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Ebraismo e cristianesimo (parte V)
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Parte quinta

Le vicende storiche della separazione

E’ necessario, a questo punto, affrontare la questione della separazione storica tra ebraismo e Cristianesimo. Lo faremo con l’aiuto di un eminente biblista, Paolo Sacchi (1).

Il Sacchi pone questa domanda: «Fra ciò che oggi chiamiamogiudaismo e ciò che chiamiamo cristianesimo cè da molti secoli una differenza tale per cui lesistenza di una frattura fra le due religioni è un dato storico assolutamente certo. Quando è nata questa frattura? E inerente alle origini cristiane stesse, oppure si produsse in un tempo successivo alle origini? E fu il cristianesimo che si staccò dal giudaismo, fu il contrario, o si trattò di un movimento parallelo di entrambi?». Diciamo subito che, ci sembra, il Sacchi propenda per l’ultima ipotesi. Un movimento di distacco in qualche modo parallelo e necessitato da una serie di eventi storici successivi.

Naturalmente egli, da biblista e non da teologo, indaga circa la questione se quel decorso storico sia stato provvidenzialmente voluto. Non è questo l’oggetto del suo studio. Una questione che invece era il costante assillo di San Paolo che, nella Lettera ai Romani, non fa altro che interrogarsi sui reconditi e misteriosi motivi per i quali i suoi correligionari non avessero accettato Cristo e sul senso storico-teologico di quel rifiuto. Interessante, però, è quanto altro ci dice il Sacchi. Il giudaismo vede nella Mishnah la logica continuazione dell’Antico Testamento. Tuttavia la Bibbia ebraica si chiude nel II secolo avanti Cristo mentre la Mishnah risale al 200 dopo Cristo, cosa che pone non pochi problemi all’asserita l’abbiamo vista proclamata anche da Neusner logica di continuità.

Del resto, problemi esistono anche in campo cristiano. Fino al XVIII secolo l’impostazione dell’esegesi cristiana era tale che la frattura teologica con il giudaismo veniva fatta risalire, in modo automatico e senza quelle more di sviluppo storico oggi scoperte dalla critica, direttamente al momento delle origini. Per cui il Cristianesimo nulla avrebbe a che fare con il mondo ebraico del tempo di Gesù, rappresentando invece una sorta di rivoluzione che si era affermata quasi senza alcuna radice. Come si vede, è questa medesima posizione quella che oggi, ex contrariis, viene riproposta, pro domo sua, dal Neusner. Ma tale posizione se ha un elemento di verità, ossia sottolineare l’aspetto di novità della fede cristiana, dimentica che si tratta soprattutto di novità nell’interpretazione dell’ebraismo e quindi, aggiungiamo noi nel tirare fuori dal coacervo dei molti ebraismi del tempo quello autentico e vero.

Con il passare del tempo questa novità cristiana, nata all’interno dell’ebraismo, ha iniziato ma, ripetiamo, questo percorso storico deve essere letto anche in chiave di teologia della storia e quindi di provvidenziale agire di Dio nella storia a separarsi dal mondo giudaico. Quest’ultimo restò legato ad un’interpretazione piuttosto letterale della Torah e nel frattempo, per reazione alla fede cristiana, ne elaborò, sulla base di una asserita Torah orale, una rilettura a-cristica: quella dalla quale nacque il Talmud, che altro non è che la collazione di commenti alla Legge da parte di maestri ebrei prevalentemente post-cristiani, benché coperti da un’aura di autorità fatta risalire, per presunta tradizione ininterrotta, all’epoca mosaica.

La separazione della fede cristiana dal mondo giudaico è vista, giustamente, dal Sacchi come un movimento reciproco e parallelo, che trova, in ambito cristiano, nel Vangelo di Giovanni nel quale Gesù è contrapposto in modo netto non tanto a questa o a quella setta giudaica del tempo quanto ai giudei nel loro complesso l’espressione forse più compiuta. Ma qui, ad integrazione delle osservazioni del Sacchi, dobbiamo porre una fondamentale domanda: cosa si intende davvero nel Vangelo di Giovanni con il termine, in apparenza generico ed omnicomprensivo, di giudei e che sembra porre in capo a Giovanni una certa pesante responsabilità nella genesi, al momento della separazione tra le due fedi, dell’antigiudaismo cristiano?

Qui, dunque, ci sia consentita una osservazione importante non contemplata dal Sacchi al fine di evitare fraintendimenti sull’antigiudaismo di Giovanni, il quale, però, era ebreo come tutti gli Apostoli: cosa che troppo spesso è dimenticata dagli esegeti. Il malinteso, dagli esegeti moderni, antigiudaismo di Giovanni non può, né teologicamente né storicamente, essere confuso con nessun antisemitismo o esserne ritenuto radice. L’antisemitismo è, invece, un fenomeno del tutto legato ai parametri della cultura teosofico-darwiniana del XIX secolo e senza la quale non avrebbe avuto la tragica esplosione che ha avuto nella prima metà del XX secolo (2). Approfondiamo, pertanto, questa cruciale questione, prima di riprendere l’interessante discorso del Sacchi.

Ebrei e giudei

Nell’antico messale romano del Concilio di Trento comparivano due preghiere che di seguito riportiamo: «Oremus, et pro perfidis Judaeis ut Deum et Dominus noster auferat velamen de cordibus eorum; ut et ipsi agnoscant Jesum Christum Dominum»; «Oremus, Omnipotens sempiterne Deus, qui etiam judaicam perfidiam a tua misericordia non repellis: exaudi preces nostras, quas pro illius populi obsecratione deferimus; ut, agnita veritas tuae luce, quae Christus est, a suis tenebris eruantur» (3). Entrambe le preghiere erano parte fondamentale del canone liturgico del Venerdì Santo. Come è chiaramente evidente dal testo si tratta di implorazioni alla Misericordia Divina in favore del popolo ebreo, affinché esso riconosca in Cristo l’atteso Messia. Eppure, certa ipocrisia esegetica e storiografica ha usato queste preghiere di misericordia come atto d’accusa contro un presunto antisemitismo cattolico.

Ora, casomai quelle preghiere erano espressione di un atteggiamento antigiudaico che può aver comportato, perché strumentalmente utilizzato in lotte originate da ben altri motivi politico-sociali, anche gravi problemi storici nei rapporti tra cristiani ed ebrei ma non può certo dirsi, come pretendono alcuni, che la persecuzione nazista, a base razziale, fosse in gestazione nel Vangelo di Giovanni e in preghiere come quelle sopra citate.

Il termine latino perfidi significa semplicemente increduli, infedeli, e in tal senso, con l’accezione negativa che è data all’incredulità, per traslato significa anche infidi. Nell’antica liturgia del Venerdì Santo, l’espressione perfidis Judaeis stava a significare giudei infedeli, senza fede, increduli, ossia senza fedeltà al Dio di Abramo incarnatosi in Gesù Cristo. Una condizione di incredulità della quale, mentre si implorava la misericordia divina affinché fosse tolta dal loro cuore il velo dellignoranza, non veniva affatto, e giustamente, minimizzato il carattere negativo.

E’ invece molto importante notare che nella liturgia antica non è usato il termine Hebraei ma il termine Judaeis. La distinzione non è solo terminologica ma assolutamente sostanziale. Essa è di origine addirittura evangelica ed è fondamentale.

Nell’Enciclopedia del Cristianesimo (De Agostini, 1997) alla voce Giudei si legge: «Nel Vangelo di Giovanni il termine giudei non indica tutto il popolo, ma il gruppo degli avversari di Gesù, e più precisamente i sadducei e le autorità religiose del Tempio».

In Giovanni 18,36, davanti a Pilato che Gli chiedeva ragione della sua Regalità, Gesù risponde: “Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai giudei”, latino Judaeis. Sempre in Giovanni, 19,7, le autorità religiose e la folla dei loro accoliti e seguaci, che chiedono a Pilato la messa a morte di Gesù, secondo la loro legge, perché Egli si era fatto Figlio di Dio, sono definiti appunto giudei, latino Judaei. Ed ancora in Giovanni (19,12) la folla che urlava a Pilato, il quale appariva ben intenzionato verso Gesù, ammonendolo, nel caso lo avesse liberato, di dimostrarsi traditore di Cesare, è composta sempre e solo di Judaei mai di Hebraei.

