunato, della monarchia ispano-asburgica, che all’epoca rappresentò una valida alternativa alle emergenti monarchie nazionali (1), lo Stato moderno nasce nel XVI secolo nella forma delle monarchie assolute «superiorem non recognoscentes» (dove per «superiorem» devono intendersi le due compagini universali del medioevo ossia la Chiesa e il Saro Romano Impero).
In tal senso, come ha rilevato Carl Schmitt, lo Stato moderno è «il primo agente della secolarizzazione».
Esso, sul piano del politico, ha chiuso le vie verso l’«alto» ed ha aperto inesorabilmente la via verso il basso: era del resto questa l’intenzione dei suoi teorici, da Machiavelli a Bodin passando per Hobbes.
Lo Stato moderno ha rappresentato la momentanea e necessaria tappa per il passaggio dall’universalismo romano-cristiano ad un altro tipo di universalismo, non più cristiano, che oggi chiamiamo globalizzazione.

Nel momento in cui lo Stato ha assolto alla sua funzione di completa desacralizzazione del politico, momento coincidente con il passaggio storico dal moderno al postmoderno, esso è stato dissolto, o è in via di dissoluzione, dalle stesse forze nichiliste e destrutturanti che ha contribuito, innescando il processo di secolarizzazione, a scatenare.
Sia detto di sfuggita: è una pura illusione il fatto che l’emergere di apparentemente antiche istanze localistiche, federalistiche, sussidiarie, sia una sorta di ritorno alla comunità politica di tipo pre-moderno.
In realtà queste istanze sono del tutto strumentali alla realizzazione completa del processo di globalizzazione (si parla ormai di «glocalizzazione») mediante la destrutturazione transfrontaliera dello Stato nazionale, erede democratico delle monarchie assolute del XVI secolo, in favore di assetti territoriali di tipo regionale (l’Europa delle regioni, ad esempio) in concorrenza tra loro nel mercato globale amministrato dalle organizzazioni  planetarie dell’economia e della finanza: dalla bancocratica UE al WTO, dal Fondo Monetario Internazionale alla Banca Mondiale, per finire, oggi che l’ONU si è dimostrato incapace del governo globale dei conflitti, agli stessi Stati Uniti d’America che hanno, sin dal 1945, sostituito l’Inghilterra nel ruolo di gendarme coloniale del mondo.

Quello cha ha portato alla morte dello Stato moderno è stato un lungo processo durato almeno cinque secoli.
All’inizio anche lo Stato moderno conservava una sua sacralità sebbene si trattasse ormai, per via della pretesa di disconoscere le superiori istanze universalistiche della cristianità, di una sacralità sempre più tendenzialmente immanente e riduttivamente politica.
Ecco perché lo Stato moderno, con il suo accentramento amministrativo, appare immediatamente come una macchina, un meccanismo, e non più come una comunità organica.
Lo stesso monarca non è più, come in precedenza, il luogotenente, ossia il vicario, del Christus Rex ma diventa il primo «funzionario» della macchina statuale («l’Etat c’est moi» diceva Luigi XIV, il Re Sole, in base ad una concezione copernicana ed esoterica della sovranità che voleva tutti i corpi del regno girare intorno al re assoluto come i pianeti intorno al sole).
Max Weber ha visto nello Stato moderno una «grande fabbrica» che si sviluppa in stretta unione con la rivoluzione protestante, il razionalismo filosofico, il contrattualismo sociale (anche quando si veste di «giusnaturalismo» non più cattolico, come in Locke, o non più neanche cristiano, come in Hobbes e nei filosofi illuministi, da Rousseau a Voltaire), il mercantilismo e/o la fisiocrazia economica, fino appunto alla rivoluzione industriale ed al liberismo.

Anche se, sin dall’inizio, ha posto le premesse della sua stessa odierna dissoluzione, lo Stato moderno, come si diceva, conservava una sorta di sacralità artificiale che si esprimeva nella sua posizione di egemonia sui sudditi, dei quali tuttavia fino alla fine del XVIII secolo ha continuato a godere il consenso proprio per l’aurea di sacralità che ancora circondava ai loro occhi il sovrano, e nell’accentramento del potere nella persona stessa del monarca non più vincolata ai patti tradizionali e consuetudinari in precedenza sussistenti tra il re ed i ceti, i corpi intermedi, le città del regno.
Accentramento del potere che fu organizzato, l’esempio prussiano è un classico, su un’organizzazione di tipo gerarchicamente militare in senso moderno.
Un apparente ritorno alla romanità che però, per la pretesa di rinunciare alla cristianità, era una epocale scimmiottatura della stessa romanità antica: quest’ultima, infatti, fu il precursore pagano della cristianità («Quella Roma onde Cristo è romano», cantava Dante nei secoli medioevali) mentre la riedizione neopagana della romanità, umanistico-rinascimentale prima, puritano-americano ed illuministico-giacobina poi, è stata la pretesa storica di baipassare la cristianità medievale «corrutrice» per riallacciare, con un volo pindarico ed ideologico, la Roma antica, o meglio il suo fantoccio mitico, alla Nuova Roma o Terza Roma (così Mazzini), opponendo a-storicamente la Roma pagana delle prische virtù civiche alla Roma cristiana ed oscurantista dei Papi.

