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Obama si piega alla lobby
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Come già sanno molti lettori (ormai mi superano in tempestività) Chas Freeman (1) ha gettato la spugna: sotto attacco della lobby giuadica, ha rinunciato al posto di dirigente del National Intelligence Council. E certo, non avrebbe rinunciato se avesse avuto fino in fondo l’appoggio di Obama. Ma lo zio Tom ha avuto paura - come sempre - del bastone ebraico.

Un senatore, Chuck Schumer si è vantato pubblicamente di aver liquidato Freeman, portando  il caso a nome della lobby direttamente all’attenzione (se ne aveva bisogno) di Rahm Emanuel, il figlio dell’Irgun, il capo dello staff che lo zio Tom Obama si è scelto come controllore dei suoi atti (2).

Schumer ha addirittura emesso un comunicato per segnalare il suo trionfo: «Freeman era la persona sbagliata per quella carica», ha scritto: «Le sue dichiarazioni contro Israele eccessive, e gravemente, erano fuori linea con l’amministrazione. Ho ripetutamente invitato la Casa Bianca a rigettarlo, e sono lieto che abbiano fatto la cosa giusta».

Vanteria eccessiva. La liquidazione di Freeman non è opera di un uomo solo. L’intera lobby, che ha sentito quella nomina come una sfida al suo potere, ha partecipato al linciaggio in modo massiccio e coordinato.

Capo della campagna è Steve Rosen, l’ex alto dirigente dell’AIPAC (American Israel Public Affairs Committee) che si è dimesso dalla lobby perchè sotto processo - un processo che va per le lunghe - per spionaggio pro-Israele. Un vantaggio paradossale, perchè l’AIPAC - pienamente mobilitato - non è apparso in prima persona come autore del linciaggio.

Di fatto, tutti i commentatori dei grandi media, noti neocon e con nomi ebraici, hanno eseguito gli ordini con accanimento, accusando sul Wall Street Journal di Murdoch, sul Weekly Standard, su New Republic, Freeman di essere «un fantoccio dei sauditi», perchè aveva lavorato con il Middle East Policy Council, un think-tank che riceve anche finanziamenti arabi.

Inoltre undici senatori e parlamentari, noti per essere finanziati dall’AIPAC o per aderire ai gruppi della destra neocon - hanno formalmente richiesto al direttore del National Intelligence, l’ammiraglio Dennis Blair, di indagare sui «legami finanziari di Freeman con l’Arabia Saudita».

L’ammiraglio Blair ha risposto pochi giorni dopo, esprimendo a Freeman il suo «pieno appoggio», esaltandone «l’eccezionale talento ed esperienza» e negando che abbia mai «fatto lobby per un governo o un gruppo d’affari», nè che «abbia mai ricevuto alcun compenso diretto dall’Arabia saudita». Con questo, l’ammiraglio ha messo in gioco la sua stessa credibilità e autorità: sembrava un fatto decisivo. Ma il senatore Joen Lieberman gli ha replicato: «Alla prossima puntata».

E infatti lunedì, i sette senatori repubblicani della Commissione senatoriale d’intelligence mandavano un’altra lettera a Blair chiedendo un’inchiesta: stavolta non sui legami con i sauditi, ma esprimendo «preoccupazione» per la supposta indifferenza di Freeman per «i diritti umani in Cina».

La prova a carico: un appunto risalente al 1989, nei giorni della rivolta di piazza Tienanmen, in cui l’ambasciatore Freeman, perfetto conoscitore della lingua mandarin, sembrava implicare che il vero errore dei capi di Pechino non fosse la violenta repressione della manifestazione, ma «l’incapacità di intervenire in tempo» per non farla scoppiare.

Ancora una volta, Blair scendeva in campo replicando: l’appunto è citato fuori contesto, Freeman esprimeva solo «l’opinione dominante in Cina» in quei giorni. Personalmente, aveva scritto, considerava il bagno di sangue di Tienanmen «una tragedia».