Troviamo invece l’uso del termine Hebraei nell’antica liturgia processionale della Domenica delle Palme, quando, con riferimento al Vangelo di Matteo (21,8-11), Vangelo scritto appositamente per un uditorio ebraico e nel quale i nemici di Gesù sono sempre indicati con la perifrasi “i farisei ed i sadduccei” oppure con l’altra “i sommi sacerdoti e gli anziani del popolo”, si recitava: «Pueri Hebraerorum, portantes ramos olivarum, obviaverunt Domino clamantes: Hosanna in excelsis» ed anche «Pueri Hebraerorum vestimenta prosternebant in via, et clamabant dicentes: Hosanna filio David; benedictus qui venit in nomine Domini» ed ancora «Ingrediente Domino in sanctam civitatem, Hebraerorum pueri resurrectionem vitae pronuntiantes, et cum ramis palmarum: Hosanna, clamabant, in excelsis».

La Chiesa, dunque, ha sempre distinto, sulla base stessa dei Vangeli, tra  judaei ed hebraei di Gerusalemme. I primi ciechi per la durezza del loro cuore perché preoccupati solo di non provocare i romani in quanto erano in attesa del Messia politico sono la folla fanatica istigata dal Sinedrio mentre i secondi sono quella parte, minoritaria ma non così esigua come comunemente si pensa, del popolo ebraico che, come testimoniano ampiamente i Vangeli, ha creduto in Cristo.

Da un punto di vista cristiano, gli ebrei di oggi, professando non la fede dei Patriarchi e dei Profeti antico-testamentari ma, di essa, quell’adulterazione che è il giudaismo post-biblico, un misto di umane tradizioni rabbiniche e di esoterismo cabalistico, sono i discendenti di quegli ebrei che si lasciarono irretire nell’incredulità dai loro capi religiosi. In questo senso ancora oggi, come nelle raffigurazioni medioevali, la Sinagoga è cieca ma non per colpa dei cristiani quanto semmai per auto-accecamento.

Un destino però, per la grande Misericordia di Dio, nient’affatto irreversibile, come afferma a chiare lettere San Paolo e come nel corso dei secoli ha dimostrato il fatto che molti tra gli eredi degli ebrei, passati dall’autentico ebraismo antico-testamentario allo spurio giudaismo post-biblico, hanno successivamente purificato il proprio cuore, alcuni giungendo al riconoscimento di Cristo, altri, pur senza giungere a tanto, ricercando con sincerità la vera ed autentica radice dell’antica Fede dei loro Padri, quella Fede ebraica veterotestamentaria che era il Cristianesimo ante litteram.

Anche nel Vangelo di Marco gli avversari di Gesù non sono chiamati ebrei ma, di volta in volta, scribi, farisei, scribi dei farisei, sadducei, sommi sacerdoti ed anziani, erodiani (4). In Luca, come per gli altri evangelisti, i nemici di Gesù non sono gli ebrei, nel loro complesso, ma soltanto i capi religiosi e la folla da essi irretita.

La polemica di Gesù contro le autorità religiose del tempio è aspra ed è tutta svolta intorno all’affermazione del tradimento da parte di quelle autorità della Fede vera di Israele, quella che fu dei Patriarchi e dei Profeti e che rendeva testimonianza a Lui:

«Il Padre che mi ha mandato mi ha reso testimonianza; ma voi non ne avete intesa la voce né visto il volto e non possedete la sua parola che rimanga in voi, perché non credete a Colui che Egli ha inviato. Voi scrutate le scritture, perché pensate di trovare in esse la vita eterna; ora esse rendono testimonianza a me, eppure voi non volete venire a me per avere la vita… Non pensate che io debba accusarvi davanti al Padre; vostro accusatore è lo stesso Mosé, nel quale riponete ogni speranza. Poiché se aveste creduto a Mosé, avreste creduto anche a me, poiché egli ha scritto di me» (Giovanni 5,37-40 e 45-47) (5).

Altrove Gesù è esplicito nel denunciare l’usurpazione dei capi religiosi di Israele e l’adulterazione da essi fatta del patrimonio di Fede trasmesso dalla Rivelazione:

«Guai a voi, dottori della legge, che avete tolto la chiave della scienza. Voi non siete entrati, e a quelli che volevano entrare lavete impedito» (Luca 11,52). Oppure: «Allora Gesù si rivolse alla folla e ai suoi discepoli dicendo: Sulla cattedra di Mosé si sono seduti gli scribi ed i farisei. Quanto vi dicono, fatelo ed osservatelo, ma non fate secondo le loro opere, perché dicono e non fanno’» (Matteo 23, 1-3).

In questo brano Cristo descrive la figura del fariseo come una caricatura del vero discepolo affermando, senza finzioni diplomatiche, che «scribi e farisei si sono seduti sulla cattedra di Mosè». E’ una affermazione che sottende da subito una dichiarazione di illegittimità dell’autorità esercitata dai farisei. Ma non perché essi pretendano di essere i continuatori e gli interpreti dell’insegnamento mosaico. Sotto questo profilo la loro autorità è riconosciuta da Gesù («osservate tutto ciò che vi dicono!»). La loro illegittimità proviene invece dalla loro ambiguità: ossia dal fatto che essi non credono veramente in tutto o in parte alla fede mosaica che pur proclamano. Gesù muove loro l’accusa di incoerenza e di orgoglio. E’ il loro essere ambigui a renderli si noti bene: mosaicamente parlando! senza dirittura. Essi mentre pretendono dagli altri ciò che è proclamato da Mosé si ritengono legibus soluti e vivono al di sopra della Legge.

Secondo la tesi di Carsten Peter Thiede, noto papirologo di fama internazionale, Caifa, il sommo sacerdote grande accusatore di Gesù, nascondeva dietro l’ufficialità del culto ebraico l’adesione a spuri culti sincretistici, di probabile carattere esoterico e gnostico (6). Thiede fonda la propria convinzione sull’esame dei reperti portati alla luce dall’archeologo israeliano Zvi Greenhut nel 1990 a Talpiot sobborgo meridionale di Gerusalemme. Si tratta dei resti della tomba di Caifa. Da tali reperti Greenhut dedusse che Caifa fosse sadduceo. La cosa strana è che tuttavia Caifa fu sepolto nella forma cerimoniale tipica di chi attendeva la resurrezione della carne secondo la profezia di Isaia (“I vostri morti saranno resuscitati, i corpi si alzeranno” Isaia 26,19). Come è noto, i sadducei non credevano alla resurrezione dei morti. Thiede, dunque, avanza l’ipotesi che Caifa fosse un dissimulatore, un uomo della doppia verità: mentre in pubblico, per motivi di egemonia religiosa e politica sul popolo, sosteneva il culto ebraico ufficiale, in privato praticava altri culti.

La cosa è del tutto probabile se si pensa che, all’epoca, molti gruppi ebraici avevano adottato sincretisticamente usanze pagane, come dimostra il ritrovamento di sepolture con cadaveri recanti in bocca una moneta, per il pagamento del viaggio oltremondano, al modo dei riti funerari pagani.

Non sarebbe stata la prima volta che, nella storia ebrea, la casta sacerdotale tradiva in segreto il Dio di Abramo come è testimoniato anche in Ezechiele 8,5-13. Giuseppe Flavio nelle sue Antichità giudaiche (19, 355-358) racconta espressamente della diffusione tra gli ebrei dei culti pagani e di come, alla morte di Agrippa I, nel 44 dopo Cristo, gli abitanti della Cesarea, della Samaria e della Giudea si fossero dati ad orge e libagioni in onore di Caronte, la divinità pagana dell’oltretomba. Sempre secondo l’antico storico ebreo, tra i suoi correligionari erano molto praticati culti di provenienza egizia, greca, romana e soprattutto orientale. Insomma Giuseppe Flavio descrive la Palestina del tempo di Gesù come una sorta di self-service religioso molto simile all’odierno relativismo religioso neo-spiritualistico caratterizzato diremmo oggi da un vasto ecumenismo irenista.