La Pubblica Amministrazione nasce proprio dallo sviluppo di questo accentramento del potere nella mani del monarca assoluto per la trasmissione ed esecuzione dei suoi ordini.
Questo comportava da parte dei funzionari pubblici un senso altamente militare di fedeltà al sovrano ed un’etica della responsabilità nell’amministrazione della cosa dello Stato, coincidente per lo più con il patrimonio del re, che rendeva, per i tempi, efficiente l’amministrazione proprio perché gerarchicamente strutturata.
Un’efficienza che qualificava persino l’amministrazione di realtà politiche plurinazionali e plurireligiose come l’impero asburgico, ultimo residuo del Sacro Romano Impero e, dunque, di quel «superiorem» che le monarchie nazionali assolute avevano disconosciuto.
Quando con la Rivoluzione Francese i sudditi diventano cittadini e la repubblica si sostituisce al re siamo già un passo avanti nel processo di desacralizzazione dell’apparato statuale ed amministrativo (2) e tuttavia quella sorte di sacralità spuria, che abbiamo visto caratterizzare le monarchie assolute, continuava a sussistere anche nella nuova forma repubblicana dello Stato come testimoniano slogan rivoluzionari del tipo «La Republique ou la mort».
Con l’illuminismo ed il giacobinismo la sacralità artificiale delle monarchie assolute si fa messianismo rivoluzionario.
Nasce qui la «religione della Patria», alla quale faranno seguito quelle della razza, della classe ed, oggi, del mercato.

L’auto-incoronazione di Napoleone è il gesto epocale che meglio rappresenta questa sacralità immanente che con la modernità si impone nonostante tutte le sue dichiarazioni di «laicità».
Proprio per questo, e nonostante la Grande Rivoluzione, rimase tuttavia ancora in piedi il concetto dello Stato, e del «pubblico», come di qualcosa di «sacro».
Questa idea, si badi, continuò ad agire sia, come è ovvio, nei sistemi autoritari ed in quelli totalitari in forma di «ideocrazia» (autoritarismo e totalitarismo non sono affatto la stessa cosa ed in quanto a grado di avanzamento verso il moderno esito nichilistico del politico il secondo è storicamente più avanti del primo) che nelle liberal-democrazie.
In queste ultime la sacralità spuria si manifesta nella forma legalistica dell’«etica pubblica» o in quella della massonica «religione civile»: entrambe di radici luterane.
Onde raffreddare i troppo facili entusiasmi liberistici di coloro che leggendoci, dalla crisi odierna dello Stato che abbiamo descritto, volessero trarre auspici di un futuro luminoso dell’umanità nell’assoluta liberazione del mercato, in una sorta di riedizione liberale del comunista (e mai spuntato) «sol dell’avvenire» (non ci si meravigli: liberalismo e comunismo sono entrambe utopie moderne, per giunta in stretta parentela culturale), ricordiamo subito che, pur con tutta l’equivoca sacralità che lo ha caratterizzato, lo Stato moderno ha, a suo tempo, svolto una funzione storica essenziale ossia quella di comporre interclassisticamente il conflitto sociale, scatenato
dal capitalismo e dalla rivoluzione industriale, che altrimenti avrebbe distrutto lo Stato stesso ed anche il mercato.

Lo Stato sociale, prima della sua declinazione democratica e/o socialdemocratica, nacque a «destra» lungo un filone che dalla denuncia reazionaria dei costi sociali della borghese rivoluzione francese (il «socialismo aristocratico» odiato da Marx) attraverso il movimento sociale cattolico ottocentesco (Opera dei Congressi, Toniolo, Leone XIII) ed i regimi autoritari di massa, come quelli fascisti, perciò in quanto di massa propensi ad una forte politica di modernizzazione e socializzazione dirigista, giunse, anche naturalmente con l’apporto di altre correnti culturali e politiche, a caratterizzare l’Europa post-bellica fino agli anni ‘80 del secolo scorso, quando l’acuirsi di quel processo di destrutturazione dello Stato, di cui abbiamo detto, ha coinvolto anche lo Stato sociale riaprendo la più aspra conflittualità sociale tra gruppi, classi ed individui.
Una conflittualità che fa della attuale compagine sociale qualcosa di analogo ad un corpo morto in putrefazione che si dissolve nella dis-organicità e nella polverizzazione ed alla quale oggi si cerca di porre rimedio, in nome della sussidiarietà orizzontale, con proposte di «welfare community» o «welfare society», alternative al tramontato «welfare State», ma finora senza la stessa efficienza  a suo tempo storicamente dimostrata dal vecchio Stato sociale.
La putrefazione sociale è l’esito dell’individualismo che crede di poter sorreggere i legami sociali riducendoli a meri reciproci contratti tra individui a tutela dell’egoismo utilitarista di ciascun contraente.

Con il passaggio dall’età moderna al postmoderno, storicamente realizzatosi nel corso del XX secolo con una forte accelerazione dal dopoguerra, ed in particolare dal 1968, in poi, per diventare palese tra la fine del secolo scorso e l’inizio del presente, si è avuto contestualmente l’inasprirsi del processo di desacralizzazione del politico con la tendenziale trasformazione dello Stato, inteso come apparato amministrativo, da organizzazione burocratica, ancora legata ai vecchi modelli gerarchici di tipo militare, ad organizzazione aziendale ispirata ai nuovi, postmoderni appunto, modelli del management: sicché parlare oggi di burocrazia diventa sempre più improprio in quanto, al contrario, gli apparati organizzativi della società stanno sempre più diventando, secondo gli auspici già ottocenteschi di Saint Simon ripresi nel novecento da Thorstein Veblen, di tipo tecnocratico.
Modelli nei quali ciò che è prevalente non è più la legittimità o la legalità procedurale, sancite dal principio costituzionale del «nulla potestas sine lege», principio nel quale riecheggiava ancora quella sorta di «sacralità» artificiale che ha caratterizzato lo Stato moderno, ma, al contrario, il profitto che, calato nella pubblica amministrazione, è chiamato «rapporto costo/benefici».