Due giorni dopo, 87 dissidenti cinesi e attivisti, abitanti in USA e ben istruiti dalla lobby, espressero per lettera aperta il loro «intenso sgomento» per la nomina di Freeman, e chiedevano ad Obama di non confermarlo.

Fatto significativo, a difesa di Freeman sono scesi due studiosi di affari cinesi con nomi ebraici. Sidney Rittenberg, sull’Atlantic, ha testimoniato che mentre era diplomatico a Pechino, Freeman «soccorse molte persone». Jerome Cohen, esperto di diritto cinese, ha definito «ridicole» le accuse di indifferenza di Freeman sui fatti di Tienanmen.

Insospettabili pezzi grossi del giornalismo di potere, da Joe Klein sul Time a Andrew Sullivan di The Atlantic, si sono esposti a favore di Freeman. Diciassette ex ambasciatori americani, fra cui Samuel Lewis, ex ambasciatore in Israele, hanno firmato una lettera al Wall Street Journal  definendo Freeman «un uomo di alta integrità e intelligenza, che non consente mai alle sue opinioni personali di distorcere le sue valutazioni d’intelligence». Sette ex alti funzionari dello spionagio scrivevano a Blair accusando l’aggressione contro Freeman come «senza precedenti in violenza e vastità», da parte di «opinionisti-guru e figure pubbliche che hanno paura di un importante dirigente d’intelligence capace di prendere posizioni equanimi nella questione arabo-israeliana».

L’appoggio coraggioso di tante personalità di livello, e ben inserite nell’establishment, ha fatto credere che Freeman avrebbe superato la tempesta. Il suo annuncio di ritiro è stato del tutto inaspettato. Evidentemente, è stato Obama stesso a mancar di coraggio, e a chiedergli, o a fargli chiedere, di scendere dalla nave presidenziale.

Infatti, poche ore dopo, un funzionario anonimo della Casa Bianca si faceva intervistare dalla radio israeliana, e diceva: «Il presidente Barak Obama non taglierà gli aiuti militari ad Israele». I 30 miliardi di dollari annui in armamenti che gli USA, Zionist Occupied Government, regalano a Giuda, «non saranno messi in forse dalla crisi finanziaria mondiale».

In fondo, era prevedibile. Ogni tentativo di divincolarsi dal potere israeliano in USA, come dovunque, è votato al fallimento se non si ha il coraggio di mettere in discussione - apertamente e coscientemente - l’inimicizia degli ebrei verso gli altri uomini. Se, cioè, non si prende alla lettera la verità espressa dallo scrittore ebreo romeno-americano Maurice Samuel nel suo libro «Voi gentili» del 1924:

«Noi ebrei siamo i distruttori, e rimarremo distruttori per sempre. Nulla di ciò che voi farete ci soddisferà o placherà. Noi distruggeremo sempre, perchè abbiamo bisogno di un mondo tutto nostro, un mondo-Dio, che non è nella vostra natura di costruire» (3).

Obama, che non ha osato sfidare il tabù, ha subito una sconfitta gravissima, una perdita d’autorità di cui subirà le conseguenze: ha mostrato quanto la libertà d’azione di un presidente americano è limitata e condizionata, proprio nel momento in cui - di fronte alla crisi globale - doveva dimostrare al mondo la faccia di un potere imperiale incondizionato.

Quanto alla lobby, ha stravinto. Ha vinto troppo, in eccesso. E per questo, la sua può essere una vittoria di Pirro. La mano della lobby è più forte, quando esercita il suo potere nell’ombra. E in questa occasione, esso è stato visto alla luce del sole. Mai prima tante personalità americane avevano denunciato così apertamente la «lobby israeliana» su tanti media; un tabù è stato scosso.

