>> Login Sostenitori :              | 
header-1

RSS 2.0
menu-1
first_dead.jpg
La superpotenza non ha i mezzi
Stampa
  Text size
Era l’aprile  2003. Sei settimane dopo l’invasione dell’Iraq, George Bush mascherato da pilota da caccia annunciava all’America: «Mission accomplished». Baghdad era caduta. David Frum e Richard Perle, due famosi neocon e veri promotori della «guerra al terrorismo globale», sancirono che quella era «una vivida e indiscutibile dimostrazione della capacità americana di strappare una vittoria rapida e totale».

Il generale Tommy Franks, comandante dell’invasione, modestamente definì la propria strategia  come «senza uguali per eccellenza negli annali bellici». Max Boot, un noto commentatore di cose militari, giunse a scrivere che le forze armate USA avevano superato la Wehrmacht. La rapida disfatta di Saddam rendeva «generali leggendari come Erwin Rommel e Heinz Guderian, al confronto, decisamente incompetenti».

Già nel 2002 del resto Boot aveva esaltato l’eccellenza militare americana, che «supera di  gran  lunga in qualità quei presunti egemoni come Roma, la Gran Bretagna e la Francia di Napoleone». Ormai, con le forze americane che avevano raggiunto «una  superiorità senza confronto in ogni singolo aspetto della guerra», anche gli alleati europei erano diventati un peso morto: «Noi non abbiamo più bisogno dell’aiuto di nessuno».

A leggere oggi queste frasi, maliziosamente riportate da Andrew Bacevich (forse il maggior esperto di strategia militare) nel suo rovente saggio «The limits of power», c’è da tremare di fronte ad un simile auto-incensamento, ad una così ridicola sopravvalutazione di sè; perchè è questo delirio d’onnipotenza a rendere disastrosa l’America, e pericolosa nel mondo.

I generali USA che sono convinti di aver superato Rommel e Napoleone, sono da sette anni in Afghanistan - campagna-lampo, nelle loro intenzioni - e non riescono a vedere la «vittoria»: anzi il nemico si rafforza giorno per giorno, la guerra non ha una fine prevedibile.

In Iraq, dopo quattro anni d’occupazione, gli americani non sono in grado di controllare il territorio. Sono proprio il contrario di Guderian: sembrano giocatori di scacchi principianti, incapaci di concludere la partita con uno scacco matto. E precisamente questa fantasia di onnipotenza  ha indotto Bush a gettarsi in conflitti costosissimi, preventivi, e simultanei su fronti diversi.

Nei giorni dell’11 settembre, egli disse: siamo pronti a «a portare la guerra nel campo del nemico, sconvolgere i suoi piani, e affrontare le peggiori minacce prima che emergano». Nel 2003, ancora ripeteva: «Abbiamo applicato la nuova potenza della tecnologia... per colpire la forza nemica con incredibile rapidità e precisione. Grazie alle nostre strategie creative e alle tecnologie avanzate, stiamo redifinendo la guerra nei nostri termini. In questa nuova epoca dell’arte bellica, possiamo colpire un regime, non una nazione». Iracheni e afghani tendono a dissentire.

Questa folle sopravvalutazione, dice Bacevich, ha creato a Washington una fiducia eccessiva nell’efficacia delle armi americane, che si è tradotta in un costosissimo errore strategico.

«Anche nell’epoca della invisibilità, delle armi di precisione, e delle comunicazioni istantanee, la forza armata non è la soluzione ad ogni problema politico. Anche nella presunta epoca unipolare, la potenza militare americana è risultata alquanto limitata».

Com’è potuto avvenire? A causa, risponde Bacevich, di tre grandi illusioni che si rinforzano l’un l’altra.

La prima illusione consiste nella credenza che gli USA «siano riusciti a reinventare la guerra», una «American Way of War che il mondo non aveva mai visto». Precisamente, di aver trasformato la forza militare, che era un rozzo randello nelle mani dei poveri Guderian e Napoleone, in un bisturi chirurgico. Questa convinzione ha finito per «cambiare la missione stessa della Difesa: la sua funzione esplicita è divenuta non già la sicurezza nazionale, ma di assicurare la preminenza  americana nel mondo».

Da qui l’accanita ricerca, nella dottrina, della «full spectrum dominance», ossia della supremazia  assoluta in tutte le forme di guerra; superiorità che gli stati maggiori USA hanno creduto di aver ottenuto grazie alla «innovazione tecnologica e la superiorità nell’informazione».