Diremo successivamente quanto sia difficile, e forse innaturale, per un’organizzazione pubblica adottare i criteri tipici di un’azienda e quanto in Italia tale processo sia ancora più tragico per via della cultura stessa del popolo italiano forgiatosi in una mentalità, salvo la breve parentesi, però autoritaria, del fascismo, anti-nazionale a causa di un Risorgimento di matrice massonica che, a suo tempo, ha preteso di realizzare una unità nazionale contro l’identità religiosa cattolica di un popolo, con le inevitabili conseguenze in termini di scollamento tra cittadini ed istituzioni che tutti oggi conosciamo: gli apparati pubblici si portano, in qualche modo, ancora dietro quella stessa diffidenza verso il popolo amministrato che aveva lo Stato unitario liberalmassonico, governato da affaristi che dopo aver fatto l’Italia - diceva persino un insospettabile come Gramsci - se la sono mangiata, che si sentiva, a torto o a ragione, minacciato dalle masse ancora sottomesse al «clericalismo».
Qui ci sia ora consentito notare che la trasformazione dello Stato in azienda segna il definitivo esito nichilista del moderno processo di desacralizzazione.
Alla «morte di Dio» segue a ruota la morte non solo dell’uomo ma, dato che l’uomo è «creatura sociale», anche della comunità politica, nella sua forma statuale moderna.
E conseguentemente la riduzione, mortificante, della politica dapprima a pura amministrazione e poi a gestione meramente clientelare di affari: non che in precedenza non vi fosse anche l’aspetto della amministrazione degli affari correnti e straordinari della res publica, ed anche un certo tasso inevitabile di corruzione, ma la politica non era questo o perlomeno non era solo questo, essendo essa, un tempo, innanzitutto progettualità («il chiamare genti diverse a fare qualcosa insieme» come, sulla scorta di Ortega y Gasset, ricorda spesso Blondet) e, prima ancora, opera di modellazione, per quanto le deboli forze umane lo consentissero, della legge civile alla legge di natura e, quindi, in ultima istanza e per mediazione di questa, alla Legge di Dio (3).
«Per Me reges regnant» era inciso, non a caso, sulla corona del Sacro Romano Impero, e si trattava della trascrizione delle parole della Sapienza, ossia del Verbo di Dio, tratte da un passo biblico attribuito a re Salomone (Prov. 8, 15).

La politica, nel senso alto e nobile del termine, è ormai chiaramente defunta ed al suo posto è subentrato il potere di anonimi tecnocrati nonché una egemonica bancocrazia transnazionale che, lo abbiamo detto altrove (4), ha letteralmente castrato, mediante la spoliazione centralbancaria del monopolio di emissione e controllo della moneta, la sovranità nazionale in favore della speculazione finanziaria globale.
I politici oggi sono i camerieri dei banchieri e gli esecutori delle ricette, impolitiche, dei tecnocrati.
Questo perché la sostituzione alla politica dei poteri anonimi non è avvenuta alla luce del sole, ma surrettiziamente, ossia mantenendo apparenti forme democratiche nella gestione della cosa pubblica e tuttavia svuotando i parlamenti di effettivi poteri decisionali.
Non è un caso che sempre più spesso si parla di «demo-tecnocrazia», nel senso di un governo nel quale la volontà popolare è guidata ed indirizzata, naturalmente per il suo «bene», dalla «saggezza» di una Casta, sì: questa è la vera Casta!, di tecnocrati non eletti da nessuno, ma cooptati da lobby transnazionali.
Insomma, si tratta della democrazia sotto tutela a dimostrazione che proprio a questo è servita, alla fin fine, la Rivoluzione Francese: togliere il potere ai re per passarlo nelle mani della tecnocrazia bancocratica lasciando al popolo l’illusione di essere diventato esso il sovrano.
Ecco perché non è più possibile parlare ancora di «politica» ma solo, tutt’al più, di apparati di partito tenendo però conto che, come ulteriore effetto della desacralizzazione del politico, non esiste più il vecchio modello del partito ideologico di massa ma che anche i partiti sono diventati a modo loro delle «aziende» come, del resto, tutta la lotta tra i partiti un agone pressoché esclusivamente mediatico.
Questa osservazione è da tenere assolutamente presente per comprendere quanto segue.

Di uno Stato ancora dotato di una sacralità artificiale, come quella sopra descritta, possiamo storicamente parlare soltanto fino agli anni ‘30-50 del XX secolo, quando persisteva ancora in qualche modo l’idea che il compito principale dello Stato fosse garantire il bene comune e non quello di una fazione contro l’altra.
Persino nei regimi autoritari di massa, come quello fascista italiano, la scelta di subordinare
il partito unico allo Stato, e non il contrario, è indicativa del persistere, all’epoca, di questa etica pubblica, sicché, pur tenuti alla formalità del giuramento di fedeltà al regime e del tesseramento al partito, i funzionari pubblici rimanevano, in una qualche misura, autonomi dall’ideologia continuando ad essere reclutati mediante pubblici concorsi ed a far carriera per esperienza e professionalità acquisita.
Cosa questa che l’ala più intransigente del fascismo rimproverò sempre a Mussolini accusandolo di aver in tal modo castrato le potenzialità rivoluzionarie del regime avendone affidato lo sviluppo non ai commissari politici ma alla vecchia burocrazia a-fascista.
Gli storici ben sanno che, infatti, a differenza della Germania nazista e della Russia comunista, nell’Italia fascista il partito era subordinato allo Stato (il federale era subordinato al prefetto di nomina e carriera statale), cosa che, appunto, assicurava, per quanto la situazione di un regime autoritario di massa lo consentisse, una certa indipendenza degli apparati statali dalle velleità rivoluzionarie dei fascisti più faziosi (5).