Non meraviglia pertanto che questa spuria religiosità possa aver condizionato le decisioni del Sinedrio su Gesù. Questo sommo consesso era evidentemente impregnato di quella religiosità equivoca visto che anche il suo sommo sacerdote, probabilmente, lo era. La decisione di mettere a morte Gesù fu, del resto, strettamente connessa al fatto che Egli non solo richiamava Israele alla fedeltà alla Fede dei Padri ma aveva anche, in più di un’occasione, svelato pubblicamente gli iniqui segreti del cuore impuro dei sinedriti e, forse, anche la loro dedizione ai culti sincretistici. La scelta pro o contro Cristo fu per l’anima ebraica quella tra la fedeltà al Dio di Abramo e l’apostasia da Lui: gli ebrei che seguirono Cristo optarono per il Dio dei loro padri, gli altri, quelli che seguirono il Sinedrio, optarono per un’esegesi distorta della Scrittura, perché segretamente condizionata da un culto spurio.

Fu il Sinedrio responsabile dello sviamento di quella parte del popolo che ne seguì le indicazioni. Ma, attenzione! Non tutto il Sinedrio, perché, come testimoniano i Vangeli, una parte, minoritaria ma consistente, dei farisei ha creduto nella Divinità e Messianicità di Gesù si pensi, in proposito, a Nicodemo e a Giuseppe d’Arimatea sebbene non osasse uscire allo scoperto per paura di Caifa e del suo gruppo di potere, diventato egemone all’interno del sommo consesso religioso di Israele.

Certamente ci si potrà rimproverare di interpretazione troppo cristiana dei fatti narrati ma da parte nostra potremmo egualmente obiettare di interpretazione troppo giudaica coloro che invece tendono a leggere i fatti in modo diverso e filosinedritico. Al momento dobbiamo accettare la situazione per quella che è, perché non dipende dalla nostra volontà. Infatti, è inutile negarcelo, ciò che divide noi cristiani dagli ebrei post-biblici è l’essenziale: la Pietra angolare ossia la Divino-Umanità di Cristo, che gli ebrei, anche quando hanno ogni considerazione verso di Lui, non riconoscono.

Nel mondo ebraico è invalsa, da ultimo, la tendenza a scaricare sul solo Pilato la responsabilità di quanto accadde sul Golgota. Ricordiamo, in tal senso, una intervista televisiva dell’ex rabbino capo di Roma, Elio Toaff, che, appunto, individuava nel solo governatore romano colui che decise la morte di Gesù. In ambito cristiano questo tipo di racconto ha finito per prendere piede onde superare le vecchie accuse di deicidio rivolte all’intero popolo ebreo.

Ora, quando si fa la storia per perseguire altri obiettivi, fossero anche buoni, generalmente si fa cattiva storia. Pilato ha, certamente, avuto nel processo a Gesù le sue responsabilità ma alla pari di quelle del Sinedrio, e forse, essendo pagano, ossia ignaro della Rivelazione, con qualche maggiore attenuante. Non è addossando esclusivamente la colpa sul solo Pilato che si possono superare questioni secolari.

Neppure, del resto, con la colpevolizzazione di un intero popolo ma la Chiesa non ha mai insegnato questo o perlomeno non lo ha fatto in questi crudi e brutali termini (gli stessi, quelli della colpa collettiva, ripresi guarda caso dall’ebraismo in funzione anti-tedesca a proposito della shoa laddove casomai le colpe sono dei nazisti e non di tutti i tedeschi) e tuttavia, per onestà storica, la responsabilità di parte del Sinedrio non tutto non è negabile. Negarlo sarebbe fare un torto alla storia ma anche ad Israele, che è in attesa di essere reinnestato nell’Albero della Vita che è la Croce (e, chissà, forse le sue sofferenze storiche sono da Dio tollerate in vista del suo reinnesto escatologico nell’Olivo Santo: San Berardo di Chiaravalle nelle sue omelie, anche allo scopo di educare il popolino cristiano, non mancava mai di ricordare che nell’ebreo che soffre, come del resto in tutti gli uomini che soffrono, vi è Cristo stesso che soffre).

In ogni caso la sentenza definitiva sugli israeliti è già stata emessa da Cristo sulla Croce quando gridò “Padre perdona loro perché non sanno quel che fanno”. Un’invocazione di misericordia che era diretta certamente ai sinedriti e quindi a maggior ragione a quella parte del popolo ebreo che li ha seguiti (sì, perché di fronte a Cristo il popolo ebreo, per la prima volta nella sua storia, si è spaccato in due, tra coloro che hanno seguito il Messia e coloro che hanno invece seguito o sono rimasti irretiti dai loro capi religiosi).

Questo, facciamo osservare, non è un revisionismo post-Vaticano II. Basta, per convincersene, ricordare quanto insegnava, a proposito delle responsabilità nella morte del Signore, il Catechismo Romano del 1566, dunque uno dei frutti del Concilio di Trento:

«Se alcuno cerchi quale sia stata la causa per cui il Figlio di Dio ha subito la dolorosissima passione, troverà che (oltre la macchia ereditaria dei progenitori) furono spezialmente i vizi e i peccati commessi dagli uomini dallorigine del mondo sino ad oggi e quelli che si commetteranno in seguito sino alla consumazione dei secoli. (...). E questa colpa è da imputarsi a tutti quelli che troppo spesso cadono nel peccato. Infatti, avendo i nostri peccati determinato Nostro Signore Gesù Cristo a subire il supplizio della croce, certamente quelli che si avvoltolano nei delitti e nelle scellerataggini, per quanto sta in loro, ‘unaltra volta crocifiggono in se stessi il Figlio di Dio e lespongono allignominia” (Ebrei 6,6)».

Subito dopo quel Catechismo Tridentino, secondo la testimonianza di San Paolo, aggiungeva a riguardo agli ebrei che condannarono Cristo a morte, ossia ai sinedriti e a chi se ne fece irretire:«Se lavessero saputo, non avrebbero mai crocifisso il Re della gloria (1Corinti 2,8)... noi invece professiamo di conoscerlo e poi, negandolo con i fatti, pare che leviamo le mani violente contro di Lui» (Catechismo Romano del 1566, 1,5,11).

La Chiesa ha sempre individuato il responsabile della morte di Cristo nel Sinedrio ed, in sintonia con l’invocazione di perdono e misericordia di Cristo in Croce a Dio-Padre in favore dei suoi carnefici, appunto i sinedriti (e neanche tutti: certamente non furono colpevoli della Sua condanna Nicodemo e Giuseppa D’Arimatea, come già detto), ha sempre pregato per la conversione degli ebrei attuali eredi di quella parte del popolo ebraico che seguì il Sinedrio o che, nelle comunità della diaspora dei primi secoli, non accolsero l’annuncio degli apostoli. Forse dobbiamo leggere con molta più attenzione i Vangeli. Ma se deficienze umane possono esserci esse sono tutte nostre, la Chiesa non ha mai errato nei suoi insegnamenti, anche in quelli verso gli israeliti. Poi, purtroppo, le umane questioni e le umane debolezze possono aver complicato, dall’una e dall’altra parte, le vicende storiche di per sé già sempre estremamente complesse. Ed anche oggi ci sono svariate complicazioni di natura contingente, come vedremo anche in seguito.

La novità originaria di Cristo è stata la pietra dinciampo

Quel che, invece, più importa tornando, dopo la suddetta parentesi, sulla scia del Sacchi, al problema delle origini cristiane è annotare il fatto che Cristo non compare all’improvviso all’interno del mondo ebraico del suo tempo, come fosse un marziano. Sbagliano i cristiani che, marcionisticamente, pensano questo e sbaglia Neusner. Gli uni e l’altro convergono nell’errore sebbene da sponde opposte.

Abbiamo già visto quanto nella cultura ebraica del tempo di Cristo fossero già presenti elementi che poi ritroveremo, certamente presentati con una ineguagliabile profondità che li rendi nuovi, nella predicazione di Gesù.

