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Due o tre cose sul Nobel
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La Svezia è una nazione con un po' più di nove milioni di abitanti, di alta dignità civile, di moralismo luterano e di cultura diffusa. Ma non pesa molto nel mondo. Uno dei pochi mezzi, forse il solo, che s’è data  per influire sulla politica internazionale è il premio Nobel per la Pace. Un’invenzione a suo modo geniale.

I personaggi che ne vengono investiti ricevono una specie di aureola di santità laica (magari massonica), almeno agli occhi dei media; non è sempre un male, quando questi personaggi necessitano di una forza aggiuntiva (come El Baradei e l’ex presidente Carter), di una sorta di intoccabilità, venerabile nel nome del politicamente corretto.

Uno strumento così sottile non deve essere usato in modo esagerato, altrimenti si spezza, nel senso che si scredita: è il caso del Nobel regalato ad Al Gore, produttore soltanto di un video allarmistico e falso sul «global warming», o del nostro Dario Fo... E’ il caso del Nobel preventivo a Barak Obama?

E’ evidente. Ma per altro verso, bisogna riconoscere che i Nobel per la Pace più politici presentano una notevole coerenza in un settore particolare: Carter, Arafat-Rabin, El Baradei, indicano una preoccupazione speciale per la questione palestinese, e del Medio Oriente in generale.

I signori del comitato svedese, premiando Obama per le sue pie intenzioni, hanno dato un altro segnale in questo senso. Un segnale che voleva essere forte. Non dimentichiamo che durante l’aggressione israeliana a Gaza, hanno operato lì due rispettati medici norvegesi, il dottor Mads Gilbert e il dottor Erik Fosse: che per dieci giorni si sono trovati ad amputare decine di arti supporanti senza ferite da shrapnel, perchè colpiti da bombe a particelle inerziali, visto morire sotto i loro ferri donne incinte e bambini ustionati dal fosforo bianco, operato giorno e notte con metodi eroici due feriti gravi per volta nella stessa sala operatoria, mentre altri 80 agonizzavano nei corridoi inondati di sangue.

Questi due medici, al ritorno ad Oslo, sono ovviamente comparsi in decine di interviste nei giornali e nelle TV locali e scandinave; delle atrocità israeliane, norvegesi e svedesi sono molto meglio informati delle opinioni pubbliche europee, e quindi molto più indignati. Gente colta che parla inglese, gli scandinavi sanno anche meglio di noi delle difficoltà in cui si dibatte Obama, il presidente che in qualche modo ha promesso un cambiamento della linea americana sul Medio Oriente. La Norvegia ha voluto aiutarlo con il solo mezzo che ha.

Ma, a giudicare i commenti in USA e in Europa, la buona intenzione è fallita. La gravità della crisi americana - morale e intellettuale, oltre chè economica - è abissale. Obama non ha fatto niente, e appare indeciso a tutto; ma non può fare altro. E’ letteralmente paralizzato dalla situazione interna.  Il suo torto storico è di non aver sconfessato e denunciato la precedente gestione folle di Bush. Ma bisogna riconoscere che non può farlo, e non solo per la sua personale insufficienza, o quella del suo staff infarcito di personaggi della Trilaterale, che oggi appare la cosca perdente (1).

Per riformare il sistema, Obama dovrebbe scontrarsi contemporaneamente con la lobby israeliana, con il sistema militare-industriale, con la speculazione di Wall Street e i suoi banchieri d’affari colpevoli della immane truffa finanziaria e del collasso economico, e tuttavia riempiti di bonus scremati dal denaro pubblico.

Bisogna rendersi conto che queste non sono solo tre lobby strapotenti: queste tre forze «sono» l’America. Al di fuori di esse, non c’è - nella società organizzata - null’altro.

Su quale lobby potrebbe appoggiarsi Obama? Le due più numerose e influenti sono la la lobby dei pensionati e quella del «diritto di portare armi da fuoco», che in realtà non hanno nulla da dire in politica estera e in economia, e gli sono ostili. La galassia dei cristiani rinati, quei 70 milioni di americani che hanno votato Bush e approvato le sue guerre perchè vi hanno visto l’avvicinarsi dei  «tempi ultimi», e detestano Obama perchè è liberal sull’aborto? Lasciamo perdere.

La sola forza che ha sostenuto Obama è quella «democratica»: effettivamente è stato votato da una maggioranza ragguardevole, stufa della guerra e ostile a Wall Street. Nelle due camere, ha una maggioranza schiacciante. Ma ce l’ha ancora?

I senatori e i deputati democratici eletti con lui, che dovrebbero sostenerlo, sono terrorizzati. Fra un anno, novembre 2010, dovranno affrontare le elezioni di mezzo termine, e vedono davanti a sè lo spettro della bocciatura elettorale: la lobby è quella che gestisce i voti che contano, e soprattutto convoglia o nega i fondi elettorali. E – in mezzo ad una campagna forsennata di odio e disprezzanti-Obama – sta facendo mancare quei fondi.