Dagli anni ‘60 - ‘70 del secolo scorso è iniziata la fase acuta della desacralizzazione dello Stato che è coincisa con una progressiva destatualizzazione.
L’ipertrofia statuale, inevitabile per l’accumularsi delle funzioni necessarie alla composizione del conflitto sociale cui lo Stato moderno fu chiamato dall’economia capitalista, dagli anni sessanta in poi aumentò notevolmente, con correlativa aumento della spesa pubblica.
Ma in realtà questo aumento era nient’altro che il segno dell’incipiente destatualizzazione che, infatti, dagli anni ‘80 si manifestò apertamente.
L’assunzione da parte dello Stato delle sue necessarie funzioni sociali ne ha, infatti, provocato l’ulteriore desacralizzazione, e quindi depoliticizzazione, in favore di un puro Stato-amministrativo, al quale ben presto è stato richiesto di uniformarsi a modelli di efficienza aziendale nell’erogazione dei servizi pubblici o addirittura di privatizzarli, lasciando sempre più spazio al mercato.
In un certo senso allo Stato si è chiesto di liquefarsi nel mercato.
Gli esperti sono tutti d’accordo, per esperienza storica in atto, che né la privatizzazione dei servizi né le riforme federaliste riducono la spesa pubblica, semmai la aumentano a causa del moltiplicarsi dei centri di spesa e dell’intreccio pubblico-privato nel quale nasce la convergenza «mafiosa» tra interessi di politicanti senza scrupoli ed interessi dei gruppi imprenditoriali, piccoli o grandi che siano (in America, lo si è visto con l’amministrazione Bush, il Governo Federale è diventato il procacciatore di affari per le multinazionali come la Halliburton: anche di qui la guerra irachena).
Proprio a partire dagli anni sessanta del XX secolo, perlomeno in Italia, la pubblica amministrazione è andata progressivamente sindacalizzandosi.

Se in precedenza quello di pubblico impiego era un rapporto di lavoro di diritto pubblico perché non contrattualizzato ma regolato, anche nella carriera, in base al diritto amministrativo sicché il pubblico dipendente non era un soggetto altro dalla Pubblica Amministrazione ma «era» la Pubblica Amministrazione, in dottrina questo si chiamava «rapporto di immedesimazione organica» e si trattava di un istituto che affondava le sue radici nella concezione «sacrale» e «militare» dello Stato, attualmente, a seguito della cosiddetta «privatizzazione» del pubblico impiego attuata inizialmente con il D. lgs. numero 29/1993 (ora D. Lgs. numero 165/2001), che ha ricondotto il rapporto di pubblico impiego nell’alveo del libro V codice civile e delle altre leggi sul lavoro subordinato nell’impresa privata, il pubblico dipendente non è più organo dell’apparato pubblico, non è più la Pubblica Amministrazione, ma è un soggetto privato, dunque altro ed opposto ad essa, contrattualmente chiamato ad esercitare, per conto di essa, pubbliche funzioni (6). Tutto questo, che avrebbe dovuto aumentare l’efficienza della pubblica amministrazione e responsabilizzare la dirigenza pubblica assimilandola al management privato, ha, invece, da un lato, estraniato ancor di più il dipendente pubblico dal senso «sacrale» del pubblico (egli non sente più di «essere», in senso «militare», lo Stato: da qui il contraccolpo della decadenza psico-sociale
della sua figura) e, dall’altro, ha aumentato il potere condizionante, congiunto, dei sindacati e dei partiti politici, che ormai imperversano ancor più di prima, e diremo con quale subdolo trucco, nella gestione.

La particizzazione e la sindacalizzatone della pubblica amministrazione è un fenomeno riconducibile al condizionamento dello Stato da parte di «potestates indirecte» dal basso, ossia in termini più attuali da parte di lobby.
Ma anche le pressioni degli interessi particolari che le imprese, anche quelle piccole, ed altri corpi privati esercitano sulla pubblica amministrazione, per lucrare finanziamenti ed altre prebende (il capitalismo, ora che la depressione è alle porte, invoca sempre più l’assistenza dello Stato dopo averlo depotenziato nei decenni precedenti: è il lamento della moglie che ha castrato il marito e che poi si lagna della propria insoddisfazione sessuale), sono riconducibili al fenomeno della «potestà indiretta».
Grande responsabilità in questo deve attribuirsi ad un certo mondo cattolico, quello che gira intorno alla Compagnia delle Opere di CL, ed al mondo della cooperazione «rossa», quello della Lega delle Cooperative.
Si tratta di gruppi economici che, con la scusa della sussidiarietà orizzontale, si sono dimostrati, soprattutto in Lombardia ed in Emilia Romagna, capaci di monopolizzare, mediante i propri compiacenti riferimenti politicanti, la gestione delle risorse pubbliche in campi come la formazione professionale e il collocamento privato di forza lavoro.

E pensare che nel XIX secolo il movimento sociale cattolico riuscì a creare una vasta rete di opere sociali ed economiche senza una lira da parte dello Stato unitario che anzi era contro l’attivismo sociale cattolico e tentava di intralciarlo in tutti i modi.
Ora, è facile riempirsi la bocca di belle parole sul principio di sussidiarietà e drenare risorse pubbliche dal pubblico al privato, foss’anche al privato sociale: si tratta di un metodo molto comodo di fare imprenditoria e crediamo che tutti riuscirebbero a fare gli imprenditori con i soldi pubblici.
Abbiamo, sopra, rinviato la spiegazione delle difficoltà della riduzione della pubblica amministrazione al puro modello aziendale nonché quella del trucco con cui i partiti ed i sindacati oggi imperversano nella gestione della cosa pubblica.
E’ giunto il momento di affrontare queste questioni nel concreto della più stretta attualità del vigente ordinamento giuridico.


Maurizio Blondet nell’articolo, su questo sito, «Diamo Napoli ai bulgari» ha toccato, con la sua solita precisa incisività di argomentare, il vero problema attuale della Pubblica Amministrazione italiana: la particizzazione della dirigenza pubblica e dei funzionari.
Ad iniziare dal 1993, per effetto di tangentopoli, sono state introdotte una serie di riforme della Pubblica Amministrazione, che, in apparenza, sembravano dovessero rendere più efficiente la stessa.
Si tratta delle cosiddette «leggi Bassanini».
Con la scusa di separare la funzione di programmazione, di competenza dei politici eletti, da quella di gestione delle risorse umane, finanziarie e strumentali, per il conseguimento degli obiettivi programmati, gestione la cui competenza fu attribuita alla dirigenza (principio di per sé giusto ed ineccepibile), si introdusse, di soppiatto, il cosiddetto «spoil system», a maldestra imitazione del sistema americano (ad imitare il peggio degli altri noi italiani siamo imbattibili).
In realtà se da un lato la programmazione e la gestione, che prima di tangentopoli erano entrambe di competenza degli amministratori elettivi (con i risultati disastrosi che conosciamo), venivano finalmente e giustamente separate, dall’altro (e qui stava la fregatura) ai gestori, ossia ai dirigenti pubblici, fu tolta la inamovibilità perché la loro nomina e revoca fu attribuita alla scelta «fiduciaria», ossia politicante, del sindaco, del presidente provinciale, del governatore regionale o del ministro di turno.

