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La politica UE ceduta in appalto
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Il ministro degli esteri britannico, David Miliband, è stato uno dei più veementi a denunciare la reazione militare russa contro la Georgia. Anche David Miliband (come poteva esserci sfuggito?) è ebreo.E che ebreo.Ce lo ricorda l’ottimo giornalista e saggista John Laughland, spiegandoci che l’odio di David per la Russia è scritto nel suo DNA (1).

Suo nonno, Samuel Miliband, era un esponente comunista polacco; benchè nato a Varsavia, da fiero internazionalista, si arruolò nell’Armata Rossa per combattere i polacchi. Ma quando Stalin rafforzò il suo potere a Mosca, lasciò l’Unione Sovietica per motivi ideologici: come tutti i fedelissimi di Trotszky, era contrario alla politica staliniana di «comunismo in un solo paese». Voleva la rivoluzione mondiale permanente. Samuel il trotzskista si stabilì in Belgio.

Suo figlio, Adolphe Miliband, padre dell’attuale capo del Foreign Office, nacque in Belgio; ma poi passò a Londra dove - con il nuovo nome di Ralph Miliband - è diventato un famoso teorico marxista; tanto convinto da voler essere sepolto nel cimitero di Highgate accanto alla tomba di Karl Marx.

Suo figlio David, il ministro, ha abbracciato l’ideologia dei neoconservatori israelo-americani, ed è uno dei responsabili dell’impegno bellico britannico in Afghanistan ed Iraq.

Come si vede, è il percorso tipico di tanti ebrei che conosciamo, da Ferrara alla Nirenstein: carrieristi comunisti o ultrasinistri, oggi sono fedelissimi «conservatori» per Sion.

La fedeltà di David Miliband per la sua vera patria è dimostrata: quando va in visita in Israele, trova il tempo per andare a pranzo dai suoi parenti, certi Landau, che sono fanatici militanti: hanno infatti deciso di stabilirsi in una colonia ebraica illegale a Ramallah, in Cisgiordania. Non è un caso che Tzipi Livni trovi invariabilmente i colloqui con Miliband «molto fruttuosi».

Tutto ciò non è strano, nota Laughland. I veri marxisti-trotzkisti hanno trovato «la loro casa naturale nel progetto di rivoluzione democratica globale predicato da George Bush». La rivoluzione mondiale permanente sotto forma «umanitaria», per diffondere «la democrazia».

Scrive Laughland: «Dal punto di vista di Miliband (e dei suoi simili), la politica occidentale degli ultimi 15 anni non è stata un atto continuo di forza bruta. L’invasione di Iraq e Afghanistan non sono state aggressioni belliche, bensì azioni altruiste per espandere la democrazia, dunque atti compiuti al servizio dell’umanità, atti cui nessuna persona ragionevole può opporsi. Chi lo fa, è un nemico dell’umanità».

Così, benchè i russi abbiano difeso i diritti umani in Ossezia contro il tentato sterminio operato dai georgiani, il loro è un atto di forza bruta criminale. Perchè la Georgia è una espansione della «democrazia», ma soprattutto perchè Putin non ha invocato i diritti umani e simili universalismi ideologici - estrema versione del messianismo ebraico - a giustificazione della sua azione.

E’ questo che «Miliband non può sopportare»: il fatto che Putin si muova in base a considerazioni di interesse e di sicurezza nazionale, anzichè «fare appello ai principii universali». Per questo ha accusato Putin, fra l’altro, di avere «un approccio alla politica del 19 mo secolo».

Ma Putin - assicura Laughland, che l’ha recentemente incontrato insieme a vari giornalisti britannici - rigetta deliberatamente il linguaggio «umanitario», perchè ha rigettato una volta per tutte l’ideologia comunista, e non pretende più che la Russia sia portatrice di una vocazione universale. Anzi.

«Quando l’ho incontrato il settembre scorso, Putin mi ha detto esplicitamente che la Russia ha sofferto troppo per aver adottato il credo universale leninista: ‘Vladimir Ilich Lenin, mi ha detto, disse una volta: la Russia non conta niente per me; quel che conta è arrivare alla rivoluzione socialista mondiale’».

Per Putin, è la Russia che conta.

Acuto come sempre, Laughland: sotto le forme della «nuova guerra fredda», vede riporsi lo scontro fra internazionalisti trozkisti (oggi neocon «americani») e il realismo di chi cerca di fare qualcosa «in un solo Paese».

