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Il federalismo? C’è già, quello delle mazzette
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L’argomento del giorno, sui media, è il presidenzialismo. Si dice «argomento del giorno» perchè il giorno dopo non se ne parlerà più. Si sa come i giornali «agitano il problema» e «creano er dibbattito». Berlusconi ipotizza il presidenzialismo? Subito i cronisti politici (specie zoologicamente affine alla Mosca Stercoraria) corrono dagli altri politici per «farli reagire». Attorniano Bossi coi microfoni «Berlusconi ha detto... Lei come reagisce?».

Bossi, preso alla sprovvista, bofonchia a gettone: «Non ne abbiamo parlato... è un’idea sua... In ogni caso, prima il federalismo». Ecco pronto il titolo: «Bossi, altolà al premier sul federalismo» (Corriera della Miela).

Vedete com’è facile il giornalismo. Sono un turbine, questi cronisti. Fanno «reagire» Calderoli (Calderoli!): «Silvio, così delegittimi Napolitano» (sai che tragedia); Casini: «Berlusconi vuole farsi re, vuole distruggere i partiti» (magari!, ndr).

Tabacci; Cicchitto; Geronimo alias Pomicino. E membri della soi-disant «sinistra», i quali tutti si scandalizzano – la sinistra si scandalizza, avete notato?, per ogni proposta politica, come educande di Gozzano davanti a un esibizionista con l’impermeabile aperto: piovono accuse di «cesarismo», «intenti napoleonici», dittatura, eccetera.

I quirinalisti (specie più bassa del cronista politico, zoologicamente imparentata al Topo nel Formaggio) fanno «reagire» anche Napolitano: ma naturalmente non possono attribuirgli le cose che dice, per cui titolano: «Il Colle tra gelo e silenzio» (La Stampa), per far capire che le alte cariche disappprovano.

Questo è quel che passa per «politica» in Italia, e per ampio dibattito su un tema di grande peso costituzionale, la forma di governo. Domani non se ne parlerà più. Nè il presidenzialismo farà un passo avanti, nè indietro, perchè tutto si fermerà all’inconcludenza consueta, che si esaurisce in flatus vocis.

Strano, i lettori e gli italiani in genere sembrano avidi di altre notizie. Le 607 mila auto blu, aumentate del 6% in soli due anni (governo Berlusconi), interessano di più. Che gli USA abbiano 75 mila autoblù, e la Germania 53 mila, li fa veramente incazzare. Fanno pure i conti: se un’auto blu costa per pura gestione 5 mila euro l’anno (cifra troppo ottimista, caro lettore), il costo per i contribuenti è 3 miliardi di euro l’anno. Pari al mancato introito dell’ICI, testè abolita.

Poi, previene il lettore, ci sarà sempre qualcuno che obbietta: ma non è coi tagli delle autoblù che si sana l’economia... Chissà perchè, se una famiglia è piena di debiti e deve ridurre il suo livello di vita, rinuncia alla BMW e si prende una Punto usata. Nel settore pubblico, invece, si pensa subito al taglio delle pensioni, non alle autobù.

Fate voi il conto: 3 miliardi di euro, non coprirebbero una mezza cassa integrazione per i precari che vengono licenziati a frotte?

Il bello è che queste sempre più numerose autoblù non sono nemmeno tanto accaparrate dagli alti gradi dello Stato, ma proliferano per assessori di comuni, presidenti di provincie, governatori di regioni.

Da qui si capisce qual è il federalismo a cui punta Bossi, e perchè è contrario all’abolizione delle provincie come all’accorpamento di 8 mila comuni: vuole il federalismo della magnazza.

Il punto è che questo tipo di federalismo l’abbiamo già.

Come dice Stefano Villone su La Stampa, a proposito degli scandali di Napoli, di Milano, di Firenze e di Pescara: «Un governatore di regione, o un sindaco di grande città, conta quanto vari ministri di mezza stazza. I partiti sono costruiti intorno a loro. Ovunque, l’uomo forte tende ad essere il sindaco, il governatore, l’assessore» (con le mani in pasta, che può scambiare favori). Si spiegano così’ gli applausi di Pescara per il sindaco inquisito (anche alla moglie di Mastella, ricordate? Erano i beneficiati della cosca locale, ndr) e il preannuncio di possibili liste civiche. Nel feudalesimo di partito, chi ha cariche di governo locale è tra i signori più forti. La vera vittima dei recenti sviluppi della politica italiana è il partito nazionale». E conclude: «Oggi il potere nel governo regionale e locale è per tutti i partiti elemento strutturale e dominante».

Sottoscriverei, con un’avvertenza: il «partito nazionale» PD è una creazione artificiale, cominciata con «primarie» a candidato unico (Veltroni; si usava anche nel PCUS, libere elezioni con un solo candidato), e privo di ogni consistenza, che per vincere qualcosa ha imbarcato tutti i cacicchi, capi-bastone, veri criminali locali che, per essere centri di do-ut-des nelle loro zone, portavano voti.

Il «partito nazionale» PDL non è poi meglio, visto che lascia Formigoni in Lombardia da ormai 17 anni. Sono entrambi partiti artificiali per un progetto dettato dall’alto, il «bipartitismo americano».

Una falsificazione dopo l’altra della «democrazia», che porta alla completa demoralizzazione (immoralità) del governo. Con l’aggravante che il malaffare nazionale è in qualche modo sotto gli occhi dell’opinione pubblica; quello di Catania o di Firenze, passa inosservato.

