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Il fisco uccide in tempo di crisi
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Dice la Confcommercio: nei primi nove mesi del 2009 più di 50mila esercizi al dettaglio hanno chiuso i battenti a causa della crisi.

Magari qualche bocconiano ultra-liberista, tipo Giavazzi, sarà anche contento: quelle sono imprese marginali, la recessione ripulisce il campo da negozietti di cartoleria e fruttivendoli i cui costi non sono coperti dai profitti. Distruzione creativa! E’ un bene se la coppia di vecchi cartolai all’angolo chiude!

Saranno marginali, i due vecchi coniugi del botteghino all’angolo che vendicchiano quaderni e penne biro. Ma finchè tenevano aperta la bottega, si mantenevano da sè, e già così, marginalmente, contribuivano al bene comune. Oggi, chiusa la bottega, vanno in pensione, o vivono di carità, o mandano la lavorante in cassa integrazione: insomma pesano sul sistema-Italia complessivo.

Che cosa li ha costretti a chiudere, poi? Gli «studi di settore» all’italiana, tarati sulla crescita perpetua e che non prevedono la recessione, e perciò tassano ferocemente e stupidamente redditi non prodotti fino a quando conviene chiudere. O l’IVA mai rimborsata in tempo. O l’IRAP, unico perverso tributo al mondo, credo, che penalizza le imprese in base al numero di dipendenti e tassa gli interessi passivi sui debiti.

E’ un miracolo che in Italia ci siano ancora piccole imprese, artigiani, dettaglianti.

Il governo annuncia da mesi una revisione dell’IRAP, e poi si rimangia la promessa. Bisogna trovare un’altra tassa che la sostituisca, perchè  – ecco il punto – il gettito tributario «deve» restare invariato, e magari anche crescere.

Ma questo è impossibile. In tempi di recessione, quando le aziende perdono il 30% dei fatturati o dell’export, quando aumentano i disoccupati e si riducono i consumi, è inevitabile che il gettito fiscale cali: e infatti sta calando. Non c’è nulla da fare. Solo quando le recessione finirà e ricomincerà la crescita (quando non si sa) il gettito aumenterà.

Bisogna smettere di pensare al gettito fiscale come variabile indipendente, perchè è un assurdo logico e matematico. Bisogna avere il coraggio di inventare una fiscalità da grande crisi, e tagliare le imposte, e proprio alle attività piccole e marginali.

La vecchia coppia di cartolai, quando chiude, smette di pagare le imposte che il nostro esoso sistema fiscale le succhiava comunque. Aiutarli a tenere aperto il negozio, con «studi di settore» che tengano conto delle perdite, significa aiutarli almeno a mantenersi da sè, a non gravare su un fondo-pensione, o sui sussidi che in ogni caso il sistema-Italia dovrà versar a chi non è più in grado di mantenersi. Le spese pubbliche, in ogni caso e forma, aumenteranno.

Per il solo settore commercio, a fine anno saranno 108 mila posti di lavoro in meno: gente che andrà mantenuta dal sistema previdenziale o assistenziale, e in fin dei conti dal denaro pubblico. Nei nove mesi fino a settembre, infatti, la cassa integrazione nel settore commerciale è aumentata del 330% .

Ma è così anche negli altri campi: le partite IVA chiudono, e dunque niente IVA; chiudono gli artigiani e le minime imprese, e dunque meno IRAP. E in più, sempre più gente a carico della comunità.

Si dirà: proprio per questo il gettito fiscale deve aumentare, perchè tanta più gente sarà a carico, in qualunque forma, del settore pubblico. Sì, ma in un settore pubblico dove un governatore di regione ha tanti soldi da poter spendere 5 mila euro a transex e coca, dove una TAC in Campania costa cinque volte più che in Lombardia, dove senatori a vita accumulano emolumenti e pensioni miliardarie, in Comuni dove gli assenteisti continuano ad essere tre su dieci, dove un chilometro di alta velocità costa regolarmente il triplo che in Francia, dove i capi si muovono in Falcon executive come fossero tanti miliardati americani, si deve pur trovare un modo per ridurre una spesa pubblica che divora il 50% del reddito nazionale, e destinarla agli emarginati marginali.

Specie in tempi di crisi, è un obbligo morale non sprecare in cocaina e Falcon la ricchezza pubblica. A tutti coloro che godono di un posto pubblico, il che significa fisso e inamovibile, si ha il dovere di chiedere un contributo.

E si deve osare di credere alla curva di Laffer: una esazione più lieve, o almeno più snella e più umana verso i marginali, produce un aumento del gettito.

E’ difficile, in tempo di crisi.

Ma in tempo di crisi, è il momento in cui si osano idee nuove, prima censurate. Per ridurre l’apprezzamento della sua valuta che riduceva la sua competitività, il Brasile ha messo una tassa del 2% sui capitali in entrata, mentre Taiwan ha vietato a capitali esteri di essere depositati all’interno, in conti a termine, per più di tre mesi: violazione suprema del dogma liberista («libera circolazione dei capitali») che è probabilmente l’inizio di una più ampia imposizione del controllo sui capitali, da decenni vietati dal «Washington consensus». Personalità politiche prima custodi del verbo liberista cominciano a proporre la Tobin tax per colpire le transazioni finanziarie iper-veloci e tassare la speculazione a brevissimo termine: e la Tobin tax era da anni un’utopia relegata a sognatori  no-global.

Persino a Londra si discute se reintrodurre la separazione fra attività bancarie commerciali e speculative. Persino in USA si giudicano ormai intollerabili i bonus degli speculatori, il fatto che l’1% dei più ricchi straricchi si sia accaparrato metà della crescita economica prodotta dal 1993 al 2007, e due terzi della ricchezza di tutti dal 2002 al 2007, i tempi della espansione parossistica che capitalismo speculativo.
Ciò significa che il «pensiero unico» che ci ha dominato per due decenni sta perdendo il suo potere delle menti; la crisi obbliga a pensare soluzioni nuove (o vecchie e censurate), ad uscire dagli schemi. Bisogna avere coraggio.

In Italia, significa il coraggio di intaccare lo spreco pubblico parassitario, e ridurre l’imposizione fiscale più perversa e macchinosa del mondo sviluppato.

E bisogna farlo prima che sia troppo tardi. Perchè, come dice ancora Confcommercio, le spese incomprimibili a carico delle famiglie italiane (affitti, bollette, servizi bancari e l’assicurazione obbligatoria) pesano per il 40% sul totale delle spese familiari. Nel 1970, le spese incomprimibili scremavano il 23,3% del reddito delle famiglie, oggi il 38,8%, e per il 2011 saranno il 39%.

E la torchia fiscale resta inchiodata al 43%: per pagare i trans a Marrazzo, i tre emolumenti a Ciampi, i Falcon a Berlusconi e a Napolitano, i profitti alle grandi banche che fanno profitti quando tutti gli altri sono in perdita?



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