Ma Laughland cita anche Carl Schmitt il quale, citando a sua volta Proudhon, scrisse: «Chi parla a nome dell’Umanità sta cercando di ingannare».

Quello dei trotzkisti (pardon, neocon) è piuttosto un auto-inganno, sostiene il giornalista inglese; la Russia d’oggi è un richiamo alla realtà.

Vero. Tuttavia, sono convinto che se Hitler avesse proclamato che stava invadendo l’URSS per liberare i popoli schiacciati nei loro diritti umani dallo stalinismo, il Terzo Reich Umanitario sarebbe ancora al potere; e la vera debolezza di Putin è nella «comunicazione», ossia nella propaganda e disinformazione.

Gli invasori in nome di diritti umani hanno la meglio su quel piano; e il loro controllo dei media fa sì che le cosiddette opinioni pubbliche credano, più o meno, che l’universalismo aggressivo sia una «realtà», più degna del bene «in un solo Paese».

Interessante. Ma a noi, più modestamente, preme constatare che non sono solo i tre principali ministri georgiani ad essere israeliani con doppio passaporto. Anche qui in Europa abbiamo i ministri degli Esteri che ci sono stati assegnati da Sion.

Kouchner è ebreo.
Frattini pure.
David Miliband, israeliano con parenti nei territori occupati.
Sarkozy, idem.
La Merkel è mezza ebrea ed allieva spionista del capo ebraicissimo della Stasi, Markus Wolf: anche lei passata dal comunismo al neoconservatorismo.

Se in Europa c’è un ministro degli Esteri che non porta la kippà, vuole di grazia alzare la mano?

La nostra politica estera comunitaria è data in appalto a gente che può avere sfumatore diverse di posizioni, ma il cui centro di «interesse nazionale» vero, ultimo e definitivo, sta a Tel Aviv.

In Germania, in realtà, il ministro degli Esteri è il socialdemocratico Frank Walter Steinmeier (ebreo secondo alcune fonti), che sulla Georgia ha preso una posizione più filorussa di quella della Merkel (appartiene alla «mafia di Hannover», capeggiata da Helmuth Schroeder, il partito dei buoni affari con Mosca); già questo è bastato perchè, nei sondaggi la popolarità di Steinmeier salisse quasi fino a raggiungere quella della cancelliera.

L’opinione pubblica tedesca sa da che parte sta il proprio interesse nazionale, e persino i media germanici esprimono quest’aria: «Basta con la russofobia», titola ad esempio Deutsche Welle, mentre Die Zeit ha sottolineato «la debolezza americana» e Der Spiegel, «La guerra del Caucaso ha assestato un colpo al prestigio americano».

Ma l’universalismo democratico-umanitario è ben presidiato a Berlino, anche dai complessi di colpa tedeschi. Non c’è possibilità che una tale Europa in appalto «parli» a Mosca.

Ciò forse spiega perchè Putin e Medvedev abbiano riconosciuto Abkhazia ed Ossezia del Sud: un atto così contrario al «diritto internazionale» – ossia al politicamente corretto democratico -universalista – da aver stupito persino commentatori russi non ostili. Uno di questi è Fedor Lukianov, direttore della rivista «Rossiïa v globalnoï politike» (Russia e politica globale), e noto analista.

Lukianov aveva appena dichiarato al Guardian che riteneva «improbabile» un simile atto di rottura di Mosca con la cosiddetta comunità internazionale. Oggi, deve spiegare il suo errore di analisi (2).

E lo spiega così: «I dirigenti russi, come la schiacciante maggioranza della società, sono sinceramente sorpresi dell’ampiezza e dell’unanimità con cui l’Occidente sostiene Saakashvili. Mosca non capisce come l’Europa e gli USA possano essersi schierati in massa a fianco di questo individuo colpevole di crimini di guerra, che ha violato tutti i principi che il ‘mondo civile’ proclama. Il fossato tra le percezioni non è mai stato così grave. Nella posizione dell’Occidente, la Russia  non vede più soltanto un doppiopesismo, ma un cinismo non dissimulato, che supera il quadro della normale pratica politica. Il sentimento che è inutile discutere con le capitali occidentali hanno certo reso la posizione di Mosca più radicale».

Riconoscendo le due provincie secessionista, la Russia «ha rinunciato bruscamente ad ogni tentativo di ricevere una legittimazione esterna per le sue azioni, e ha rinunciato ad agire, di fatto, nel quadro del diritto. Non confida più che nelle proprie forze, non avendo più nessuno su cui possa contare».