Questo aumento mostruoso dei poteri locali e meno visibili fa comodo ai partiti, eccome.

Veltroni e Rutelli, in fondo, sono il prodotto del feudalesimo partitico locale: sindaci di Roma prima che campioni nazionali. E a Roma vendevano il patrimonio pubblico agli amici, un appartamento in piazza Navona a 60 milioni di lire, davano l’appalto al Romeo di Napoli. Vabbè, Alemanno non è meglio, è solo più intollerabile: ha dato la cittadinanza di Roma al «soldatino Shalit», prigioniero di Hamas... Lui pensa ad Israele. Anzitutto.

Bossi, il federalismo, c’è già, e tu lo sai. E’ quello che vuoi tu: tanti centri di magnazza, minuscoli e plurimi, che non danno nell’occhio. Il federalismo di 607 mila autoblù. Il federalismo di Firenze dove Ligresti si incarica dell’urbanizzazione (invece di essere in galera, o almeno escluso dai pubblici uffici e dagli appalti), dove le centrali del latte e l’acqua potabile sono state privatizzate per non dover servire più ai cittadini, ma alla distribuzione di posti nei consigli d’amministrazione soggetti al diritto privato, ossia «faccio quel che voglio», senza concorsi e senza responsabilità.

Un vero rovesciamento patologico di quel che si usa chiamare «governo».

Lo dice Isaia Sales, comunista, che per anni è stato consigliere di Bassolino per la distribuzione dei fondi UE: questo tizio che ha sguazzato nei fiumi di denaro, dopo vent’anni – e con la giunta campana sotto inchiesta – si scopre una tempra di galantuomo: «Ho rotto l’amicizia ventennale con Bassolino, ero diventato un Bancomat». La Repubblica, che lecca sempre i culi di «sinistra», lo presenta così: «Sales, il consulente che lavorava gratis».

Ebbene: nel crepuscolo degli dèi con le facce da patibolo napoletano, Sales si scopre fine analista politico. Anche se un po’ in ritardo. Vale la pena di ascoltarlo:

«Io c’ero il giorno in cui Clemente Mastella entrò nella stanza di Bassolino e gli mostrò il contratto, sottoscritto da Fassino, Rutelli e Vannino Chiti, secondo il quale gli toccavano per decreto due assessori. A Roma facevano gli accordi ma venivano a Napoli a riscuotere».

Recrimina: «Se la monnezza è arrivata alla bocca è anche perchè Bassolino doveva sempre mediare con Pecoraro Scanio e Rifondazione, altrimenti quelli mandavano all’aria il governo nazionale. E se la Sanità fa schifo è perchè De Mita serviva ai DS, e allora gli hanno dato gli ospedali di Napoli».

A De Mita, gli ospedali di Napoli, glieli hanno dati, in veste di capobastone poteva pretenderli.

Dei politicucci locali, il Sales dice: «Quando qui hanno visto che la segretaria di Fioroni era stata eletta in quanto segretaria di Fioroni, hanno capito: l’unico modo di fare carriera era entrare nel mondo dorato dei vip. Persino i voti (locali), puzzando troppo, non valevano più. Certo, indispensabili per comandare qui, ma inutili e impossibili da spendere sul piano nazionale. Chi decide a Roma? Chi può mettermi in lista? Ecco Romeo», il cosiddetto imprenditore di tutti gli appalti, quello che trafficava con Veltroni per costruire 20 mila appartamenti, quello che al telefono dice: questo mi chiede il 37% di tangente.

E’ «un capovolgimento mostruoso delle parti», dice Sales: «Oggi è l’imprenditore che traghetta, garantisce, accompagna». A meno di non essere la segretaria di Fioroni. O la Carfagna di Berlusconi.

Ora, di fronte a questo immane porcaio, in questo incestuoso feudalesimo partitico, uno potrebbe pensare che questo Paese ha bisogno non di «federalismo», ma di «centralismo». E che, magari, un federalismo vero e onesto ha bisogno di presidenzialismo, ossia di un presidente ad elezione popolare diretta che riceva una più alta legittimità, e possa – se vuole – contrastare i cacicchi e i capi-bastone.

In un Paese normale, questo porcaio dovrebbe indurre a discutere con profondità e serietà di una crisi morale incancrenita e ributtante, e di come porvi un qualche rimedio.

Ma no, ci si limita a «reagire». O ad agitare le manette.

Ma pensate cosa ci dice (adesso, un po’ in ritardo) Antonio Patrono, ex presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati e attuale membro del Consiglio Superiore della Magistratura: ci sono in Italia 160 procure, un numero assurdo, con 2 mila sostituti procuratori che fanno quel che vogliono e sono fuori controllo. Siccome i distretti giudiziari sono solo 26, Patrono propone di ridurre le procure allo stesso numero. E’ logico, e le procure sarebbero più forti, ma non più deboli.

Ma perchè Patrono non lo ha proposto al Consiglio superiore della Magistratura, di cui è membro? Perchè non quando era presidente dell’ANM?

La risposta è in quei numeri: anche la magistratura è «federale», piena di capi-bastoni locali, e tutti i procuratori con tutta la «sinistra» sono in guerra per difendere il loro caciccato. Magari hanno anche la loro parte di autoblù.



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