>> Login Sostenitori :              | 
header-1

RSS 2.0
menu-1
incorporazione.jpg
Incorporazione
Stampa
  Text size
La storia di ogni popolo, dice Ortega y Gasset, è la storia di una incorporazione. A cominciare dalla nascita dell’impero romano

Nel dare inizio alla sua «Storia di Roma» - dice Ortega y Gasset - Mommsen cerca una frase, un concetto che compendi ciò che ha compreso dalla poderosa, erudita ricostruzione di quel colossale evento che è la storia del popolo romano: l’unico popolo antico la cui nascita, ascesa, declino e morte siano completi davanti all’occhio degli storici.Soprattutto l’unico in cui sia possibile mettere a nudo i meccanismi di un potere politico unificatore grandioso, che si estese al mondo conosciuto.

Ebbene: la frase che Mommsen trova suona cosi: «La storia di ogni nazione, e soprattutto della nazione latina, è un vasto sistema di incorporazione».

«Incorporazione» (nell’edizione tedesca, Mommsen in realtà usò il termine più tecnico di «sinoykismos», che evoca l’idea di villaggi e tribù diversi che «vanno a vivere assieme») è parola che contraddice l’idea, diffusa quanto errata, la quale suppone che un popolo nasca «come accrescimento per dilatazione di un nucleo iniziale». L’errore procede da «un altro errore più elementare, che crede di trovare l’origine della società politica, dello Stato, in una espansione della famiglia", commenta Ortega: «L’idea che la famiglia sia la cellula primaria della società, e lo Stato non è che una famiglia che è ingrossata, è un ostacolo al progresso della scienza storica, della sociologia, della politica e di molte altre cose».

Come noto, l’errore è tuttora comunemente vigente anche fra i cosiddetti «politologi», ed è un tipico segno della frammentazione dei saperi a cui la nostra cultura universitaria (contraddicendo al suo nome) ha dato luogo: in realtà già quando Ortega y Gasset scriveva, le ricerche etnografiche e dell’antropologia culturale avevano chiarito che la società propriamente politica, lo «Stato», precedette nei gruppi umani arcaici l’esistenza della famiglia, la quale ha piuttosto il senso di una reazione alla politica. La prima entità politica è infatti ciò che nella Grecia arcaica si chiamava «etairia» o «fratria»: le bande di giovani maschi allontanati dal nucleo d’origine, appartenenti ad una stessa generazione e che perciò si definivano «eguali» («etairoi»), o «fratelli» appunto perché la cognizione della parentalità familiare era ancora di là da venire, e per esser «fratelli» bastava essere coetanei, della stessa covata nella tribù.

Nell’Italia prisca, sopravviveva un costume preistorico in cui si può ravvisare la sorgente di queste bande politiche: il Ver Sacrum, per cui negli anni di scarso raccolto (evidentemente l’istituto precedette persino la conquista della tecnologia agricola) la classe degli adolescenti maschi veniva ritualmente espulsa dalla tribù, e «mandata a perdere» nella caotica foresta originaria, fuori dalla polis germinale, a conquistarsi nuove terre e a sopravvivere di razzie perpetrate ai danni dei «mostri» e dei «demoni», ossia delle tribù estranee.

L’uomo indo-europeo dovette espandersi cosi, per successive espulsioni rituali e successive conquiste da parte di bande di adolescenti terribili: saccheggiatori, ladri e teppisti o eroi guerrieri secondo la mitologia interna al gruppo, com’è descritta nei Veda la banda «divina» guidata da Rudra il guerriero scatenato dal furore, tracannatore della bevanda inebriante detta «soma» (uno stupefacente non identificato), e ladro di bestiame. Del resto un’eco del Ver Sacrum è ben chiara nella favola di Pollicino e dei suoi «fratelli» mandati a perdere perché i genitori non hanno di che nutrirli: ricordo di eventi che si producevano periodicamente nel mondo germanico in età neolitica.

Il mito dell’origine di Roma non è dunque del tutto mitico, se adombra in Romolo e Remo «abbandonati» e senza famiglia, «figli di Marte», e allevati da una lupa (l’animale totemico della banda) senza spose né donne fino a «ratto delle Sabine»: un saccheggio e uno stupro di gruppo - non fanno lo stesso le odierne bande giovanili? - a cui segui, appunto, la prima «incorporazione» di genti diverse, i Sabini.