Osserva in proposito il Sacchi, nell’articolo citato: «… il Testamento di Beniamino (un apocrifo dell’Antico Testamento), redatto non più di cinquantanni prima della morte di Gesù, sottolinea talmente limportanza dellamore per il prossimo, da farne il centro della Legge. In 3,5 si legge: ‘(luomo buono è) aiutato dallamore del Signore, che egli rivolge al prossimo’. Anche Hillel, non molto più vecchio di Gesù, non doveva avere problemi dissimili, se la tradizione ricorda che a un pagano che gli domandava di riassumere in poche parole tutta la Legge, rispondeva: ‘Non fare agli altri ciò che non vuoi sia fatto a te’ (b.Shabbat 31a). Certo ci sono differenze fra linterpretazione dellamore di Gesù e quella dei due autori sopra riportati. In Hillel è caratteristica la conclusione Ora va e studia la Legge’, cosa che mostra come in ogni caso per lui lo studio sistematico della Torah restasse fondamentale; nellautore dei Testamenti dei Dodici Patriarchi è chiaro che lamore va sempre inteso limitato a quelli della propria gente. Ma il problema che governa il pensiero di tutti e tre questi personaggi, autore dei Testamenti, Hillel e Gesù, è sempre il medesimo sia nelle motivazioni (quale è il centro della Legge), sia nel primo sviluppo del pensiero (il comandamento dellamore per il prossimo, nel caso dellautore dei Testamenti addirittura legato a quello di Dio)».

Dunque Cristo continua la spiritualità ebraica del tempo ma svelandone il senso più autentico, quello più vero, che l’ebraismo dell’epoca pur avvicinandoglisi non riusciva a cogliere pienamente (si pensi solo al fatto che l’amore del prossimo era limitato al solo amore intra-ebraico mentre Cristo lo universalizza: e solo Lui poteva universalizzarlo proprio perché è Dio incarnato).

Il Sacchi, su questa base di assoluta verità storica ed anche teologica, dimostra poi che la separazione tra ebraismo e cristianesimo è stata, dunque, successiva e che essa si è manifestata all’interno di un processo di reciproca incomprensione. Riteniamo che qui, però, il Sacchi resti troppo legato alla necessità di oggettività che la sua professione di biblista gli richiede e trascuri di considerare che gli sviluppi storici successivi, anche dolorosi, erano inevitabilmente già insiti nell’esegesi che Cristo ha fatto della Rivelazione. Come si è detto l’amore del prossimo in Cristo si universalizza, laddove per i pur grandi spiriti ebraici del suo tempo restava invece prevalentemente legato al cerchio etnico, come era necessario nell’economia veterotestamentaria. Ciò, tuttavia, ossia l’universalizzazione cristiana, comportava già in nuce quella rottura dell’esclusivismo ebraico che da un lato ha generato, in perfetta continuità con la vera essenza dell’ebraismo depositario della Rivelazione monoteistica, l’entrata dei gentili nell’Alleanza con il Dio di Abramo e, dall’altro, nel piano misterioso e provvidenziale della salvezza universale, la momentanea fuoriuscita/sospensione degli israeliti dall’alveo garantito della Rivelazione. Ecco perché pur approvando la tesi del Sacchi circa la separazione come movimento parallelo e reciproco non possiamo non ritenerla, con Gesù, Pietro e Paolo, interna al disegno salvifico.

Non siamo affatto d’accordo con Sacchi quando sembra ritenere l’antigiudaismo di Giovanni come un atteggiamento indifferenziato rivolto al popolo ebreo nel suo complesso: sopra abbiamo spiegato il senso assolutamente selettivo, rivolto ai capi e non a tutti gli ebrei, dell’antigiudaismo evangelico e più in generale cristiano (altra cosa, per quanto abbia avuto un certo peso storico, è stato il suo precipitato volgare e popolare).

Ci sembra tuttavia importante riportare un altro suo passaggio: «Come abbiamo visto già Giovanni vedeva le cose in questo modo negli anni posteriori al 70. Matteo insiste sul tema del rifiuto (di Cristo da parte ebraica), ma a differenza di Giovanni (ripetiamo: non condividiamo questo giudizio un po’ troppo sommario, nda), lo ìmputa soprattutto alle classi dominanti e non è piccola differenza. Con limpostazione di Matteo i veri ebrei sono in definitiva i cristiani e per lui cristiani’ doveva voler dire ebrei che hanno accettato il cristianesimo’. Per lui cristiano non vuol dire non ebreo».

E’ noto che Matteo ha scritto il suo Vangelo per un uditorio ebraico. Però ci sembra alquanto azzardato dire se è questo che intende dire il Sacchi che per questo Apostolo la fede in Cristo dovesse essere limitata al solo popolo ebreo. Non ci sono elementi probanti, se non un desiderio esegetico attuale, per giungere decisamente a questa conclusione. L’intera storia della prima comunità cristiana, come riecheggiata anche dagli Atti, certamente risente della tensione tra il freno della mentalità e degli usi giudaici che gli apostoli si portavano dietro e la novità originaria portata da quel Cristo con il quale avevano convissuto, intuendone il mistero, per tre anni. Una novità che li spingeva, che spingeva anche Matteo, ad oltrepassare la soglia dell’ebraismo veterotestamentario, senza tuttavia rigettarlo nella sua essenza veritativa. Da qui le discussioni che gli Atti testimoniano e che furono definite nel primo Concilio della storia cristiana, quello di Gerusalemme.

Questo primo Concilio, qualunque cosa possano pensarne certi esegeti odierni, fu il primo atto del percorso, provvidenziale, coerente e spiritualmente assistito, con il quale la fede cristiana, senza perdere la sua radice ebraica, andò definendosi nei suoi contenuti dogmatici già tutti presenti nelle parole di Gesù a contatto con la grande cultura ellenistica dell’Orbe romano, portando così a compimento un processo l’incontro tra Gerusalemme ed Atene, tra Rivelazione biblica e Logos ellenistico che, come ha ricordato Benedetto XVI/Ratzinger, era già in atto sin dai tempi mosaici e, poi, alessandrini.

Benedizione degli eretici

Precisato questo, torniamo ribadendo il nostro diverso giudizio sull’antigiudaismo giovanneo alle considerazioni conclusive del Sacchi che assumono, nell’economia del nostro studio, particolare importanza al fine di passare, di seguito, alla narrazione più dettagliata delle cause storiche della separazione tra la fede cristiana, continuatrice perfetta della Rivelazione, e l’attuale giudaismo.

Scrive, dunque, ancora il Sacchi: «… mentre Giovanni stava scrivendo il suo Vangelo certamente antigiudaico,, anche da parte opposta qualcuno si dava da fare nello stesso senso: verso la fine del I secolo dopo Cristo venne fuori labenedizione dei cristiani e dei minin oeretici’ (il termine benedizioneè un eufenismo per maledizione… per quanto… la benedizione dei minin non sia sufficiente per spiegare la completa separazione fra le due religioni …, tuttavia lesistenza di una fortissima animosità fra i due gruppi è già certa fra la fine del I secolo e gli inizi del II). Lintroduzione delluso di questa benedizione significava cacciare dalle sinagoghe tutti quegli ebrei che non aderivano a quella forma di giudaismo in trasformazione che era quello che stava fra lepoca doro del fariseismo e le origini del rabbinismo. Insomma, alcuni ebrei decisero di contarsi e il metro ne escludeva molti (è luogo comune affermare che il giudaismo, a differenza del cristianesimo, è sempre stato tollerante… se non altro perché privo di credo e di unautorità centrale paragonabile a quella del Papa. (…) anche gli ebrei hanno attraversato periodi di intolleranza marcatissima. Già al tempo di Neemia - o Ezra - fecero considerare non ebrei tutti gli ebrei che non provenissero dalla diaspora. Il problema è impostato diversamente che allinterno del cristianesimo: non si cerca tanto di allontanare coloro che sbagliano nellinterpretazione dei capisaldi della fede, quanto di allontanare coloro che non sono ebrei’. Problemi del genere sono vivi nel giudaismo di oggi. In altri termini, ogni religione ha la sua intolleranza’: ciò che cambia è il modo con cui essa si esprime. E questo dipende dalla cultura in cui la religione vive)».