Ufficialmente questa riforma fu motivata con l’argomento secondo cui era giusto dare alla «casta», che dovrebbe rendere conto all’elettorato del suo buon o mal governo (ma quando mai è stato così?), la possibilità di nominare, tra quelli a disposizione in organico, i dirigenti più bravi e capaci e quindi di portar efficacemente avanti il programma politico premiato dall’elettorato.
In realtà, questo argomento, è stata la classica foglia di fico per coprire la spudorata sfacciataggine della casta politicante.
Infatti, dopo tangentopoli, la casta ha capito che gli atti di gestione non devono più essere firmati dai propri membri, in modo da sfuggire ad eventuali «avvisi di garanzia», ma essere attribuiti alla competenza dei dirigenti resi, però, dipendenti, mediante nomina o revoca, dalla «fiducia» dei politicanti in carica.
Insomma, la casta ha provveduto, dopo l’esperienza di «mani pulite», a premunirsi del «parafulmine».

All’epoca, contro Bassanini (centro sinistra), autore di quelle riforme (un oscuro docente universitario di diritto regionale messo a fare il ministro della funzione pubblica), il professor Sabino Cassese, luminare del diritto amministrativo, si dimostrò sin troppo facile profeta scrivendo, su Il Sole24ore, che l’esito delle nuove norme sul rapporto tra dirigenza pubblica e politica sarebbe stato inevitabilmente «clientelare».
Cassese, invece, proponeva di rendere sì rimuovibile, a rendiconto, il dirigente incapace, e nei casi più gravi licenziarlo, ma tutelando la dirigenza durante l’esercizio delle sue funzioni da ogni influenza dei partiti e dei sindacati, mediante nomina per concorso pubblico e non per fiducia politica, e quindi restituendo ad essa la inamovibilità, in corso d’opera, con il rinvio di ogni valutazione, su base strettamente tecnica e non politica, e della eventuale rimozione, alla fine dell’esercizio.
Cassese rimase inascoltato e la riforma Bassanini iniziò a produrre i suoi effetti partendo dalla categoria dei segretari comunali e provinciali che furono destatualizzati e posti alle dipendenze di un’Agenzia nel cui albo i sindaci e presidenti di Provincia possono scegliere: naturalmente, secondo la vulgata ufficiale, la scelta avverrebbe sulla base delle «capacità»
dei candidati alla nomina e non sulla base della «fiducia politica»!
Un meccanismo di nomina e revoca analogo fu introdotto anche per la dirigenza sia dello Stato che degli enti locali.
Il tutto alla faccia dell’articolo 97 della Costituzione (antifascista!) che, per garantire l’imparzialità della pubblica amministrazione, un principio discendente direttamente dalla Rivoluzione Francese, impone, per accedere ai pubblici uffici, il pubblico concorso e stabilisce la responsabilità dei pubblici funzionari esclusivamente verso la «nazione»(il che significa responsabilità amministrativa, penale, civile e contabile) e non verso i governi in carica, che vanno e vengono.

Il sistema attuale, invece, fa dei segretari comunali e provinciali dei veri e propri «segretari» del sindaco o del presidente di Provincia e fa dei dirigenti pubblici funzionari di fiducia, partitica, dell’assessore o del ministro.
Ridotta la dirigenza ad una categoria di «yes men» l’imparzialità della Pubblica Amministrazione, che già di per sé non è mai garantita in assoluto essendo l’uomo sempre fallibile e «peccatore», si è andata a far del tutto benedire.
Non pago di aver così reso possibile l’infeudamento partitocratico della dirigenza pubblica (del resto, il suo retroterra ideologico lo portava inevitabilmente a preferire i «commissari politici» ai funzionari amministrativi «impolitici»), Bassanini introdusse la possibilità di reclutare mediante contratto di diritto privato, su nomina fiduciaria politica, un certo numero di dirigenti e funzionari al di fuori della dotazione organica, ossia a tempo determinato con durata dell’assunzione pari
al mandato elettivo del politico di turno (inizialmente si stabilì nel 5% dell’organico la percentuale dei dirigenti e funzionari a contratto; successivamente il governo di centro destra ha aumentato tale percentuale).

Si può immaginare la conflittualità che si è, di conseguenza, creata tra la dirigenza di ruolo, un tempo serbatoio della memoria storica e dell’esperienza amministrativa della pubblica amministrazione, e questi neodirigenti di nomina politica, senza competenze professionali né esperienza, entrati negli enti, a percepire fior di stipendi, senza concorso, ossia senza la procedura ordinaria prevista dal citato articolo 97 della Costituzione.
A chiudere il cerchio arrivò poi, con la scusa di semplificare l’iter decisionale, l’abolizione, alla faccia della trasparenza e dell’imparzialità, dei controlli amministrativi (eliminazione del commissario di governo per le Regioni, dei co.re.co. per gli enti locali e del «fastidioso», per la casta quando era negativo, parere di legittimità reso dai segretari comunali e provinciali
sulle deliberazione di giunta o consiglio).
A tutto questo si è, infine, aggiunta la moltiplicazione clientelare del reclutamento, a mezzo di contratti atipici, di personale precario (co.co.co., co.co.pro., tempo determinato, interinali, presunti consulenti di ogni genere e specie), sicuramente impreparato a lavorare in un ente pubblico ed in gran parte non necessario (anzi: il personale precario spesso è preferito dai politicanti di turno perché più ricattabile del personale di ruolo il quale per essere convinto a derogare, o «elasticizzate», la legge deve essere «corrotto» con promesse di carriera o altre prebende).
La consequenziale esplosione della relativa spesa non può perciò meravigliare: ma, si sa, il precariato è il serbatoio dei voti di scambio per la rielezione.
Naturalmente, nel quadro sopra delineato, i dirigenti e funzionari pubblici che continuano ad ispirare il proprio ruolo ai principi di imparzialità dettati dalla Costituzione diventano i «nemici» dell’amministrazione di volta in volta in carica.
Come esiste una schiera di dirigenti e funzionari che non accetta affatto il rischio di dover rispondere in sede giurisdizionale (civile, amministrativa, contabile o penale) per aver «acconsentito», in cambio di prebende varie, alle malefatte della casta, va purtroppo anche detto chiaramente che molti altri dirigenti e funzionari stanno, invece, al «gioco» (o vi sono costretti
a stare, non avendo alternative).