Nel mondo romano, quest’origine dello Stato è affermata fin nei nomi delle più antiche istituzioni: le «curiae» a cui gl’individui dovevano appartenere per aver diritto di voto nel più antico Parlamento, i «comitia curiata». Non erano i capifamiglia che votavano, dunque non era la famiglia la prima cellula riconosciuta, ma le co-viriae, le bande di giovani maschi in età di guerra, e a lungo in Roma i diritti politici furono connessi al possesso di strumenti per la guerra, cavalli, armi, o almeno «proles».

«Populus» significa primariamente, del resto, «devastatore»: l’orda che saccheggia. Tutt’al più, ai giovani armati si contrapponeva e connetteva dialetticamente l’altra generazione di maschi, quelli che avevano militato e possedevano l’esperienza e la tradizione: il Senatus. I «giovani» contro i «vecchi»; l’articolazione primaria fra due generazioni, incorporate in una res publica che non ne cancellerà mai la fondamentale, virtuale conflittualità.

Capire bene che la famiglia non c’entra con la res publica non è un guadagno di mera erudizione. Si tratta piuttosto di comprendere che le norme e l’etica, i legami e i valori che reggono lo Stato sono diversi e irriducibili alla famiglia; la convivenza politica è originaria, con sue strutture non derivate dalla comunità naturale.

La prima conseguenza di questa nozione è diventare coscienti che «è falso credere che la unità nazionale si fondi sulla unità di sangue, e viceversa». Lo Stato, anche quello che chiamiamo lo Stato nazionale, non è affatto fondato sulla consanguineità e sulla solidarietà che ne deriva.

La famiglia, comunità di consanguinei, si ingrandisce per proliferazione, per filiazione del capostipite. Di fatto l’unica «nazione politica» che si proponga di crescere e dominare il mondo per questa via è l’ebraica: ad Abramo viene promessa una figliolanza «più numerosa dei granelli di sabbia nel mare», e forse non è un caso se la concezione statuale dell’ebraismo contempli come un obbligo sacro lo sterminio totale delle altre razze, o altrimenti la segregazione senza convivenza possibile, per evitare la «mescolanza del sangue».

Lo Stato si ingrandisce per incorporazione di sangue diverso; e quello che per l’Occidente è il prototipo dello Stato, Roma, nella suprema indifferenza alla purezza razziale. Certo, dapprima Roma incorpora popolazioni affini, perché quando Roma nasce è un piccolo villaggio sul Palatino circondato da genti latine: razza uguale e lingua quasi identica, ma nessuna connessione reciproca (tanto poco è decisivo il dato «naturale»per unire le genti). Ben presto, però, Roma sottomette etruschi e sanniti, razze e lingue distinte; più avanti, integrerà nell’impero etnie e culture molto distanti come greci e siriaci, egizi e galli, celtiberi e germani, sciti e daci.

La cosa stupefacente è che quando Roma «sottomette» queste genti, non è già che le stermini perché i figli di sangue romano possano occupare le terre desolate dalla sua spada, e nemmeno che le assoggetti ad una schiavitù totalitaria; ma neppure le livella ad uno stato indiscriminato di sudditanza, sicché queste etnie «cessino di sentirsi una entità sociale distinta da Roma e si dissolvano in una gigantesca massa omogenea chiamata impero romano».

No: Roma mantiene le unità culturali, etniche e sociali distinte, solo le associa al suo progetto politico. Lo fa fin dall’inizio: vinte le genti del Lazio prisco, le obbliga a costituire il «foedus latinum». La federazione latina: «un corpo sociale, una articolazione unitaria», che farà partecipare alle sue future conquiste. Farà lo stesso dovunque le sarà possibile. Quando Cesare conquista le Gallie, i galli, senza essere spogliati della loro identità, della loro coesione etnica, del loro specifico «timbro» sociale, «vengono articolati in un sistema più ampio» di cui Roma stessa «non è che una parte, la quale ha un rango privilegiato nel gigantesco organismo per essere l’agente della incorporazione».