La formula più antica della benedizione dei cristiani e dei minin, risalente al I secolo e trasmessaci nel testo della genizah del Cairo, così recita: «Che gli apostati non abbiano speranza, che il regno della sfrontatezza sia sradicato fin dai nostri giorni. Che i cristiani e i minin scompaiano in un batter docchio. Che siano cancellati dal libro dei viventi, che non siano iscritti tra i giusti. Che tu sia Benedetto, Signore, che pieghi i superbi».

Il tono, come si può constatare, è molto meno caritatevole della preghiera cristiana Oremus pro perfidis Judaeis della liturgia del Venerdì Santo.

Imporre nelle sinagoghe questa preghiera come una sorta di professione di fede è equivalso a cacciarne gli ebrei che si erano fatti cristiani. Ed in effetti come testimoniato anche dagli Atti e dalle Lettere Apostoliche, in particolare quelle di Paolo, la prima predicazione cristiana si era rivolta alle sinagoghe e svolta nelle sinagoghe. Fu quando essa venne ferocemente osteggiata che gli Apostoli iniziarono a rivolgersi ai gentili comprendendo che quella spinta, da loro presentita ed a loro trasmessa dall’esperienza di vita comune con Cristo, ad oltrepassare i limiti dell’ebraismo non era senza motivo ma costituiva una precisa indicazione divina.

Ricorda Vittorio Messori

«… Paolo e gli altri apostoli si rivolsero innanzitutto ai compatrioti ebrei delle comunità allestero. Scritture alla mano, ‘dimostraronoGesù proprio in base alle profezie. E i risultati non mancarono: dal giudaismo molti varcarono la soglia del cristianesimo. Non nuovareligione per loro, ma sbocco naturale della antica fede. Se spesso i predicatori trovarono un muro, pare che ciò sia dovuto non tanto a un mancato accordo sullargomento profetico; quanto al rifiuto aprioristico di un qualunque dialogo da parte dei capi delle comunità giudaiche (…). Di fronte a quella resistenza invincibile, i cristiani finirono col volgersi ai pagani’. E cominciò a scavarsi quel solco… lungo quasi due millenni» (7).

Ancora Messori:

«… tutto lAntico Testamento mescola (spesso nello stesso libro e talvolta nello stesso capitolo) le promesse alle minacce per il futuro di Israele. Allannuncio della straordinaria espansione della sua fede, della sua persistenza eterna, si affianca il vaticinio… non solo della perdita del monopolio religioso; non solo di un patto nuovo da stringere con altri; ma, anche, di una sorta di cecità che colpirà il popolo. Tale da rendere Israelein proverbio e sarcasmo fra tutti i popoli’, secondo la minaccia del Libro Primo dei Re, capitolo 9. Isaia: ‘Davvero ha versato il Signore su di voi uno spirito di letargo: ha serrato i vostri occhi, ha velato le vostre teste. Ogni visione sarà quindi per voi come le parole di un libro sigillato che si dà a uno che sappia leggere, cui si dica: ‘Leggi qua. Questi risponderà: ‘Non posso, perché è sigillato’. Se poi si darà il libro a chi non sa leggere, dicendo: ‘Leggi qua’, questi risponderà: ‘non so leggere’. Per Isaia (che pur daltro lato esalta il futuro dIsraele) Dio compirà mirabili prodigicontro il popolo onde perisca la sapienza dei suoi sapienti e scompaia la sagacia dei suoi sagaci’. Ai disprezzati stranieri, dice ancora il Dio dIsaia (capitolo 56) ‘Io darò nella mia casa, entro le mie mura, un monumento e un nome migliore dei figli e delle figlie’. Dunque, la fede degli ebrei si espanderà a tutta la terra ma Israele resterà soltanto, seppure eternamente, il custode dei testi e delle promesse’, senza decifrarli appieno? Così sembrano dire gli antichi profeti. E questa, sin dai tempi apostolici, è la lettura cristiana del misterioso destino dIsraele tra i popoli. Paolo, nella Lettera ai Romani, afferma degli ebrei: ‘Rendo testimonianza che hanno lo zelo di Dio, ma senza conoscenza’. E ancora, lo stesso Paolo: ‘Israele non ha compreso’, ‘Dio ha dato loro uno spirito di stordimento, degli occhi per non vedere e degli orecchi per non udire’; almeno (precisa lapostolo) ‘sino ad oggi’. Infatti, per Paolo, giungerà anche per gli ebrei il momento del riconoscimento del Cristo: Fratelli, non voglio che ignoriate questo mistero, affinché non siate presuntuosi, che cioè un indurimento parziale si è prodotto in Israele, finché non sia entrata la totalità dei Gentili e così tutto Israele sarà salvato’. Verso il 57-58, dunque, quando la predicazione cristiana era appena agli inizi, già Paolo prevedeva che una parte dellebraismo non avrebbe accettato Gesù come Messia (‘un indurimento parziale si è prodotto…’); e annunciava che questa situazione sarebbe durata sino a quando non fossero divenuti cristiani gli altri popoli (‘finché non sia entrata la totalità dei Gentili’)» (8).

La benedizione dei cristiani la dice molto lunga sull’ostilità che fu assolutamente reciproca tra le due comunità nei primi tempi, quando cioè la fede cristiana era ancora in fasce ed ha rischiato di essere soffocata dalla sinagoga, la quale ultima premeva sull’autorità romana per ottenere la messa al bando dei cristiani. Dietro le persecuzioni dei primi secoli si scorge, infatti, anche la pressione lobbistica diremmo oggi delle comunità ebraiche della diaspora. E’ noto che Poppea, moglie di Nerone, fosse una proselita di alcuni eminenti rabbini della comunità ebraica romana e che nella decisione del marito, a riguardo dei cristiani, l’imperatrice, giocando sulla megalomania dell’imperatore, ebbe il suo peso.

Vogliamo, in sostanza, dire che se è vero che, lungo i secoli, quando la fede cristiana era ormai saldamente in sella, i cristiani si sono, purtroppo, presi la loro rivincita, venendo meno ai loro doveri di carità (raccomandati, invece, nelle sue lettere da San Paolo) verso gli ebrei, è innegabile che la lite fu iniziata da parte ebraica sin dalla persecuzione di Stefano e che i fratelli maggiori non sono affatto stati da meno, di noi cristiani, quando si è trattato di menar le mani e si trovarono nelle condizioni storico-politiche per farlo con certezza di prevalere (condizioni che non si registrarono solo nei primi secoli: quando gli Avari si convertirono nel VII secolo all’ebraismo, dando origine al ramo askenazita dell’attuale giudaismo, il sinedrio collocatosi a corte decretò il concentramento dei cristiani in una sorta di ghetti e la loro discriminazione legale). Si tratta di una storia, quella dell’intolleranza ebraica anticristiana che oggi nessuno ricorda mentre ad ogni dove si menziona quella cristiana antiebraica.

La Chiesa delle origini era composta, ad iniziare dagli Apostoli e da Maria Vergine, da ebrei che avevano riconosciuto in Cristo il Messia atteso ai quali sin da subito si associarono altri ebrei della diaspora conquistati dalla predicazione apostolica e passati al Cristianesimo ma fu perseguitata dagli ebrei. Al punto che le autorità dell’impero romano dovettero emanare norme per difendere i cristiani.

Antigiudaismo come reazione all
anticristianesimo

Intorno al 150 dopo Cristo San Giustino di Nablus scriveva rivolto ai persecutori pagani: «I Giudei ci considerano loro nemici e loro avversari. Come voi, anchessi ci perseguitano e ci mettono a morte quando possono farlo (.. .). Ne potete avere le prove. Nellultima guerra di Giudea, Bar Kochba, il capo della rivolta, faceva subire ai soli cristiani gli stessi supplizi se non rinnegavano Cristo» (Apologia 1,31,6). Nell’altra su opera, Dialogo con Trifone (16,4), sempre Giustino ricorda che, nella sua epoca, la benedizione era ormai l’unico mezzo rimasto agli ebrei contro i cristiani, dal momento che «non avete (più) il potere di alzare la mano contro di noi, grazie a coloro che in questo momento ci governano, ma ogni volta che lavete potuto, lavete fatto». Giustino si riferisce ai provvedimenti a tutela dei cristiani che l’autorità romana, fra mille tentennamenti, iniziava ad emanare.