E ancora: «Non si tratta più nemmeno della Georgia e del suo capo. La posta è notevolmente rialzata: sembra che Mosca abbia deciso di giocare il tutto per tutto e assuma il ruolo di affossatore del sistema di relazioni internazionali, strano e snaturato sotto molti aspetti, che si è instaurato nel mondo alla fine dei due decenni dopo il termine della guerra fredda».

Anche Neboisa Malic, un analista serbo, dà la stessa interpretazione (3): Putin e Medvedev hanno rinunciato ad invocare il loro buon diritto «perchè l’Impero atlantico non ha mostrato nessuna intenzione di ascoltare. Esso ha ‘creato realtà’ con la forza, proclamando che tutto era legale ciò che dichiara tale, e semplicemente ha schifato le obiezioni della Russia... La risposta di Mosca è stata quella di creare la formazione della sua realtà con la forza, in una regione dove la Russia ha le armi e la NATO non ha che le parole... E’ impossibile cominicare con gente così ossessionata nel gestire le percezioni della realtà, da essere diventata incapace di riconoscere la realtà stessa. Nel mondo a rovescio dell’Impero Atlantico, il bombardamento della Serbia è stato umanitario, l’invasione dell’Irak difensiva, l’occupazione dell’Afghanistan democratica, la secessione del Kossovo legale - mentre l’intervento russo per neutralizzare l’armata georgiana e salvare gli osseti dalla pulizia etnica è stata ‘aggressione’ alla Hitler o alla Stalin. Medvedev e Putin non sono angeli, ma non hanno mai preteso di esserlo. Questa pretesa è prerogativa eslusiva dell’imperatore americano: un sintomo di follia che Bush-Cheney, Obama-Biden o McCain-Palin hanno in comune. Per loro, non importa quel che la Russia fa. Qualunque cosa non faccia l’America (e i suoi ‘alleati’) è per definizione il Male».

Naturalmente la Russia, decidendo di sfidare e possibilmente affossare questo «ordine internazionale» della menzogna moralistica, si assume un rischio grave: in questa logica di radicalizzazione, la sconfitta può essere  totale.

Ma evidentemente, ha deciso di non poter vivere in un mondo simile. Un atto di estremo coraggio, che Solgenitsin avrebbe approvato. A meno che non ci siano anche altri motivi, venuti fuori dall’esame dei materiali militari abbandonati dagli «americani» in Georgia.

Voglio citare qui un articolo apparso su TBR.News, un sito che altre volte ha mostrato di avere buone informazioni di intelligence (e a volte, informazioni sbagliate) (4).

Secondo questo sito, Aleksandr Lomaia, capo del Consiglio di Sicurezza della Georgia, avrebbe ammesso che i russi detengono ancora 12 dei 22 miliziani georgiani che hano catturato a Poti. Fra essi ci sarebbero «due ebrei yemeniti in abiti arabi. Sul corpo di uno di questi, i russi che lo hanno interrogato, hanno trovato un plico di documenti, confezionati in plastica e applicati alla schiena con nastro adesivo».

In questi documenti si parlerebbe «del piano israeliano di porre caccia-bombardieri israeliani nella base militare di Mameuli, a 20 chilometri a sud di Tbilisi, per un raid sulla capitale dell’Iran».

La Georgia è notevolmente più vicina al sospirato bersaglio. Gli aerei da usare dovevano essere sei, secondo questo racconto. Ma dalla traduzione dei documenti in ebraico (tradotti dal GRU, lo spionaggio militare russo), risulterebbe che uno degli aerei avrebbe dovuto lanciare su Teheran «antrace militarizzato», attualmente «tenuto in custodia in speciali contenitori presso l’ambasciata USA di Tbilisi».

Teheran sarebbe state avvertita da Mosca; quanto all’israeliano yemenita, sarebbe spirato durante «gli intensi interrogatori».

Ripeto: questa informazione non è controllata nè controllabile. Potrebbe non esserci nulla di vero. Ma se fosse vera, ciò spiegherebbe perfettamente la decisione «radicale» di Mosca di rompere con la «comunità internazionale» che le sta facendo la morale.




1) John Laughland, «Russia and the West: a dialogue of the deaf», Brussel Journal, 27 agosto 2008.
2) Fedor Loukianov, «La Russie joue très gros», Ria Novosti, 29 agosto 2008.
3) Neboisa Malic, «Mistery in Moscow», Antiwar.com, 28 agosto 2008.
4) Brian Harring, «Death from the skies», TBR.News, 24 agosto 2008.


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