E’ esclusiva pretesa dei totalitarismi contemporanei il creder necessario che la formazione di una unità politica superiore implichi la fine dei nuclei inferiori inglobati, e s’imponga alle comunità inferiori, alle etnie, ai gruppi di distinta cultura l’obbligo di «cessare di esistere come elementi attivamente differenziati». Poiché proprio l’esistenza di questa varietà delle culture umane è ciò che i centri del potere finanziario internazionale vogliono livellare con l’omologazione dei consumi (al punto da minacciare per il nostro secolo uno «scontro di civilizzazioni» contro le culture che resistono a sottomettersi ai «modelli di vita» e ai «valori» americani) bisognerà includere nei totalitarismi in qualche modo anche l’americanismo, l’Europa di Maastricht e il World Trade Organisation, agente della globalizzazione dell’economia: varietà del totalitarismo del mercato, anche se per l’americanismo bisognerà riconoscere una più «romana» capacità di integrazione.

Lo Stato romano infatti più sagacemente, oltre che con più cordiale generosità, seppe «incorporare» senza stroncare né omologare: mantenendo nei gruppi sottomessi «la forza di indipendenza, che nei gruppi perdura benché sottomessa, ossia contenuta nel suo potere centrifugo dalla energia centrale che li obbliga a vivere come parte di un tutto e non come un tutto-a-parte». L’impero romano è dunque una costruzione energetica e dinamica, che s’avvantaggia non dell’inerzia dei sottomessi, ma delle energie creative e vitali che essi sanno autonomamente esprimere per partecipare al progetto imperiale: come l’architettura romana, l’impero romano è un elastico dominio di forze e controforze, di spinte e controspinte.

Prova ne è che al venir meno della forza centralizzatrice, di Roma, anche nelle genti di più antica romanizzazione - i galli, gli iberi - riappaia l’energia d’indipendenza, e queste genti sappiamo costruire entità politiche proprie: edificano i primi Stati nazionali, ma non come copie di Roma, bensì col proprio timbro e stile. Lo stesso, dice Ortega y Gasset, ha fatto l’antico regno di Castiglia: «quando riduce ad unità spagnola Aragona, Catalogna e il Paese Basco, questi popoli non perdono il carattere di popoli distinti»; perciò quando in Spagna viene meno la forza centrale, «scultrice della nazione», che ha il suo cuore in Castiglia, «riappare automaticamente la energia secessionista, centrifuga, di questi popoli».

In un sistema dinamico com’è la società politica occidentale, l’apparire di tendenze centrifughe, particolariste, secessioniste, è la conseguenza dello spegnersi di un’altra e opposta tendenza, di un’altra e opposta forza: quella d’incorporazione.
Ma in che consiste questa forza?

Per Ortega, la capacità di «creare nazioni», di incorporare le diversità naturali in una unità giuridica articolata e superiore, è una dote nativa di certi popoli. Popoli super-intelligenti ne hanno mancato: Atene non seppe nazionalizzare l’Oriente mediterraneo, nonostante il prestigio e persino l’influsso che la sua cultura estese sull’Oriente, al punto che nell’età ellenistica il greco divenne la lingua comune dell’est mediterraneo: l’unità linguistica, uno dei presunti dati costitutivi «naturali» della nazione, era stata istituita. Eppure non agi come fattore unificante.

Per contro, popoli non ben dotati per la scienza, la filosofia e l’arte possiedono in sommo grado di questa capacità. Roma e Castiglia, fondatrici d’imperi per incorporazione, non brillarono per la produzione intellettuale; e neppure Londra, neppure gli Stati Uniti, possiamo aggiungere noi.

Tale dote non è di tipo intellettuale: «Non è sapere teorico, né una ricca fantasia, né una profonda e contagiosa emotività di tipo religioso». E’ una dote che Ortega definisce «di carattere imperativo»: come si vedrà, egli intende una forza morale, una speciale formazione del carattere e della volontà, a cui attribuirà talora l’aggettivo di «cordiale».