Nella sua Storia Ecclesiastica (4,8) Eusebio afferma che l’aut aut imposto da Bar Kocheba ai cristiani, che non avevano voluto aderire alla rivolta antiromana, era la scelta tra la morte ed il bestemmiare Cristo. Dopo la tragica fine della ribellione di Bar Kocheba, molti cristiani tornarono dalla Transgiordania, dove avevano cercato rifugio, stabilendosi, come tramanda un cronista dell’epoca, Epifanio, attorno alla chiesa del monte Sion, nella parte meridionale di Gerusalemme, proprio mentre si consumava ufficialmente la rottura tra cristianesimo e giudaismo.

L’evento può farsi risalire al sinodo ebraico di Yamnia, cittadina a sud di Jaffa. In tale assise i rabbi farisei iniziarono ad attuare una riorganizzazione della comunità ebraica ormai priva del tempio e delle autorità sacerdotali. Fu in questo momento che iniziò anche l’opera di codificazione della presunta Torah orale che avrebbe condotto ai due Talmud, quello di Gerusalemme e quello di Babilonia. In quel sinodo ebraico si fronteggiarono due partiti, uno moderato, che aveva in rabbi Johanan ben Zakkai e Rabbi Joshua ben Hananyah i suoi maggiori esponenti, ed uno intransigente, rappresentato invece da Rabbi Eliezer ben Hircanos e da rabbi Gamaliel (da non confondere con il Gamaliel già maestro di Paolo ed all’epoca del sinodo morto da un pezzo).

Prevalse il partito degli intransigenti al quale deve pertanto imputarsi la codificazione delle cosiddette 18 Decisioni, vincolanti per la comunità, e delle 18 Benedizioni/Maledizioni. A queste Benedizioni fu appositamente aggiunta quella contro i Minim, gli apostati detta Birkat-haMinim che ricomprendeva anche i cristiani.

La Mishna è la compilazione della presunta legge orale effettuata da rabbi Juda agli inizi del III secolo dopo Cristo, a Tiberiade. Uno suo passo ricorda gli eventi del sinodo di Yamnia: «Queste sono alcune delle decisioni che furono prese nella camera superiore di Hananyah ben Hiskiah ben Gurion, quando i saggi salirono per fargli visita. Essi votarono e i saggi della Scuola di Shammay (l’ala dura difesa da un buon manipolo di gente armata pronta a far valere la ragione della forza, nda) si trovarono in maggioranza. Quel giorno furono prese le 18 Decisioni» (Shab 1,4).

Anche nel Talmud babilonese il ricordo dell’evento ha lasciato tracce: «Quel giorno si dice in esso Hillel (rabbi simbolo dei moderati in opposizione a Shammay) sedette umilmente come un discepolo davanti a Shammay. Quel giorno fu così penoso come il giorno in cui fu fatto il vitello doro» (Shab 171). E’ evidente l’intento celebrativo della vittoria degli intransigenti sui moderati.

Scrive il teologo e storico Nicola Bux:

«La Birkat-haMinim finì per sancire la rottura tra lebraismo farisaico rappresentato dai Sapienti e la Chiesa Madre di Gerusalemme: sia gli uni che gli altri, infatti, la considerarono una vera e propria scomunica (…). Con tale scomunica vennero così colpite tre categorie: i giudei collaborazionisti del vincitore romano, limpero romano in quanto tale e i giudei seguaci di Gesù. Veniva sancita la rottura definitiva tra la sinagoga e la Chiesa nascente. Tale posizione causò la caccia al giudeo divenuto cristiano. AI punto che limperatore Costantino nel 315 promulgava alcune leggi, come quella indirizzata ai capi giudei, in cui proibiva di molestare quanti avevano abbracciato la nuova religione, ribadendo la legislazione precedente che proibiva agli incirconcisi di diventare ebrei, insieme allabolizione del supplizio della croce, del crurifragio - lo spezzar le gambe ai condannati a morte - e del marchio a fuoco sulla fronte degli schiavi. Nel 329, il 18 ottobre, limperatore promulgava una legge per proteggere i convertiti dal giudaismo, condannando a morte i giudei che avessero lapidato chiunque era fuggito dalla setta omicida e aveva rivolto gli occhi al culto di Dio diventato cristiano’. Viene alla memoria il protomartire Stefano, ucciso tre secoli prima dagli ebrei ellenisti. Ancora il 21 ottobre del 335, Costantino decretava la punizione per i giudei che avessero perseguitato un ebreo convertito al cristianesimo. Anche Valentiniano III e Teodosio II l8 aprile 426 emanarono una legge con cui proibivano alle famiglie giudee e samaritane di diseredare i loro membri convertiti al cristianesimo. Al tempo dellimperatore Focas, gli ebrei o almeno i più fanatici tra loro non perdevano occasione per ripagare autorità e popolazione cristiana con ogni genere di offese, come descrive Giacobbe, un convertito dal giudaismo: ‘Io odiavo la legge dei cristiani e il ricordo di Cristo, e non volevo udire la profezia di profeti che avevano profetizzato a riguardo di lui; ma restavo a macchinare contro i cristiani in ogni sorta di mali e li oltraggiavo enormemente’ (Sargis dAberga 63). Tutto questo doveva portare malauguratamente al desiderio di vendetta dei cristiani, al punto che Focas si adoperò per la conversione forzata di tutti gli ebrei dellimpero alla religione di Stato, sebbene già in precedenza Papa Gregorio Magno avesse scritto ai vescovi proibendo di battezzare gli ebrei contro la loro volontà e in altro momento ingiungeva al vescovo di Cagliari di far restituire la sinagoga che un neoconvertito dallebraismo aveva sottratta ai suoi antichi correligionari. Lintolleranza cristiana si alimentava con la continua rivalsa giudaica. Fermiamoci qui alle soglie del Medioevo. Per fortuna oggi uno spirito nuovo da parte cattolica, ma anche da non pochi gruppi di ebrei, ci porta a considerarli come fratelli maggiori’, sebbene talvolta tentati da invidia come quello della parabola del figlio prodigo perché il padre compassionevole ne aveva festeggiato il ritorno ammazzando il vitello grasso» (9).

A volte la storia ha percorsi buffi. In quel clima, sopra delineato, di persecuzione ed ostilità giudaica verso il nascente Cristianesimo, accadeva di frequente che una delle più infami accuse mosse dai persecutori pagani ai cristiani era quella dell’omicidio rituale. Si diceva da parte dei pagani che i cristiani, durante i loro banchetti rituali, si nutrissero del corpo e del sangue di una vittima rituale, spesso un infante. L’accusa, però, non nasceva direttamente dagli ambienti pagani ma dalla errata interpretazione che i persecutori facevano delle rivelazioni, sotto tortura, dei prigionieri cristiani o degli apostati. Tuttavia sovente accadeva che tale infame accusa provenisse o fosse alimentata da parte delle comunità ebraiche della diaspora. Le quali avevano avuto modo di toccare con mano i riti cristiani dal momento che la prima predicazione apostolica, e dunque le prime celebrazioni eucaristiche, si erano svolte all’interno del mondo sinagogale. Poi, quando la situazione si rovesciò a favore dei cristiani, la medesima accusa venne rivolta da parte cristiana agli ebrei, benché i Papi abbiamo sovente dubitato di questo convincimento popolare (10).