Questa dottrina di «full spectrum dominance» deriva direttamente dall’ideologia americanista, accusa l’esperto, dalla credenza (illusoria) nella superiorità dei «valori americani». Essa è, nel settore militare, ciò che la «fine della storia» proclamata da Francis Fukuyama  rappresenta nell’americanismo ideologico.

Per Fukuyama, dopo la caduta dell’URSS, era stato dimostrato che il capitalismo democratico era lo stadio finale dell’evoluzione dell’umanità, non più superabile. La «full spectrim dominance» era il modo terminale di fare la guerra, dopo il quale non se ne poteva immaginare un altro superiore.

I guerriglieri talebani e sunniti, dopo anni di veccchissimi modi di fare la guerra, possono nutrire legittimamente un diverso parere. E l’azione russa in Georgia ci dice che la storia continua.

La seconda illusione, per Bacevich, è nata dalla dimenticata volontà di non ripetere mai più un disastro simile al Vietnam, che aveva rovinato la reputazione di presidenti (Lyndon Johnson) e ministri (MacNamara) e generali (Westmoreland). Dalla riflessione «strategica» sul fallimento, nacque la dottrina Weinberger-Powell, dal Caspar Weinberger che fu ministro della Difesa sotto Reagan, e Colin Powell capo di Stato Maggiore negli stessi anni.

Secondo questa dottrina, gli USA dovevano:
a) combattere solo quando erano in gioco interessi nazionali vitali;
b) per ottenere obbiettivi concreti e raggiungibili, chiari in anticipo;
c) mobilitando tutte le risorse necessarie, «morali e politiche oltre che materiali», per vincere in modo decisivo e pronto;
d) uscendo dal conflitto senza lasciare strascichi e situazioni irrrisolte («lose ends»).

Applicate i punti della dottrina Weinberger-Powell, sopra specificati, all’azione bellica russa in Georgia, e vedrete che è stato Putin, coi suoi generali, ad applicarla alla perfezione. Invece, gli americani l’hanno violata punto per punto. Come mai?

La colpa è dei «bellicosi civili», gli strateghi da tavolino che mai hanno indossato una divisa, la cui «imprudenza la dottrina Weinberger era intesa a frenare», risponde Bacevich, ed ha in mente i neocon israeliti, guerrieri da tavolo come Wolfowitz e Perle.

In realtà, la lezione del Vietnam era stata dimenticata già nel ‘93: allora Madeleine Albright, segretaria di Stato di Clinton, a Colin Powell che nicchiava di fronte all’intervento «umanitario» nei Balcani, disse: «Che senso ha possedere questa superba forza armata di cui parliamo continuamente, se non la possiamo usare?».

Frase rivelatrice: ancora una volta, era la (presunta) potenza dell’armamento a dettarne l’uso, anzichè «gli interessi vitali nazionali» e la «chiara definizione degli obbiettivi, concreti e raggiungibili». Ed ancora una volta, i civili che non hanno mai visto una guerra hanno preteso di usare lo strumento delle armi, visto che ce l’avevano, in modo improprio: «interventi umanitari» o pseudo-tali, «mantenimento della pace» e via. Errore fatale.

Per inciso, quello che sta ripetendo, più ridicolmente ma non meno stupidamente, il nostro Ignazio LaRussa, avvocato di Paternò, mandando i nostri soldati a fare di tutto, dagli spazzini a Napoli ai sub-poliziotti dovunque, fino a proporli come forza d’interposizione in Georgia, dopo che già sono impegnati in una dozzina di «interventi umanitari» che li hanno sparsi per il mondo.

Il Kossovo e il suo status incerto è stato uno dei problemi irrisolti (lose ends) dell’«umanitarismo» della Albright; per tacere della Somalia, del Golfo dove l’effetto dell’invasione dell’Iraq ha prodotto una egemonia non voluta dell’Iran sugli sciiti, e delle manovre mestatrici in Asia Centrale per soffocare la Russia creando «democrazie colorate» tutto attorno, con dittatorelli avventuristi come Saakashvili.