«E’ un saper esigere, un saper comandare». Ma il «comando» non è, per il filosofo, in primo luogo mera costrizione fisica, mero uso della forza materiale. La violenza da sé non ottiene l’incorporazione: l’impero di Gengis Kan durò quanto la vita del fondatore, e finché durò la minaccia della sua spada. L’esempio del cosiddetto impero sovietico è ancora più evidente, perché vicino nel tempo: per settantanni, Mosca ha saputo opprimere popoli diversi, imporre un’ideologia unica con enormi apparati di polizie segrete, spie, occupazioni militari strapotenti, incarcerazioni, deportazioni in massa; ma non ha mai un solo giorno «comandato» nel senso in cui «comandò» Cesare, la cui costruzione durò secoli e fu un esempio per i millenni.

Mosca non ha mai comandato nel senso in cui comandano gli Stati Uniti. E’ bastato che a Mosca cessasse per un attimo di esercitare tutta la sua violenza, perché si producesse una mostruosa secessione: persino popolazioni sorelle dei russi come gli ucraini e i bielorussi, per secoli docili al giogo dello zar, hanno rigettato l’egemonia di Mosca, si sono dichiarati indipendenti.

Per contro, proprio nell’egemonia - oggi mondiale - degli Stati Uniti possiamo distinguere che essa poggia, assai più che sulle portaerei e sui sistemi missilistici americani, sulla diffusione spontanea di merci e beni altamente simbolici del «sistema di vita americano». La vodka non ha mai goduto del prestigio sociale che ha il whisky.Mai la gioventù del mondo ha scelto di indossare una shapka o dei valenki come ha desiderato di vestire i blue-jeans.E nessuna bevanda russa o europea ha il successo della Coca Cola.Il fatto è che miliardi di consumatori nel mondo caricano queste merci dei valori del tutto immaginari di «libertà individuale», «modernità», e nel caso del whisky di «classe», della rude eleganza propria dello Herrenvolk americano, del «popolo dei signori» che oggi bene o male è leader nel mondo: e quando consumano quelle merci, essi hanno l’idea di essere dentro il modello di vita americano.

Si eviti, di grazia, l’obiezione banale che tutto questo è l’effetto della pubblicità.Ciò che conta è che la pubblicità punti non sulla presunta miglior qualità di queste merci, ma sullo stile di vita a cui esse consentirebbero di partecipare. Come in una eucaristia secolarizzata, chi beve Coca Cola non incorpora dolcificanti e acido fosforico, ma i «valori» dell’America. Sono questi valori che il consumatore desidera fare suoi, e ciò senza nessuna costrizione. Ciò che dunque è evidente, è che l’America non solo ha la proietta la sua forza militare nel mondo, ma anche quella di attrarre genti diversissime verso il suo modello di vita. Che questo modello di vita non sia solo il consumismo - accusa di un anti-americanismo superficiale e culturalmente arretrato, tipico dell’arretrata sinistra e dell’arretrato cattolicesimo all’italiana - lo mostra il successo universale del cinema americano, strumento principale dell’«imperialismo culturale» USA. I soggetti dei film americani non sono quasi mai piccoli soggetti lirici; non sono quasi mai, per esempio, «film d’amore». La storia d’amore (o di sesso), che non manca mai, è laterale alla storia principale: che è sempre un soggetto «grande»: la lotta di un uomo contro l’ingiustizia e il male, la lotta per la verità e l’ordine. Il cinema americano è sempre epico, e ciò precisamente piace agli spettatori.

E’ straordinariamente significativo che, benché la cinematografia americana sia la massima esportatrice mondiale di film, i film americani non siano prodotti in primo luogo per il mercato estero. Produttori e soggettisti hanno di mira soprattutto il pubblico americano, e ne esprimono i peculiari valori e anche sogni, manie, incubi collettivi. Si pensi agli infiniti film di argomento giudiziario, dove il bene e la verità trionfano durante il dibattimento in aula: la giustizia (penale) è una passione civica americana.

Altro esempio: Blade Runner è diventato un film-culto anche in Europa, ma il pubblico europeo probabilmente non coglie che il tema del film è la paura e l’ostilità che suscitano gli immigrati, gli aliens, nella società multirazziale americana. I robot-biologici che nel film vengono braccati ed eliminati  perché sono sfuggiti al controllo, ne sono la metafora trasparente. La domanda che percorre la storia è: sono o no esseri umani, costoro? - domanda tipicamente americana. La risposta è: non importa che questi esseri non siano «come noi» (sono artificiali); essi sono uomini perché hanno una memoria («Ho visto cose che voi umani non potete nemmeno immaginare...») e perché si sanno, come noi, mortali. E’ una risposta tragicamente religiosa, epica cioè al massimo grado: una conclusione sulla condizione comune dell’umanità, sulla paurosa domanda che ci incalza tutti («perché devo morire?») e da cui possono nascere la pietà e la fraternità reciproche.

