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La Rai mangiasoldi è da vendere
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Non c’è più bisogno di chiedere in quale azienda di qualsiasi parte del mondo un dirigente può mandare pubblicamente a quel paese il proprio numero uno e farla franca, anzi rovesciare la frittata e mettere lui sotto processo i superiori; in quale azienda si esibiscano in piazza dettagli contrattuali riservati; in quale azienda un consiglio d’amministrazione venga indetto dal management e immediatamente disdetto dai partiti politici, i quali convocano gli sconvocati. La risposta è troppo facile: stiamo parlando della Rai. Ma attenzione. Messa così potrebbe apparire solo una telenovela stantia, una fiction malriuscita. Il solito chiacchiericcio politico e l’invasione con insopportabili diatribe sui contratti di questo e quello (che soltanto a loro interessano) delle nostre prime serate da telespettatori. Basterebbe ricorrere allo zapping. No: il problema ormai è un altro, e si pone a un livello ben più alto.


Il problema non si chiama né Mauro Masi né Michele Santoro; si chiama Rai. Questa Rai che ci vuota sempre più le tasche come contribuenti. E qui non c’è zapping che tenga, non c’è libertà di scelta nella quale possiamo rifugiarci. Qualche cifra tanto per capire. Il deficit di viale Mazzini era inferiore ai 10 milioni nel 2008, è stato di 80 nel 2009, sarà di circa 130 milioni alla fine di quest’anno, e in base alle previsioni interne entro il 2012 potrebbe avviarsi verso quota 600 milioni. Tutti soldi che dovrà tirar fuori il Tesoro, azionista al 99,5 per cento, ma in base ad una legge che solo la politica italiana poteva partorire, unico proprietario senza diritto di proprietà. Ma questi sono solo i dati di esercizio. Poi c’è il conto economico. In base al bilancio 2009 sul 2008, la Rai ha costi vivi operativi superiori ai 2,5 miliardi annui a fronte di un fatturato inferiore ai 3,2. E debiti per oltre 1,2 miliardi. E questo nonostante un introito da canone che nel 2008 ha superato 1,6 miliardi di euro, e nel 2009 si è attestato poco sotto 1,7. Soldi usciti appunto dalle nostre tasche: per mantenere tra l’altro 11.387 dipendenti dei quali 2.006 giornalisti. Di questi, 330 sono direttori, vicedirettori e capiredattori. Neppure il Pentagono ha una simile proporzione di alti gradi. Dunque: noi italiani sborsiamo ogni anno 1,7 milioni di canone più altre centinaia di milioni di ripianamento deficit. E poi gli oneri sui debiti, difficilmente quantificabili. In totale, ad oggi ben oltre due miliardi di euro, che aumenteranno considerevolmente.


Masi, il dg voluto dal centrodestra e contestatissimo da sinistra, ha messo mano ad un piano di tagli che naturalmente non tocca il personale (unico caso nel panorama editoriale mondiale), ma esternalizza alcune produzioni e prevede la vendita per 200 milioni di 1.500 torri di trasmissione rese obsolete dal digitale terrestre. Il ministro Giulio Tremonti ha sul tavolo un dossier di cessione delle frequenze – liberate sempre dal digitale – che in base alle stime potrebbe rendere due-tre miliardi. Secondo uno studio de lavoce.info, sito internet certo non vicino al centrodestra, dall’asta si potrebbero ricavare anche quattro miliardi, nonché una quota di frequenze da destinare alla banda larga per internet. Fatto sta che tutto ciò sta provocando una rivolta a sinistra, mentre il ministro dell’Economia vorrebbe attingere almeno al tesoretto delle frequenze per coprire gli impegni di fine anno: precari dell’Università, fondo per il cinema, incentivi vari. Ma ormai non si tratta né di Masi, né di Tremonti, né di frequenze che pure è giusto valorizzare: questi sono aspetti e misure temporanei, pezze una tantum. Invece con tutta evidenza il problema vero è l’altro: ha senso continuare a sborsare oltre due miliardi l’anno per un servizio pubblico di questo tipo? O non sarebbe meglio vendere la Rai con tutto il suo inutile gigantismo, tenendoci un vero ed essenziale servizio pubblico di qualità? Quante riforme universitarie, quante infrastrutture, quante riduzioni di tasse si possono finanziare con due-tre miliardi strutturali annui? L’obiezione è nota: la Rai è così perché dall’altra parte c’è Berlusconi con Mediaset. Sì, ma chi l’ha stabilito che l’informazione pubblica debba essere esattamente speculare (ma non nei costi: il Biscione ha 378 giornalisti, un settimo della Rai) alla concorrenza privata? Che a tre reti debbano corrispondere tre reti? In Inghilterra la Bbc compete con Rupert Murdoch grazie alla qualità, non alla quantità. E comunque non viene risparmiata dai tagli del governo.


Negli Usa la tv pubblica Pbs non si batte contro Fox, Nbc, Cnn e le altre corporation (tutte in ristrutturazione) sull’audience, ma sulla credibilità. Se solo immaginasse di elaborare palinsesti e ingaggiare anchorman in base alla concorrenza privata verrebbe chiusa seduta stante, e certo non per fare un favore a Murdoch (proprietario di Fox) o alla General Electric (proprietaria di Nbc). Da noi tutte le leggi sulla televisione, compresa la Gasparri, hanno avuto al centro la simmetria Rai-Mediaset, con qualche fetta per i privati. Ciò peraltro non ha impedito a Sky di prendersi il monopolio, o quasi, del satellite, dove peraltro fa un’ottima programmazione ed un’informazione ruvida per il governo. Sky ha ormai il 10 per cento degli ascolti, tutti a pagamento: se l’intento dell’impalcatura legislativa era di proteggere gli interessi del Cavaliere, come dice la sinistra, o i progettisti l’hanno studiata male oppure è in malafede l’assunto. La realtà è che le varie norme hanno sì tutelato Berlusconi, ma prima ancora la Rai. Basta guardare alla legge Mammì del 1990, quando la discesa in campo berlusconiana non era neppure immaginabile: allora l’obiettivo era di impedire agli editori di giornali – soprattutto ad Agnelli – di possedere televisioni. E in quel momento le vere bocche di fuoco televisive non erano a Cologno Monzese, ma in viale Mazzini. Dove risiedevano in pianta stabile gli interessi dei partiti: in questo nulla è cambiato. Infatti chiunque si azzardi a chiedere di privatizzare davvero la Rai deve vedersela certo con il Cavaliere, ma soprattutto con le barricate della sinistra. Da quella parte tutti vorrebbero cacciare Masi, ma nessuno pensa minimamente ad una vera privatizzazione.


Un po’ perché la sinistra potrebbe tornare al governo, ma soprattutto perché anche all’opposizione la Rai fa comodo così com’è: con i Santoro, i Ballarò, i conti in disordine ed un’inesauribile riserva clientelare-sindacale. Anche Fini, a Mirabello, ha gridato “liberiamo la Rai dai partiti”: però alla lottizzazione delle poltrone ha attivamente partecipato anche lui, ed oggi proprio il suo nuovo partito è ospite fisso di ogni talk show, secondo il solito collaudato bilancino. Dunque chiacchiere e slogan stanno a zero. Per la Rai ci sono solo due ipotesi: o la si vende, oppure sarà la Rai a mangiarsi noi e i nostri portafogli.

Fonte >  Il Tempo


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