Luigi Copertino


Fine quinta parte (di sei)

Ebraismo e cristianesimo (parte I)
Ebraismo e cristianesimo (parte II)
Ebraismo e cristianesimo (parte III)
Ebraismo e cristianesimo (parte IV)




1) Siamo debitori per le nostre considerazioni, in particolare, all’articolo di P. Sacchi, Il problema delle origini cristiane, reperibile in www.christianismus.it.
2) Per rendersi conto di quale mito, in questo caso il termine è appropriato, si sia costruito intorno ad una storicamente e teologicamente azzardata ed improponibile connessione tra antigiudaismo teologico cristiano ed antisemitismo razziale moderno, può essere indicativo quanto ha sostenuto Adriano Prosperi, il grande storico dell’inquisizione, in un articolo nel quale pur si oppone a leggi inquisitoriali come quelle tendenti a censurare il libero dibattito pubblico e la libera ricerca storica. Prosperi, in quell’occasione, puntellando con la sua autorità di storico la vigente teologia civile, ha definito l’antisemitismo: «qualcosa che ci appartiene, che è stato generato dal profondo della storia europea ed è stato portato allultima maturazione dallItalia fascista e dalla Germania nazista». “Generato dal profondo della storia europea”?! Qui, è evidente, Prosperi afferma che la radice dell’antisemitismo nazista, quello a carattere biologico, si trova nell’antigiudaismo teologico cristiano pre-moderno. Prosperi, in qualche modo, sposa la tesi di certa storiografia di parte sionista per la quale tutta l’umanità, nessuno escluso, è colpevole. Sembra, dunque, che per Prosperi l’antisemitismo razziale non abbia radici nell’illuminismo, nel positivismo, nel darwinismo, nelle logge teosofiche della Germania guglielmina e dell’Inghilterra vittoriana. Insomma, Prosperi, more solito, salva la modernità da ogni responsabilità per tutto caricare sul passato cristiano. Non abbiamo certo la necessaria competenza accademica per replicare ad un Prosperi, ma il nostro istinto ci dice che anche il suo discorso, così fermo nel richiamare all’oggettività (?) della scienza storica, nasconda invece evidenti pre-opzioni: quelle della sua formazione culturale illuminista. Ecco perché, a fronte della nostra incompetenza, affidiamo l’opportuna replica alle parole di un’altra storica, ebrea, Anna Foa, che traiamo dal suo articolo su Avvenire del 2 ottobre 2010 dal titolo Antisemitismo: non va identificato col Cristianesimo: «... la questione del rapporto tra ostilità antiebraica e antisemitismo... aveva dato esito a dispute storiografiche assai aspre nel passato ma … recentemente sembrava essersi composta in una visione che fa spazio alle differenze tra lantigiudaismo cattolico e lantisemitismo di matrice razzista e nazista, pur sottolineando sia il ruolo del secolare insegnamento cattolico del disprezzo... sia i momenti in cui lantigiudaismo tradizionale ha lasciato spazio ad una visione immutabile della natura degli ebrei. La voce Shoah redatta (per il dizionario del sapere storico-religioso del Novecento, Il Mulino, curato da Alberto Melloni, allievo di Alberigo, lo storico lodatore del Concilio Vaticano II come rottura con la Tradizione, nda) dal teologo americano Donald J. Dietrich ci propone però unimmagine radicalmente diversa, che non credo rifletta il panorama degli studi, nonostante si tratti di una voce di dizionario, volta quindi per sua natura a dar conto delle opinioni prevalenti. Lautore sceglie infatti preliminarmente di usare il termine antisemitismo a proposito di tutta lostilità antiebraica nei secoli. Ma davvero non cè differenza tra gli articoli pubblicati alla fine dellOttocento dalla Civiltà cattolica sulle accuse di omicidio rituale e le bolle con cui i Papi del XIII secolo le consideravano falsità? O fra listituzione del ghetto, per quanto deprecabile essa sia stata, e la Shoah? E davvero la Chiesa si è fermata molto prima della distruzione finale, il che sembra suggerire una distinzione solo di gradi fra Paolo IV e Hitler, o lintento della Chiesa e quello dei nazisti erano qualitativamente diversi? Davvero la cultura della razza, che Dietrich non nomina quasi, non ha mutato che marginalmente lantisemitismo del primo Novecento? Credo che nessuno storico degno di questo nome potrebbe sostenere tesi simili». Prosperi, invece, le sostiene. Per inchiodare il Cristianesimo a presunte colpe antisemite, argomento con cui più facilmente si può catalogare il nazismo come prodotto della reazione antimoderna anziché come esito avanzato delle basi immanentiste ed atee della modernità illuminista. Ed allora - questa la domanda - non c’è una opzione previa anche nel ragionamento di Prosperi ammantato di presunta scienza storica? A nostro giudizio sì, ed anche molto evidente.
3) Nelle nostre considerazioni in questa parte dell’articolo ci siamo avvalsi anche delle osservazioni di un caro amico, Romano Ricciotti, un cristiano di autentica fede senza però particolari competenze esegetiche (a dimostrazione che è la fede che deve guidare la teologia e l’esegesi).
Israel Shamir, a proposito dell’antica preghiera cattolica della liturgia del Venerdì Santo, ha significativamente osservato: «Lattuale assoggettamento dellOccidente cominciò con un atto apparentemente minimo. Nel 1960, le Chiese dOccidente tolsero dalla liturgia la preghiera Oremus pro perfidis judaeis’: ‘Preghiamo per gli ebrei spergiuri che il Signore nostro Dio tolga loro il velo dal cuore, affinché possano anchessi comprendere la luce della tua verità, che è il Signore Gesù, e possano essere liberati dalla loro tenebra’. Questa formula fu definita antisemita’, benchè sia molto lontana dalla preghiera ebraica Shepokh Hamatha’, che dice: ‘Signore, scatena la tua furia contro i goym che non conoscono il tuo nome’. Ma gli ebrei hanno mantenuto la loro preghiera di vendetta, mentre cristiani… malaccorti hanno smesso la loro preghiera di grazia e compassione». Confronta Così parla Israel Shamir. in www.effedieffe.com. Anche M. Blondet è della stessa opinione in ordine al significato epocale di certe riforme liturgiche quando osserva: «Prima del Concilio, … cera una preghiera… Pro perfidis judaeis’. E stata tolta su richiesta della nota lobby. Si poteva togliere solo il perfidis’ (anche se in latino è un termine giuridico, significa che hanno tradito il patto’). La nota lobby ha preteso che non si pregasse per loro, per la loro conversione finale. La Chiesa, per fare un atto politicamente corretto, ha smesso di fare un atto di carità (me lo fece notare Israel Shakak, ebreo non-credente). Ora, mi domando se la cessazione di quella preghiera - preghiera liturgica, pubblica, al cospetto del Sacrificio; e non privata e personale, ma della Chiesa intera, la sofferente e la trionfante - non sia la causa dello scatenamento ebraico cui assistiamo agghiacciati (quando Blondet scriveva era in corso la guerra distruttiva contro il Libano, nel 2006, e l’eccidio degli innocenti libanesi da parte dell’esercito israeliano, nda). Se non fosse un mite freno spirituale, una delle forme del kathecon. Forse ci sarà reso conto del sangue che vediamo versare». Si veda M. Blondet, Da non credere, strani cristiani, in www.effedieffe.com.
4) Emblematicamente, poi, in Marco 7,1-13, nel passo nel quale Cristo polemizza con le usanze rituali farisaiche definendole “tradizione degli uomini” ed opponendo ad essa “il comandamento di Dio”, l’Evangelista, al versetto 3, dice: «… i farisei infatti e tutti i Giudei non mangiano se non si sono lavate le mani fino al gomito». Quella congiunzione di farisei e tutti i giudei sembra voler dire che giudeo è colui che, come i farisei, segue tradizioni meramente umane che allontanano dalla vera Fede in Dio e dall’esegesi spiritualmente corretta delle Scritture. In altri termini, può vedersi in ciò la riprova dell’esistenza in seno all’ebraismo veterotestamentario, insieme ad una posizione esegetica corretta, della quale erano rappresentanti dottori della Legge come Nicodemo e Giuseppe d’Arimatea, di un’esegesi spuria, sicuramente di origini gnostiche. Esegesi spuria che, diventata progressivamente maggioritaria tra i sinedriti, avrebbe irretito e sviato, in conseguenza del compiersi degli avvenimenti messianici nella Persona di Cristo, quella parte del popolo ebreo che rimase succube dell’egemonia dei suoi capi religiosi.