Mi pare un esempio abbastanza convincente di come il cinema americano, trattando quasi esclusivamente temi o problemi civili interni e ambientati intensamente in USA, li riconduca - come deve fare una civiltà giuridica autentica - ai valori universali che chiamano in causa: che sono precisamente ciò che anche uomini di diverse culture intuiscono e condividono.

Per quanto la politica reale della potenza americana possa essere iniqua, la sua filmografia (come la sua propaganda) è una proposta a condividere valori universali. Difatti gli USA sono quasi l’unico Stato contemporaneo che mostri la capacità di incorporare (per usare il termine orteghiano) genti diverse al suo interno: non solo gli abitanti dell’Alaska e delle Hawaii sono americani come gli abitanti di Boston e New York, ma gli immigrati che giungono in USA dal mondo intero - questo flusso immenso, ininterrotto da tre secoli - diventano nel giro di una generazione «americani» non solo di diritto, ma di mentalità e costumi (con l’eccezione parziale dei negri, la cui maggioranza vive in USA in stato di secessione interna).

Certo non posso essere accusato di filo-americanismo. Il fatto è che l’America - il solo «impero» la cui dinamica ciascuno può constatare perché l’ha sotto gli occhi - mostra in azione quella che Ortega y Gasset chiama «potenza di nazionalizzazione».

Cosi, tenendo presenti gli Stati Uniti, si capirà meglio quel che Ortega dice dell’altro, antico impero: «Quando Roma sottomette i popoli circostanti, più che dalle legioni questi sono innestati nel tronco latino da una illusione. Roma promuoveva una grande impresa vitale a cui tutti potevano collaborare; Roma era un progetto di organizzazione universale; era una tradizione giuridica superiore, una ammirevole amministrazione, un tesoro di idee ricevute dalla Grecia che davano una luce superiore alla vita».

Roma persegui l’integrazione per un impulso politico che anche lo storico marxista E. Bloch ha definito «liberale e generoso» - aggettivi di cui bisogna deplorare la più acuta assenza nella politica italiana, miope e meschina e particolarista.

Bloch scrive infatti che nel 212, quando Caracalla estese la cittadinanza romana a tutti gli abitanti dell’impero, l’atto «apparve come la suprema e definitiva espressione, il coronamento della politica liberale e generosa proseguita, con una costanza ammirevole, fin dai primi tempi della Repubblica... Con la stessa intenzione il gallo Rutilio Namaziano scrisse, nel momento in cui l’impero si disfaceva, i più bei versi in cui si sia glorificata la missione storica di Roma: ‘Feristi patriam diversis gentibus unam, Urbem feristi quodprius orbis erat’».

Conclude Ortega: «Il giorno in cui Roma cessò di essere questo progetto di cose da fare domani, l’impero si disarticolò». Ciò che preme all’iberico è sfatare «ogni interpretazione statica della convivenza politica, che va invece intesa dinamicamente. La gente non vive unita in una nazione senza motivo, ‘perché si’; questa coesione a priori esiste solo nella famiglia. I gruppi che si integrano in uno Stato vivono insieme per qualcosa; sono una comunità di propositi e di aspirazioni».

Quest’idea suonerà strana in Italia. Dato il livello bassissimo dell’elaborazione intellettuale sul tema della nazione, anche gli opinionisti qualificati s’accontentano di concepire la convivenza nazionale come un inerte stare insieme, proprio mentre - al contrario - ogni giorno di più il Paese si manifesta come un «pullulare di gruppi fra loro separati e ostili», segno del sempre più tragico vuoto di propositi comuni.

E’ penoso constatare che quando la Lega vocalizzò, a suo tempo, il termine «secessione», si inalberarono improvvisati cultori dell’unità della «patria», alcuni dei quali indicarono le presunte radici della nostra unità nazionale addirittura nella resistenza, ossia proprio nel momento della dissoluzione dello Stato nella guerra civile, radice che autorizzò al contrario ogni particolarismo futuro.