Il vicepresidente Joe Biden sta compiendo giri disperati in lungo e in largo per gli Stati Uniti per invocare denaro, e non pare che abbia alcun successo. I senatori e i deputati democratici, sottoposti a pressioni e minacce della lobby, oltrechè da sempre in mano a Wall Street e ai grandi complessi industriali e militari, premono a loro volta su Obama perchè attenui la sua politica – quella politica che non ha attuato, ma la cui sola enunciazione gli ha coalizzato contro quelle forze.

L’opinione pubblica liberal o pacifista, inasprita dalla disoccupazione, dall’iniquità sociale crescente, e dall’indecisione del presidente, è stata in qualche modo la prima a deridere Obama e ad abbandonarlo: basta vedere i blog progressisti. Ciò che rimproverano ad Obama è giusto: non ha sconfessato Bush, ne prosegue le politiche; ha dato altri fondi agli speculatori che invece doveva far arrestare non ha denunciato la menzogna dell’11 settembre. Ma in un’America dove già scoppiano rivolte che evocano la guerra civile (i «Tea Parties», a ricordo della grande rivolta fiscale anti-britannica che portò all’indipendenza americana) ogni gesto in questo senso – ammesso che Obama avesse l’audacia di compierlo, cosa che escluderei visto che è una creatura del Council on Foreign Relations – non farebbe che precipitare la spaccatura del Paese.

Il fatto è che il blocco elettorale pro-Obama non è affatto un blocco; la «sinistra liberal » è disorganizzata e divisa (è un elemento tipico della crisi delle  «sinistre» nel mondo intero), mentre le forze contrarie sono organizzatissime, hanno denaro, usano metodi sperimentati da un secolo, hanno accesso diretto e dietro le quinte presso gli attori politici. Inoltre, la mentalità americana è contro di lui.

Per descrivere l’umore dominante, basta ricordare che già Obama è accusato di essere «socialista», anzi di voler fare degli Stati Uniti «uno Stato marxista».

John Perry, un opinionista che scrive su Newsmax (2), ha avuto il coraggio di auspicare in un suo articolo un colpo di Stato militare per «risolvere il problema Obama». Ovviamente «senza spargimento di sangue». Questo Perry sostiene che ogni giorno di più «aumenta» la possibilità che un «generale patriottico» si affianchi al presidente e formi un governo in cui «militari addestrati, costruttori di nazioni faranno il lavoro vero di governare, mentre ad Obama sarà consentito di fare i suoi discorsi»; Obama chiama su di sè questo «intervento» perchè starebbe attuando a «marce forzate» un progetto «marxista» di statalismo sanitario.

Credete che stia parlando un demente e isolato neocon israeliano? No, questo Perry manifestava, fino a ieri, opinioni tiepidamente «moderate». E non è il solo a prevedere un esito golpista. Sull’ Huffingtonpost, un altro analista politico, Bob Cesca, ritiene che se (o quando) rivinceranno le elezioni di novembre 2010, i repubblicani avvieranno «immediatamente» una procedura di impeachment contro Obama (3).

Credete che non possano farlo? Tutto si può in America quando si hanno dalla propria parte le tre lobby suddette. I media a loro disposizione faranno passare questi eventi come una «vittoria del liberismo»; del resto, con il 20% di disoccupazione reale e uno statalismo per ricchi già ben instaurato (le concentrazioni di ricchezze della finanza, fallita, sono pagate dallo Stato) gli americani invocano «meno Stato», meno spese publiche per previdenza sociale...

E’ un buco nero mentale collettivo da cui – grazie alla crisi – può, in ogni momento, esplodere qualche evento brutale e catastrofico.

Obama sarà sicuramente uno dei pochi presidenti non riconfermati per un altro quadriennio; anzi sarà fortunato se nel 2012, quando toccherà a lui esporsi al voto, sarà ancora vivo.

Il Nobel che gli è stato dato è giudicato prematuro? Forse, invece, è arrivato troppo tardi.




1) According to official Trilateral Commission membership lists, there are only 87 members from the United States (the other 337 members are from other regions). Thus, in less than two weeks since his inauguration, Obama’s appointments encompass more than 10% of Commission’s entire U.S. membership. 1- Secretary of Treasury, Tim Geithner. 2- Ambassador to the United Nations, Susan Rice. 3- National Security Advisor, Thomas Donilon. 4- Chairman, Economic Recovery Committee, Paul Volker. 5- Director of National Intelligence, Admiral Dennis C. Blair. 6- Assistant Secretary of State, Asia & Pacific, Kurt M. Campbell. 7- Deputy Secretary of State, James Steinberg. 8- State Department, Special Envoy, Richard Haass. 9- State Department, Special Envoy, Dennis Ross. 10- State Department, Special Envoy, Richard Holbrooke.
2) John L. Perry,  «Obama Risks a Domestic Military Intervention», NewsMax, 29 settembre 2009. Poche ore dopo, l’articolo di Perry è stato  tolto dal sito di NewsMax. Lo si può leggere qui: http://www.talkingpointsmemo.com/news/2009/09/full_text_of_newsmax_column_suggesting_military_co.php
3) Bob Cesca,  «The impeachment of president Obama», Huffington Post, 23 settembre 2009.


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