E’ doloroso constatarlo ma, per effetto delle disastrose riforme degli anni ‘90, il numero di tali dirigenti e funzionari disposti a chiudere, se necessario, entrambi gli occhi, va sempre più aumentando.
Essi accettano di stare al gioco in cambio di incarichi e prebende e sono così sprovveduti o impreparati (o sono costretti a far finta di esserlo) da non rendersi neanche conto (o fingere di non rendersene conto, sperando nella buona sorte) dei rischi che assumono su di sé compiacendo illegittimamente la casta politicante.
Questo genere di dirigenti e funzionari, grati all’assessore o ministro di turno cui devono l’incarico, ben remunerato, sono disposti ad accontentare in tutti i modi chi ha dato loro «fiducia»: anche truccando appalti e concorsi o con altri abusi e malversazioni.
Un sistema perverso voluto dalla casta, per la precisione iniziato dalla sinistra della casta (Bassanini) ma continuato dalla destra, sostenuto anche dal particolarismo di quegli imprenditori ed elettori che pur di vincere la concorrenza o il concorso sono disposti a votare clientelarmente i politicanti che sanno possono accontentarli.
Alla luce di tutto questo non può, purtroppo, far meraviglia, e si tratta solo di un esempio tra i molti che si potrebbero fare anche di rilevanza penale, la notizia circolata qualche mese fa su quel sindaco di un comune dell’entroterra romano che ha rimosso dall’incarico il comandante dei vigili urbani non avendo quest’ultimo raggiunto l’«obiettivo» di introitare la somma preventivata in bilancio di 200.000 euro a titolo di multe da infliggere ai cittadini.
Il poverino si era fermato a quota 120.000 euro.

Le prime vittime della casta degli inutili politicanti, europea, nazionale o locale, sono gli stessi dipendenti pubblici, quando essi non vogliono rendersi complici della malversazioni partitiche o sindacali e cercano di fare onestamente il loro dovere.
I politicanti sanno benissimo che la loro rielezione è assicurata dal clientelismo e non dalla buona amministrazione, della quale, al momento del voto, non importa a nessuno, neanche alle partite IVA.
Al venir meno del senso dello Stato, anzi del senso nazionale di ciò che è pubblico e che dovrebbe in qualche modo godere di una sorta di «sacralità», hanno contribuito tutti: cittadini, imprenditori, casta politicante e sindacati, statali e pubblici dipendenti, giornalisti prezzolati, professionisti ed autonomi, interessi privati, localistici e particolari del genere più vario, non escluse cooperative, ONG, organizzazioni sussidiarie sia laiche che religiose (che campano, alla faccia della sbandierata sussidiarietà, con i soldi pubblici).

Solo una forte e sentita etica dello Stato, che restituisca dignità ed immagine sociale ai pubblici dipendenti, può far funzionare la macchina pubblica.
Non le riforme alla Bassanini o i soli incentivi economici: anzi, questi ultimi, se non sono percepiti come la misura di un apprezzato status sociale, dell’appartenenza ad un stimato e qualificato «ceto professionale» (nel senso dello «stande» tedesco), spesso si rilevano deleteri perché, nel putrescente sistema sopra descritto, vengono distribuiti dalla casta politicante di turno, con l’assenso dei sindacati, in modo clientelare come prebende per ottenere la «sottomissione» della dirigenza pubblica e dei funzionari.
Lo Stato, non solo quello dirigista, sempre più auspicabile a fronte del fallimento epocale del liberismo che va manifestandosi a livello globale proprio in questi mesi, ma anche quello liberale, ha assolutamente bisogno, per ben funzionare, di un ceto di funzionari pubblici, orgogliosi di essere tali per etica di Stato, professionalmente qualificato e capace di essere super partes nonché devoto soltanto ed esclusivamente al bene comune nazionale e non al politicante di turno.
Purtroppo, in Italia, dove un tempo un tale tipo di ceto di pubblici funzionari è pur esistito, attualmente non se ne vede l’ombra e così sarà fino a quando la casta politicante, che, succube delle tecnocrazie bancocratiche nelle decisioni di livello autenticamente politico, ha però riservato a se stessa la gestione degli affari correnti, leggasi «prebende clientelari», per fare leggi a proprio favore, continuerà ad imperversare.
Però la casta non la eleggono solo gli «statali» ma tutti i cittadini, e tutti aspirando a qualche favore o interesse personale.
Molti dei candidati, poi, sono portatori all’interno dello Stato dei propri interessi personali: Prodi e Berlusconi sono in questo grandi esempi.

La casta politicante non è identificabile esclusivamente con la sinistra (che in teoria tutela i pubblici dipendenti come serbatoio di voti) o con la destra (che sempre in teoria favorisce gli autonomi, che sono il suo serbatoio di voti): la casta è trasversalmente la casta e basta!
Anzi, come detto, ma repetita juvant, in realtà si tratta di una sotto casta cui la vera casta, quella bancocratica, ha lasciato una riserva di sotto potere clientelare non effettivamente incidente nelle vere decisioni di carattere politico, come ad esempio la fondamentale politica monetaria, parte essenziale della sovranità.
Quel che abbiamo di fronte altro non è che una situazione di tipo, anche se nuovo, totalitario.
Il totalitarismo, infatti, non è, come comunemente si pensa, organizzazione perfetta.
Questo è ciò che esso vorrebbe essere ma, per eterogenesi dei fini, in realtà finisce per realizzare sempre e soltanto, come i precedenti storici dimostrano, il caos organizzato.