Ciò che impensierisce è questa tarda ostinazione a ricercare all’indietro, quando dovrebbe esser chiaro - almeno ai «progressisti» che la radice di una patria è nel futuro. Farebbe ridere, se non fosse penosa, questa pigrizia mentale che induce i nostri intellettuali a riesumare le evocazioni ottocentesche, carducciane, del retaggio storico: non possiamo non dirci italiani perché abbiamo avuto (alla rinfusa) Michelangelo, Dante, la Grande Guerra, la Resistenza... è, attenuato, l’errore semplicistico del fare coincidere la nazione con i dati «naturali»: la razza, la lingua comune, i confini «naturali». Infatti tutto ciò che appare «naturale» in una nazione è solo il segno che nella storia passata, in una certa area della terra ha agito uno Stato, con la sua forza dinamica d’incorporazione, con il suo progetto.

Dovrebbe essere evidente che l’unità linguistica è una imposizione politico-amministrativa già dal fatto che essa tende a coincidere con il raggio d’azione dove si esercita la sovranità dello Stato. Il fatto che a Malta, in Canada, Australia e in India si parli inglese non è ovviamente «naturale» ma è l’indizio dell’area in cui si è esercitata la sovranità dell’impero britannico. Se italiano, spagnolo e francese sono lingue sorelle, è perché sui territori attuali di Francia, Spagna e Italia esercitò il suo potere lo Stato romano con la sua lingua, il latino, da cui le tre lingue attuali derivano.

Occorre ancora una volta citare Ortega: «Lo Stato non è consanguineità, né unità linguistica, né unità territoriale, né contiguità d’abitazione. Non è nulla di materiale, d’inerte, di stabilito e di limitato. E’ puro dinamismo, la volontà di fare qualcosa in comune. E per la sua presenza, l’idea statale non è circoscritta da alcun confine fisico (...). Lo Stato non è una cosa, ma un movimento. Si penetri, a un momento qualsiasi, la vita di uno Stato che lo sia veramente, e si troverà una unità di convivenza che sembra fondata in questo o quell’attributo materiale: sangue, lingua, frontiere ‘naturali’. L’interpretazione statica ci porterà a dire.- questo è lo Stato. Però subito avvertiamo che questo organismo umano sta facendo qualcosa di comune: conquistando altri popoli, e l’unità che sembrava fisicamente cementata - razza, idioma, confini naturali - non serve più a nulla: lo Stato si disgrega, si atomizza».

Dunque, se in Italia è comparso - fino a poco prima del tutto inaspettatamente - un impulso secessionista, possiamo stabilire che esso è solo il sintomo della malattia mortale di ogni Stato: da molto tempo prima, lo Stato italiano deve aver perso l’impulso verso il più oltre, da troppi anni dev’essere stato incapace di proporre ai suoi abitanti «un progetto d’azione e un programma di collaborazione». E l’apparire di velleità di secessione non è nemmeno un sintomo precoce; al contrario, è un sintomo ultimo, terminale. Che è stato preceduto da altri sintomi - da altri particolarismi - che però la nostra classe politica, i nostri sociologi e intellettuali non hanno saputo interpretare.

Lo vedremo in seguito. Mi affretto però ad indicare almeno uno di questi sintomi, forse il più cruciale, che si è manifestato in Italia assai precocemente, fin dalla nascita dello Stato post-fascista: la rinuncia per principio alla forza. Un rifiuto insieme «ufficiale» (di Stato) e corale, popolare, a dotarsi di una forza militare, giù giù fino al ripudio della forza giudiziaria penale: sicché diamo lo spettacolo ridicolo di un popolo di spiriti forcaioli, violento la sua parte come ben sanno le cronache nere, che però ha rigettato coralmente la pena di morte, poi l’ergastolo, fino al rigetto dello stesso concetto di «pena» giudiziaria, che si è voluto sostituire con fumosi pseudo-processi di «inserimento» e di «riabilitazione» del reo, sicché di fatto le pene comminate vengono continuamente alleviate in via amministrativa da «semilibertà», «affidamenti ai servizi sociali» e cosi via.

Come avverte Ortega, «non è difficile» capire perché uno Stato «che sia veramente tale» tiene a sua disposizione una forza adeguata.