Mai prima uno sconfitto dalla lobby aveva osato scrivere, e veder pubblicare sul Wall Street Journal, quello che ha scritto Freeman per annunciare il proprio ritiro:

«… Le tattiche della lobby israeliana hanno superato ogni bassezza di disonore e indecenza, ricorrendo alla distruzione di una persona con la diffamazione, con citazioni in malafede, con la deliberata distorsione di fatti accertati, la fabbricazione di falsità, il completo disprezzo della verità.  Le mire di questa lobby è controllare il processo politico esercitando un veto sulla nomina di persone che contestano la loro visione delle cose, sostituendo l’analisi con il politicamente corretto, escludendo ogni possibilità di decisione diversa da quelle che loro vogliono, da parte degli americani e del loro governo».

«C’è una ironia speciale nel sentirmi accusare di favorire indebitamente governi stranieri da un gruppo così chiaramente teso ad imporre l’obbedienza a un governo straniero, Israele. L’impossibilità per il pubblico americano di discutere, o per il governo americano di esaminare, ogni opzione politica USA in Medio Oriente che non piaccia alla fazione dominante (...) ha consentito a questa fazione di adottare e mantenere politiche che alla fine minacciano l’esistenza di Israele stesso. E non è permesso a nessuno negli Stati Uniti di dirlo».

«La vergognosa agitazione che ha seguito alla notizia della mia nomina sarà vista da molti come un grave punto interrogativo sull’amministrazione Obama, sulla sua capacità di prendere in proprio le sue decisioni in Medio Oriente. Mi duole che che la mia disponibilità a servire la nuova amministrazione abbia finito con gettare un dubbio nella sua capacità di considerare, non si dice di decidere, quali azioni possono meglio servire all’interesse degli Stati Uniti anzichè quelli di una lobby che impone la volontà e gli interessi di uno Stato straniero».

Mai nessuno dei mainstream media aveva pubblicato simili asserzioni. Un intero frasario prima vietato come «antisemita» e relegato nei blog marginali, è stato in qualche modo sdoganato. Una non scritta legge del silenzio, i limiti del politicamente corretto e una mezza dozzina di tabù intoccabili sono stati rotti: adesso, sui media più ufficiosi, anche columnist famosi - e carrieristi ossequisi - possono parlare della «lobby israeliana» e persino discutere, come ha fatto James Fallows, il notista politico interno di The Atlantic, della «lobotomia» che la lobby impone alla politica estera americana vietando il discorso su Israele, e assassinando psicologicamente i dissenzienti.

Ognuno oggi vede la mostruosa indegnità che l’influenza ebraica esercita sugli Stati Uniti, il suo eccesso di arroganza, incapace di auto-moderarsi; e ai più alti livelli, molti condividono l’atto di accusa di Freeman l’uscente.

In una parola, è sempre più chiaro all’opinione pubblica dirigente che gli USA soffrono di un «problema ebraico». Una presa di coscienza, che come dovrebbero aver imparato gli ebrei, può essere molto pericolosa per loro.




1) Per l’antefatto, si veda il mio «ZOG-USA: tentativi di liberazione?», su Effedieffe, 9 marzo 2009.
2) Daniel Luban, Jim Lobe, «Freeman Withdrawal Marks Victory for Israel Lobby», AntiWar.com,  11 marzo 2009.
3) Non sfuggirà la tensione anticristica di questa enunciazione: gli ebrei vogliono un mondo-Dio,
vogliono essere i creatori dell’aldiquà come Dio - dichiarando Dio se stessi. Per di più, estranea o deliberatamente ostile al pensiero classico cosciente del limite (Apollo era il dio del limite come armonia), la mentalità e la cultura ebraiche non hanno freni interni, non sono capaci di moderarsi, più potere ottengono e più ne vogliono - fino all’eccesso spietato, all’arroganza gongolante, che suscita la repulsione e revulsione dei non-ebrei. Ben conscio per esperienza di questa «cultura»,
l’imperatore Claudio definì gli ebrei «nemici del genere umano», «humani generis inimici». Non era un insulto, ma una definizione giuridica, che aveva effetti giuridici:  fra cui la chiusura ad ebrei delle cariche pubbliche, in quanto intese al bene comune.


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