5) Sulla base di questa chiara ed esplicita affermazione di Cristo, la Chiesa nei secoli non ha mai nascosto ai discendenti di quella parte del popolo ebraico che non ha accettato la Divino-Umanità messianica di Cristo l’invalicabile giudizio cattolico ad essi relativo. Dal canto loro, questi ultimi hanno ben compreso la questione e onestamente, a differenza di tanti cattolici ecumenisti, non nascondono che Cristo è la pietra di inciampo nel dialogo ebraico-cristiano. L’ex rabbino capo di Roma, Elio Toaff, su Repubblica del 1 agosto 1992, ebbe a dire con onesta chiarezza: «In che cosa consiste la grande ferita teologica tra cristianesimo ed ebraismo? Nel Messia, chiaramente. Loro ci credono e noi no. E non si possono fare passi in questo senso. Se noi riconoscessimo la funzione messianica di Gesù, non saremmo più ebrei. Noi siamo rimasti quel che eravamo anche dopo Cristo. Non ci siamo dissolti, non ci siamo convertiti. Siamo continuati ad esistere al di là della croce’, non ci siamo accontentati di essere definiti solo come premessa alla religione cristiana…». Orbene, come abbiamo detto, non è affatto vero che essi sono rimasti quel che erano anche dopo Cristo e proprio l’ammonimento di Cristo in Giovanni 5, 45-47 sta lì a sancirlo. Per quanto poi riguarda il fatto che la conversione per l’ebreo significhi apostasia dalla propria ebraicità lasciamo pure la parola ad un predecessore di Toaff, Eugenio Zolli, il quale, dopo il battesimo, ha sempre asserito che per lui, ebreo, non si trattava di conversione ma del naturale e definitivo compimento della propria ebraicità (dove per ebraicità egli intendeva la fede di Abramo la cui pienezza aveva inutilmente cercato nel coacervo di tradizioni umane del giudaismo post-biblico). Per inciso va detto che basandosi sul fatto che, in effetti, la Bibbia, nel canone da noi conosciuto, ha trovato la propria codificazione scritta soltanto all’epoca del ritorno dall’esilio babilonese, qualcuno sottolinea come Gesù attribuendo a Mosé la scrittura dei testi veterotestamentari segua l’errata convinzione che fu comune fino a quando il metodo storico-critico non ha stabilito il momento della codificazione del canone. Si è fatto fin troppo affidamento sulla presunta infallibilità del metodo storico-critico (di origine protestante, viziato da un insanabile razionalismo e tutto basato sul presupposto luterano del sola scriptura). In verità lo Spirito illumina la Scrittura. Gli esegeti più avveduti e più inclini al rispetto di Tradizione e Magistero sono critici verso il metodo storico-critico, quando esso è usato in funzione demitizzante, ben consci delle limitate possibilità della sua utilizzazione e dei limiti entro i quali esso può svolgere una meritoria, ma sempre ausiliaria, funzione esegetica. Sul quotidiano Avvenire del 29 settembre 2005 è stata riportata la notizia del ritrovamento di uno scritto ebraico attribuito ad un personaggio citato da Geremia e risalente al sesto secolo avanti Cristo, ossia a più di 2.500 anni fa. Si tratta di un frammento risalente all’epoca del primo tempio, uno scritto giuntoci direttamente dalla dinastia di re Davide e dunque antecedente, anche se di poco, la distruzione del primo tempio e la deportazione a Babilonia. La Rivelazione aveva una salda trasmissione orale garantita dallo Spirito, e da ben noti metodi di memorizzazione usati nell’antichità, ma è del tutto plausibile che la sua trasmissione per iscritto non fosse affatto ignota anche in tempi molto remoti e che pertanto insieme alla trasmissione orale circolassero codificazioni scritte, più o meno parziali, sin dai tempi mosaici o addirittura abramitici. Mosé ben avrebbe potuto lasciare anche qualcosa di scritto, come un’iniziale codificazione della Parola di Dio fino ad allora trasmessa in prevalenza oralmente. La chiarezza di parte ebraica, nel sostenere apologeticamente l’esegesi giudaica contro l’esegesi cristiana, chiarezza alla quale fa riscontro purtroppo il modernista complesso di inferiorità di parte cattolica, è evidente persino in ambito filosofico e pertanto extra-rabbinico. Il filosofo ebreo Harold Bloom, grande stimatore della sottigliezza talmudica di cui fa ampio uso nei suoi scritti, nel suo ultimo libro, Gesù e Yahvè (edito in Italia da Rizzoli), propone, mediante il ricorso ai personaggi shakesperiani, un’analogia fra re Lear e il Dio della Bibbia ebraica, da un lato, e quella tra Amleto e il Signore del Nuovo Testamento, dall’altro lato. La figura del Cristo è, giudaicamente, contestata da Bloom, in questo analogamente a quanto fa Neusner, sul piano della coerenza e continuità fra Torah e racconto evangelico, fra la insondabilità apofatica, presunta da Bloom, del Dio professato da Mosè e l’incarnazione del Salvatore predicato da Paolo. A partire da questa frattura, Bloom nega esplicitamente l’esistenza di una comune tradizione ebraico-cristiana. Molto più stretta, secondo Bloom, sarebbe la prossimità fra Yahvè e Allah, essendo islam ed ebraismo due monoteismi assoluti, a differenza del Cristianesimo, reso politeista dalla formulazione della dottrina trinitaria Una critica di questo genere è stata avanzata anni fa dal caposcuola della cosiddetta Nouvelle Droite, il neopagano e nicciano Alain De Benoist, per il quale il successo del Cristianesimo in ambito pagano antico sarebbe stato dovuto soltanto alla politeizzazione trinitaria del Monoteismo: quando si tratta di polemica anticristiana, sembra proprio che la critica giudaico-postbiblica e quella neopagana nazisteggiante si stringano la mano! Ma il vero problema per Bloom, in definitiva, è un altro. È l’impossibilità che il Signore degli Eserciti scelga di sacrificarsi (suicidarsi, egli insinua) sul Calvario. Lo scandalo della Croce continua a essere inaccettabile per gli ebrei. Naturalmente la lettura di Bloom risente pienamente di un’impostazione talmudica, e perfino cabalista con quell’accenno all’apofaticità, gnosticamente malintesa, del Dio mosaico, ed è per questo che egli nega, come faceva a suo tempo lo gnostico Marcione, la continuità ebraico-cristiana: perché egli confonde ebraico con giudaico ossia fede ebraica veterotestamentaria e giudaismo post-biblico nel suo complesso letteralista-talmudico e mistico-cabalista. Confusione che gli rende impossibile anche di comprendere l’Eterno Sacrificio d’Amore della Croce, da lui ridotto a masochistico suicidio.
6) Confronta l’articolo di Leonardo Servadio A Gerusalemme Thiede entra nella tomba di Caifa, in Avvenire, 8 aprile 2004.
7) Confronta V. Messori, Ipotesi su Gesù, SEI, Torino, 1976-1993, pagine 61-62.
8) Confronta V. Messori, opera citata, pagine 82-83.
9) Confronta N. Bux , Lanticristianesimo alle origini dellantigiudaismo, Il Timone, aprile 2010.
10) Ciò naturalmente non toglie che, come ha quasi dimostrato lo storico ebreo Ariel Toaff, figlio dell’ex rabbino capo di Roma Elio Toaff, singoli gruppi di fanatici ebrei, imbevuti di una sottocultura di tipo cabalista e magica, incrostata di superstizioni alchemiche inerenti il potere taumaturgico del sangue umano - le stesse superstizioni che altrove hanno dato origine alle leggende sui vampiri -, possano effettivamente, come sembra, secondo Ariel Toaff, sia accaduto nel caso di Simonino da Trento, aver praticato riti assurdi su ignare vittime. Questo, del resto, anche se fosse provato irrefutabilmente, non consente di fare facili ed indebite estensioni per formulare accuse infondate contro un intero gruppo umano. Anche perché i fanatici e i delinquenti sono ovunque, in tutte le culture.


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