«Non è difficile determinare la missione della forza. Per profonda che sia la necessità d’unione tra genti diverse, se oppongono ad essa interessi particolari, capricci, viltà, passioni e soprattutto pregiudizi collettivi installati nella superficie dell’anima popolare. Vano sarebbe l’intento di vincere queste remore con la persuasione che emana dal ragionamento. Contro esse è efficace solo il potere della forza, la gran chirurga della storia».

In quest’ordine d’idee, si comprende cosa significhi il fatto che l’Italia rifiuti programmaticamente la forza: significa che l’Italia ritiene di non aver nulla da fare nel mondo. Crede di poter stare al mondo solo esistendo per inerzia, senza uno scopo o una funzione. In altri tempi, quest’illusione fu duramente smentita da occupazioni di eserciti stranieri; oggi può durare solo perché un sistema imperiale d’alleanze, presieduto dagli Stati Uniti, preserva l’illusoria esistenza come Stato di questa espressione geografica. Ma la ridicola storia dei nostri «interventi» all’estero nelle guerre Usraeliane ha rivelato ad abundantiam l’assenza di ogni progettualità dello «Stato» italiano.

Prendiamo come esempio quanto avvenne tra il ‘96 e il ’97 in Albania, da poco uscita dal corsetto di ferro del regime comunista più stupido del pianeta; l’Albania si era atomizzata in un parossismo di particolarismi minimi: tanto minimi che ogni individuo albanese pretendeva dallo Stato la «restituzione dei soldi» che ciascuno aveva perso in uno schema finanziario la cui natura truffaldina era evidente. Ciò che ne seguì fu la rivolta popolare che non riusciva a organizzarsi in rivoluzione o guerra civile, la diserzione in massa dei militari (con gli ufficiali che erano fuggiti per primi) il saccheggio delle caserme e delle armi, l’ondata di profughi verso l’Italia per fare la bella vita; tutto ciò dimostrava platealmente come si era ridotta una nazione (benissimo dotata quanto a «unità di sangue e di lingua») dopo aver perso persino l’ombra di un progetto per il futuro: a una torma di accattoni internazionali incapaci di disciplina, angariata dal pullulare di criminalità minime.

L’Albania ci diede lo spettacolo di un’intera nazione che non aspirava ad altro che a farsi prendere a carico da altri. Ma, per gli albanesi, non ultima delle loro sciagure era il fatto che il loro Stato disfatto dovesse, per vicinanza geografica e ragioni storiche, farsi assistere dall’Italia, uno Stato in disfacimento epocale. La mancanza di progettualità politica non si rivela meglio che nella riduzione della politica al «giorno per giorno», e infatti l’Italia decise di assistere l’Albania sotto «l’emergenza» delle ondate di albanesi che venivano sulle nostre coste. Tipicamente, il governo italiano identificava «l’interesse nazionale» nel meschino imperativo di fermare in qualche modo l’afflusso immigratorio, anziché concepire il progetto di integrare-colonizzare l’Albania, come entità associata, nello Stato italiano.

Alla settima potenza industriale del mondo non sarebbe stato difficile: l’Albania, tre milioni di abitanti con le dimensioni di una piccola regione, poteva esser rimessa in sesto con un modesto programma di opere pubbliche (essenzialmente, sarebbe bastata la costruzione di un’autostrada costiera e il rifacimento delle linee elettriche e telefoniche) che avrebbe dato lavoro, contribuendo fra l’altro a radicare la popolazione sulla sua terra. Il progetto economico, che sarebbe stato facilmente finanziato dall’Unione Europea, avrebbe potuto accompagnarsi all’estensione all’Albania dell’amministrazione italiana: per quanto cattiva, è meglio del nulla albanese.

Invece, mandammo a due riprese le nostre truppe in Albania... a distribuire aiuti alimentari. Mentre era evidente che la popolazione albanese non aveva nessun bisogno di essere sfamata, ma invece che fosse ripristinato l’ordine pubblico: ossia di una forza straniera che disarmasse le bande e i singoli armati e sparacchianti. Quella privatizzazione microscopica della violenza - il «pullulare di gruppi minimi e reciprocamente ostili», che per Ortega configura la barbarie, l’assenza di Stato - infatti moltiplicava l’insicurezza della vita in Albania, ingigantendo l’impulso alla fuga in Italia. Occorreva, prima di dichiarare l’indizione delle elezioni, una vera operazione militare di rastrellamento, perquisizioni, requisizione delle armi.