Questo bellicismo infantile di civili incompetenti  («umanitari» per di più, o «portatori di democrazia») ha lasciato una quantità di queste questioni pendenti, incancrenite, ormai irrisolvibili. Dopo aver sputato sugli alleati europei di cui non hanno più bisogno, gli americani dipendono da «alleati-satelliti»infidi, come i pakistani e gli etiopici o i georgiani, che devono armare e pagare.

I generali americani che dovevano seppellire la memoria di Rommel e Bonaparte si sono rivelati capaci di vincere solo quando il nemico si fa scrupolo di combattere come vogliono loro, secondo  le «regole» che permettono di usare i mezzi strapotenti della tecnologia avionica, elettronica e satellitare  - «ma  la fine di Saddam assicura che non troveremo avversari così accomodanti in futuro», sogghigna Bacevich.

E qual è il terzo errore o illusione fatale? Per Bacevich, l’illusione - nata dopo la prima guerra del Golfo, «Desert Storm» - che la società americana aveva superato il trauma del Vietnam con le divisioni e il «divorzio» dall’apparato militare che ne era conseguito.

«Il popolo americano è di nuovo innamorato delle forze armate», disse allora Colin Powell.
«Mai più la nazione abbandonerà i suoi soldati». E dunque, la società - il fronte interno - poteva ingollare la «lunga guerra» promessa da Bush, senza rivoltarsi.

Pia illusione. Sostenuta, in tempo di pace, dalla trasformazione delle armate americane in forze di tutti volontari stipendiati. Allora era facile mostrarsi patriottici, sventolare bandierine il 4 luglio. Ma appena scoppiata la «guerra globale al terrorismo», non si è vista la corsa dei giovani americani ad arruolarsi, abbandonando gli studi ad Harvard e i posti lucrosi a Wall Street. Al contrario.

«Il post 11 settembre ha mostrato l’incoercibile preferenza del popolo americano ad assumere qualcun altro onde espandere la democrazia, combattere il terrorismo e assicurare le fonti energetiche»: immigrari messicani e sudamericani in genere, le stesse frange sociali assunte per pulire le camere degli alberghi e i pavimenti dei ristoranti. A cui si sono aggiunti una nutrita schiera di mercenari strapagati: tragicomico segnale di come l’avanzatissima «revolution in military affairs» facesse di nuovo ricorso ad un passato e superato sistema, abbandonato in Europa da 4 secoli perchè si era appurato che i mercenari non vicono le guerre.

I politici hanno illuso il popolo americano che, con l’armata di soli volontari, si possono difendere l’egemonia USA nel pianeta «senza disturbare le finalità che l’americano medio persegue, la ricerca della felicità individuale». Qui.



Home  >  Americhe                                                                                            Back to top


 
Nessun commento per questo articolo

Aggiungi commento


La Dittatura Terapeutica
L’unica ed estrema forma di difesa da questo imminente, sottovalutato, tragico pericolo particolarmente grave per l’Italia, è la presa di coscienza
Contra factum non datur argomentum
George Orwell con geniale e profetico intuito, previde l’oscuramento delle coscienze, il tramonto della civiltà, l’impostura e apostasia dalla verità che viviamo, quando scrisse “nel tempo...
Libreria Ritorno al Reale

EFFEDIEFFESHOP.com
La libreria on-line di EFFEDIEFFE: una selezione di oltre 1300 testi, molti introvabili, in linea con lo spirito editoriale che ci contraddistingue.

Servizi online EFFEDIEFFE.com

Archivio EFFEDIEFFE : Cerca nell'archivio
EFFEDIEFFE tutti i nostri articoli dal
2004 in poi.

Lettere alla redazione : Scrivi a
EFFEDIEFFE.com

Iscriviti alla Newsletter : Resta
aggiornato con gli eventi e le novita'
editorali EFFEDIEFFE

Chi Siamo : Per conoscere la nostra missione, la fede e gli ideali che animano il nostro lavoro.



Redazione : Conoscete tutti i collaboratori EFFEDIEFFE.com

Contatta EFFEDIEFFE : Come
raggiungerci e come contattarci
per telefono e email.

RSS : Rimani aggiornato con i nostri Web feeds

effedieffe Il sito www.effedieffe.com.non è un "prodotto editoriale diffuso al pubblico con periodicità regolare e contraddistinto da una testata", come richiede la legge numero 62 del 7 marzo 2001. Gli aggiornamenti vengono effettuati senza alcuna scadenza fissa e/o periodicità