Chi studiasse il funzionamento degli apparati nazista e sovietico troverebbe, con sua grande meraviglia, una sordida lotta di potere tra gruppi rivali per accrescere la propria sfera di influenza agli occhi del «capo».
Una concorrenza che sconvolse, per l’accavallarsi delle competenze e dei centri decisionali, nella contraddittorietà delle direttive erogate, la vita normale dello Stato, fagocitato dal partito unico.
Una situazione non dissimile dalle democrazie pluripartitiche e di mercato: anche qui l’illusione che la concorrenza sia sempre benefica e, quindi, il caos organizzato.
La differenza sta nel fatto che nelle democrazie i «capi» possono essere sostituiti.
Una differenza non di poco conto ma che nulla toglie al volto «oscuro» del potere quando esso rimane chiuso ad istanze superiori.
Generalmente si ritiene che Marx fosse statalista.
Nulla di più errato: per Marx lo Stato, nella società comunista compiuta, doveva scomparire per lasciare il posto all’auto-organizzazione spontanea della società («da ciascuno secondo le proprie capacità, a ciascuno secondo i propri bisogni»).
I liberali, fedeli all’idea della spontaneità sociale garantita dalla «mano invisibile», riconoscono inevitabilmente in questa prospettiva marxiana la loro medesima filosofia sociale, al di là del fatto, filosoficamente del tutto secondario, che per Marx l’obiettivo era raggiungibile solo con l’abolizione della proprietà privata (ed, infatti, i cosiddetti «anarcoliberisti» americani, che sognano le «privatopie», si considerano marxiani).

Del resto anche nella prassi liberale la proprietà non è adeguatamente tutelata: non è, infatti, una sorta di abolizione della proprietà l’enorme crescita capitalista delle società anonime nelle quali la proprietà non è degli azionisti, il titolo azionario infatti è solo un titolo di credito vantato dagli azionisti verso la società di capitali, ma della «persona giuridica» ossia di quella fictio iuris, centro impersonale ed astratto di imputazione di diritti e di poteri, che Giacinto Auriti chiamava «fantasma giuridico» o «società strumentalizzante» dietro la quale, egli sosteneva, si nascondono le persone fisiche degli amministratori, analogamente a quel che fanno le consorterie di loggia o di partito in quell’altro fantasma giuridico che è lo Stato costituzionale, veri detentori del potere e, mediante la gestione, della proprietà.
Ecco perché, a modo suo ha ragione, Francesco Gavazzi quando afferma che il liberismo è di sinistra.
Solo che essendo figlio della stessa utopia solipsista marxiana, anche il liberismo è puntualmente destinato all’eterogenesi dei fini, come i fatti hanno e stanno dimostrando.
Il diavolo fa le pentole ma non i coperchi.

Per concludere, ribadiamo: il problema dello Stato e del suo funzionamento non è primariamente tecnico ma epocale.
Sebbene ogni più estesa ripubblicizzazione dei servizi pubblici e dello stesso rapporto di pubblico impiego, accompagnato dalla sua decontrattualizzazione, sia auspicabile e necessaria, senza uno scatto di orgoglio da parte di tutti coloro che sono chiamati ad «essere» lo Stato, ad iniziare dai dirigenti pubblici, che restituisca loro l’etica pubblica nonché la consapevolezza del proprio ruolo e quindi anche la dignità sociale che hanno perso, qualsiasi riforma puramente tecnica è destinata a fallire.
Ma, ed è questo il punto critico, uno scatto d’orgoglio del genere è impossibile in un’epoca di decadenza umana e civile come la nostra.
Solo se l’umanità entrerà in una diversa fase storica cambiando i propri attuali parametri spirituali tendenti al nichilismo, anche quello del buon vivere associato nella comunità politica e del buon funzionamento dei suoi apparati diventerà una questione ragionevolmente risolvibile.

Quella da noi delineata non è e non vuole essere una proposta per una inversione «reazionaria» della china del processo di graduale desacralizzazione del Politico ma solo la descrizione storico-filosofica di tale processo.
Chi scrive non crede all’efficacia delle inversioni «reazionarie», tanto meno se attuate con la forza. Chi scrive crede solo alla Provvidenza che agisce tra le pieghe della storia umana e che alla fine, con la cooperazione degli uomini di buona volontà, tutto aggiusta per il meglio anche se non senza consentire che l’umanità attraversi, per i suoi errori, dure prove storiche.
L’autore di queste note si è semplicemente limitato a dire, come il bambino della favola, che il «re è nudo» ossia, fuor di metafora, ad indicare gli aspetti deleteri, solitamente trascurati dal trionfalismo egemone, del cammino storico, spiritualmente in discesa, dell’umanità attuale.