Ovviamente non fu fatto: le armi restarono a chi le deteneva. In compenso, la sola vera preoccupazione del governo italiano di sinistra fu quella di garantire che le «libere elezioni» albanesi dessero anche in Albania il potere a un governo di sinistra «amico» dell’Ulivo: esempio del più miope particolarismo di partito. L’interesse della fazione al posto dell’interesse nazionale.

La filmografia sovietica è stata volutamente epica, ma evidentemente la sua epicità è apparsa meno convincente agli spettatori mondiali. In parte perché spesso il tema epico era un pretesto per la narrazione di una storia intima; più decisivamente, perché l’epica sovietica fu propagandisticamente «di classe» o narrava eventi della «grande guerra patriottica», come venne chiamata in Russia la seconda guerra mondiale: un caso patente di particolarismo (sia pure gigantesco).

Nell’epica sovietica, in specie, mancarono forzatamente i temi della libertà individuale e della giustizia. L’«interesse nazionale», concetto indispensabile nella politica estera, viene definito in USA se non democraticamente, in forma semi-pubblica. Partecipano alla sua elaborazione i «trust dei cervelli» (think-tanks) privati, primo fra i quali il Council on Foreign Relations (la fondazione creata dai Rockefeller nel 1916) e i maggiori opinionisti dei grandi giornali, che spesso sono collegati a qualche think tank.

In Italia, non pare vi sia alcuna sede in cui «l’interesse nazionale» venga elaborato; persino il concetto è insolito o ignorato dai politici.



Home  >  Costume & Società                                                                          Back to top


La casa editrice EFFEDIEFFE ed il direttore Maurizio Blondet, proprietari
dei contenuti del giornale on-line, diffidano dal riportare su altri siti, blog,
forum, o in qualsiasi altra forma (cartacea, audio, etc.) e attraverso attività di spamming e mailing i suddetti contenuti, in ciò affidandosi alle leggi che tutelano il copyright ed i diritti d’autore. Con l’accesso al giornale on-line riservato ai soli abbonati ogni abuso in questo senso, prima tollerato, sarà perseguito legalmente anche a nome dei nostri abbonati. Invitiamo inoltre i detentori,a togliere dai rispettivi archivi i nostri articoli.
 
Nessun commento per questo articolo

Aggiungi commento


La Dittatura Terapeutica
L’unica ed estrema forma di difesa da questo imminente, sottovalutato, tragico pericolo particolarmente grave per l’Italia, è la presa di coscienza
Contra factum non datur argomentum
George Orwell con geniale e profetico intuito, previde l’oscuramento delle coscienze, il tramonto della civiltà, l’impostura e apostasia dalla verità che viviamo, quando scrisse “nel tempo...
Libreria Ritorno al Reale

EFFEDIEFFESHOP.com
La libreria on-line di EFFEDIEFFE: una selezione di oltre 1300 testi, molti introvabili, in linea con lo spirito editoriale che ci contraddistingue.

Servizi online EFFEDIEFFE.com

Archivio EFFEDIEFFE : Cerca nell'archivio
EFFEDIEFFE tutti i nostri articoli dal
2004 in poi.

Lettere alla redazione : Scrivi a
EFFEDIEFFE.com

Iscriviti alla Newsletter : Resta
aggiornato con gli eventi e le novita'
editorali EFFEDIEFFE

Chi Siamo : Per conoscere la nostra missione, la fede e gli ideali che animano il nostro lavoro.



Redazione : Conoscete tutti i collaboratori EFFEDIEFFE.com

Contatta EFFEDIEFFE : Come
raggiungerci e come contattarci
per telefono e email.

RSS : Rimani aggiornato con i nostri Web feeds

effedieffe Il sito www.effedieffe.com.non è un "prodotto editoriale diffuso al pubblico con periodicità regolare e contraddistinto da una testata", come richiede la legge numero 62 del 7 marzo 2001. Gli aggiornamenti vengono effettuati senza alcuna scadenza fissa e/o periodicità