Luigi Copertino



1) Confronta Franco Cardini - Sergio Valzania «Le radici perdute dell’Europa - da Carlo V ai conflitti mondiali», Mondadori, Milano, 2006.
2) Un grande filosofo giurista come Carl Scmitt lamentava proprio questa deriva desacralizzante dello Stato moderno alla lunga incapace di incarnare una vera sacralità come sa fare la Chiesa cattolica nella Persona di Cristo. Confronta Carl Schmitt «Cattolicesimo romano e forma politica - la visibilità della Chiesa. Una riflessione scolastica», Giuffré editore, Milano, 1986.
3) E’ questa mediazione della legge naturale tra la Legge di Dio e la legge umana che fa la differenza tra la teologia cattolica del politico, da un lato, e le ricorrenti tentazioni teocratiche ed i moderni fondamentalismi, dall’altro: lo Stato è di natura e non è pertanto ammissibile nessuna teocrazia o clericocrazia.
4) Confronta Luigi Copertino «Il capitale volatile ovvero del nichilismo finanziario»
5) Una testimonianza dell’indipendenza degli apparati statuali dall’ideologia come dagli interessi privati, durante l’esperienza dello Stato corporativo che pure era fondato su un ordinamento sindacale gius-pubblicista e che però vietava, proprio per assicurare l’indipendenza da indebite interferenze, agli impiegati pubblici, che «erano» e dovevano rimanere lo Stato, l’iscrizione ai sindacati, è riportata nel libro-intervista a Francesco Grossi, un sindacalista fascista, che faceva parte dell’entourage di Italo Balbo e di Nello Quilici (il padre di Folco Quilici) all’epoca direttore del Corriere Padano. Racconta il Grossi che, nel giugno 1936, a Palazzo Wedekind, sede del ministero delle Corporazioni, durante una seduta della Corporazione Cerealicola, presieduta (cosa del tutto rara) da Mussolini in persona, il rappresentante degli industriali panificatori perorava con veemenza l’aumento non inferiore a 20 centesimi di lire del prezzo del pane, motivandone
la necessità con la scusa degli aumentati costi di produzione. Il Grossi, rappresentante della parte sindacale fascista, invece si opponeva sostenendo che con un tale aumento gli industriali panificatori avrebbero fatto pagare ai consumatori ed ai lavoratori la crisi del relativo settore ben oltre il legittimo profitto spettante al capitale. Mussolini chiese informazioni e dati ai funzionari del ministero delle Corporazioni che, sebbene - come si è detto - avessero giurato come tutti i dipendenti pubblici fedeltà al regime, non dipendevano dal Partito Fascista né dalla Confindustria o dai sindacati fascisti, ma erano stati assunti sulla base di procedure concorsuali ed immessi in carriere avanzare nelle quali dipendeva soprattutto dall’esperienza che affina le capacità ed il patrimonio professionale. Orbene, quegli onesti funzionari ministeriali, dotati di forte etica dello Stato, dimostrarono a Mussolini, dati statistici alla mano, che la richiesta dei panificatori era effettivamente esorbitante l’intervenuta diminuzione di profitti dovuta agli aumentati costi di produzione e che quella richiesta se accolta avrebbe inciso in misura insostenibile su consumatori e lavoratori. Mussolini decise per un aumento del prezzo del pane di soli 5 centesimi. Ma se la nomina e la carriera di quei funzionari fosse dipesa dalle influenze del Partito o della Confindustria o dei sindacati avrebbero essi messo Mussolini in condizione di una decisione così equilibrata? Per questa testimonianza storica si legga Francesco Grossi «Battaglie sindacali - intervista sul fascismo rivoluzione sociale incompiuta» a cura di Massimo Greco, ISC, Roma, 1988, pagine 47-48.
6) Generalmente si dice che i dipendenti pubblici non possono essere licenziati. Una convinzione che è soprattutto un luogo comune per il solo fatto che questo avviene molto raramente in ambito pubblico (come del resto in ambito privato grazie alle tutele dello Statuto dei Lavoratori: vi è una coincidenza epocale tra le critiche a quest’ultimo e quelle al pubblico impiego). In realtà, in termini giuridici, con la contrattualizzazione del rapporto di pubblico impiego, adesso al pubblico dipendente si applicano le stesse norme valide per l’azienda privata, anche in ordine ai licenziamenti individuali e collettivi (esiste ora anche per il pubblico l’istituto della disponibilità per esubero di personale o per cessazione o trasferimento di attività. La disponibilità, come nel privato, dura massimo due anni all’80% dello stipendio e poi in caso di non riallocazione interviene la risoluzione del rapporto di lavoro, per esubero di personale. A dire, però, tutta la verità, la possibilità del «licenziamento» esisteva anche nel precedente regime gius-amministrativo di diritto pubblico del rapporto di lavoro subordinato alle dipendenze della Pubblica Amministrazione. Il D.P.R. numero 3 del 1957, che regolava un tempo il rapporto di pubblico impiego, prevedeva l’istituto della «destituzione» che, nella previdente concezione «militare»
della pubblica amministrazione, equivaleva ad una «degradazione sul campo»: una sorta di «riduzione allo stato laicale».



Home  >  Storia                                                                                             Back to top


 
Nessun commento per questo articolo

Aggiungi commento


La Dittatura Terapeutica
L’unica ed estrema forma di difesa da questo imminente, sottovalutato, tragico pericolo particolarmente grave per l’Italia, è la presa di coscienza
Contra factum non datur argomentum
George Orwell con geniale e profetico intuito, previde l’oscuramento delle coscienze, il tramonto della civiltà, l’impostura e apostasia dalla verità che viviamo, quando scrisse “nel tempo...
Libreria Ritorno al Reale

EFFEDIEFFESHOP.com
La libreria on-line di EFFEDIEFFE: una selezione di oltre 1300 testi, molti introvabili, in linea con lo spirito editoriale che ci contraddistingue.

Servizi online EFFEDIEFFE.com

Archivio EFFEDIEFFE : Cerca nell'archivio
EFFEDIEFFE tutti i nostri articoli dal
2004 in poi.

Lettere alla redazione : Scrivi a
EFFEDIEFFE.com

Iscriviti alla Newsletter : Resta
aggiornato con gli eventi e le novita'
editorali EFFEDIEFFE

Chi Siamo : Per conoscere la nostra missione, la fede e gli ideali che animano il nostro lavoro.



Redazione : Conoscete tutti i collaboratori EFFEDIEFFE.com

Contatta EFFEDIEFFE : Come
raggiungerci e come contattarci
per telefono e email.

RSS : Rimani aggiornato con i nostri Web feeds

effedieffe Il sito www.effedieffe.com.non è un "prodotto editoriale diffuso al pubblico con periodicità regolare e contraddistinto da una testata", come richiede la legge numero 62 del 7 marzo 2001. Gli aggiornamenti vengono effettuati senza alcuna scadenza fissa e/o periodicità